lunedì 30 aprile 2007

«L'Attenzione» n. 8 maggio 2007




L’EDITORIALE (Salvatore Ritrovato)
* È sempre aperta la questione armena - di Ottavio Rossani
* Di mappe e mappamondi - di Fabio Franzin
* Dopo la storia è tempo di benedire la terra - di Marco Guzzi
* Frammenti da Amanuense - di Massimo Sannelli
* Il cuore del mondo - di Fabrizio Centofanti
* Ma quanto è vero questo falso - di Fabiano Alborghetti
* OLTRE LA RIVISTA - di Massimo Orgiazzi
* Poesie - di Biagio Salmeri
* Poesie - di Pier Maria Galli

Ultime Recensioni
* Su Innesti di Paolo Fichera - di Alessandro Ramberti
* Terra Matta - lettura di Antonella Pizzo

Il Palazzo vuoto


sengnalazione del «Corriere Romagna» 22-4-07

venerdì 27 aprile 2007

Su Storie di vita


recensione di Vincenzo D'Alessio

Una ragnatela di lana rossa

Ho letto con attenzione il racconto Una ragnatela di lana rossa "dovuto" di Giuliana Guerri alla coprotagonista Valentina restando avvinto dallo sforzo, sincero, dello sviluppo del logorio tra fantasia e socialità.
Tutte le pagine trasudano l'emotività che riconosco solamente alle mamme, alle donne che riescono ad essere madri tanto quanto possono rinunciare al proprio ego per cedere all'amore per il frutto del proprio seno.
Per una madre adottiva è un vero saggio di insostituibile "amore" dove, con questa parola non del tutto verificabile scientificamente, debba intendersi e leggere "sacrificio sempre".
Lo scorrere degli accadimenti è sincrono alle concitate giornate dei nostri tempi. Come pure sono verificabili gli atteggiamenti sociali ai quali chi scende all'adozione si ritrova a vivere.
Siamo una società vecchia e malandata per molte cause, noi europei. Lo dico con la tristezza di un giovane che quarant'anni fa spiccò il volo verso nuovi orizzonti sociali, ritrovandosi praticamente a mani vuote e dimenticato.
Storie che si intrecciano, dolorosamente, violentemente, in una nazione (e non solo la nostra) che continua ad avere paura del "diverso", dell'estraneo, del non nato nella stessa casa.
Troppo dolore circonda la pratica dell'adozione anche a livelli economici più elevati. Troppa burocrazia e troppi esami, con poche efficaci tecniche di insegnamento ad essere padri e madri.
Bene ha scritto Mario Lodi quando, affrontando il problema della presenza dei bambini nel mondo, dice che madri e padri si diventa lentamente crescendo accanto ai propri figli, anche a quelli adottati.
Fa bene leggere questa storia tutta umana e poco incline a guardare verso il cielo o verso la religione come punto di sollievo: il dolore è tutto legato agli esseri umani e sono loro che lo somministrano gratuitamente. La trama del racconto è semplice e funzionale. Potrebbe non essere una storia vera, una storia vissuta da chi l'ha scritta… invece è una storia vera del nostro vivere in seno agli uomini.

Vite avvitate

I quattro racconti brevi di Giusi Sapienza Jouven – "Quel pasticciaccio della rue du Temple", "Insieme", "Caffè turco" e "Hotel quattro stelle" – sono fotogrammi di una esistenza sospesa in angoli senza tempo, in luoghi che anche se descritti assumono valenze magicosensoriali pescando nella memoria personale.
L'ironia con cui si svolgono le vicende e la casualità delle stesse ci riportano alla fervida scrittura siciliana di Verga e Pirandello. Risultano in questo modo facili da seguire e avvincono il lettore alla vicenda.
Belli i personaggi polizieschi, tipici della Trinacria; come pure il simbolico "pappagallo nero" del racconto "Caffè turco", abituato a ripetere alla polizia quanto accade. Come pure la precisazione fatta a tutti i condomini nello stesso racconto: siamo polizia, non carabinieri.
Insomma una sana e fervida rinascita del racconto fantastico, senza eccessive pretese politico sociali, alto quanto basta per imprimere nel lettore l'esigenza di avvicinarsi alle "quattro stelle" dell'hotel dell'esistenza.


Vincenzo D'Alessio
via Sala 29 - frazione S. Felice
83025 Montoro Inferiore (AV)

Su Contrappunti e Tre Poesie Creole


recensione di Monia Gaita (intervista all'autore di Lugi Metropoli qui)

Contrappunti e Tre Poesie Creole di William Stabile offre subito l'impressione di un coro di voci miste che non rinuncia a nessuna delle sue prerogative disvariate di scrittura medusaria fortemente attrattiva. Né risulta pregiudizievole alla salute delle immagini il giacimento di grande potenzialità espressiva di vocaboli variamente metabolizzati dal lessico straniero a premere i pulsanti d'un controcanto nel quale la dualità portante d'armatura "animus et pavor" si spende profusamente non toccando mai le prode tassative d'una scelta inaffondambilmente allineata. La malleabilità accorta d'uso dell'inglese converge a sollecitare un indirizzo comunicativo spesso e vibratile, nell'approdo vivifico-fecondo a una decorazione dinamica che non ha nulla di irrigidito e preferentemente strumentale: (p. 23) «I was walking in the rain / Nothing. / Non c'è niente dietro la lamina di platino». E davvero la scrittura s'incassa rompendo le zolle vizze di pose artificiose tra preciìpiti costoni di paziente zelo inventivo, camminando fuori delle zebre piattamente iperstrutturate del piogenico già detto: (p. 26) «Pastoso di avocado me ne vado / In un nocciolo uterino, / Satellite verde della terra. / Inasprito da gocce di limone… / Prima di morire, / Mi passerò la mano tra le foglie tropicali / Mangerò mamey, tamal y mechoacán / E come un guapo vestito di pollera / Attraverserò i confini ballando una bachata». L'uomo è «goccia d'acqua su un filo che scorre via» tra pingui vivande di oggetti materiali pigiati come acciughe, a zampillare esuberanza risoluta, a muovere un volante gomma piena d'inarreso, a fare buona pescagione di valori condivisi, a reggere il timone di comando dei motivi per andare avanti malgrado tutto. Il poeta prende la parola sui temi più disparati, trapassando da parte a parte le pelagiche inquietudini della modernità: (p. 45) «Uomo del mio tempo, dopotutto, / che cosa ti rimane? / Il silenzio della strada ti avvolge / mentre ti sfila l'uniforme / – per una guerra che non è tua – / che ti hanno messo addosso questa mattina… / Un biglietto nella mano – dell'ultimo giro – / come un bimbo triste / di una giostra su cui non sei mai salito, e poi? / Un sogno: il volto del Guerrigliero / impresso sulla maglietta.» «È un abito collettivo il dolore» recita la lirica Sulla faccia del quadrante quasi a confermare l'inevitabilità per ciascuno, prima o poi, di salire il pendio delle difficoltà nell'incendio di vaste proporzioni degli incanti violati. Eppure dal messaggio non propaggina il gioco di stantuffi punitivo della resa; oltre il purulento delle disfatte abominate, la volontà si fa accanita fumatrice di speranza, attingendo vis e afflato rinnovato da quella che l'autore chiama in via metaforica "Gran Signora": (p. 43) «La Gran Signora e Tu, poeta, / vi guarderete negli occhi, / finalmente nudi, / seduto sulle sue ginocchia. / Tua è l'estasi. / Ti sarai spogliato del vestito sudicio / che ti metti addosso: / perché se non sei poeta non sei nulla». Il capitalismo alimenta invece amare certezze coi suoi frutti allappanti che vanno intimando l'alt ad un progresso equilibrato per le molteplici fasce sociali: (p. 34) «sei come quei becchini / in servizio permanente / con un piede sull'orlo della fossa / che aspettano di rimboccare / un po' di terra fino al prossimo contratto / di lavoro temporaneo / … voglio dirti addio / capitalismo. / Per piacere / non venirmi a cercare: / sì io sono un comunisat / solo perché penso un po' / non faccio shopping a Natale / non voglio l'I Pod / e me ne vado a spasso piano piano.» Il libro sembra dibattersi nell'ancheggiante alternativa della colloquialità spedita e della complessità prestata fantasiosa all'espansiva ricchezza del discorso. Una poesia quindi, dal carattere energico che si esime da ogni elastica tentazione di chiusura ermetica con l'esterno: le parole, senza freni d'emergenza, arrivano al lettore elevando di parecchio i piani di strada dell'emozione pura e di un sentire in presa diretta in grado di realizzare la riconoscibilità più coinvolgente e piena.

giovedì 26 aprile 2007

Su La Merca


Giovanni Choukhadarian in La Poesia e lo spirito

«Il primo libro di Chiara Daino ha 4 sezioni, 23 capitoli (non tutti titolati) e 131 pagine non numerate. Vi si citano, fra l’altro, il Julius Caesar di G. Shakespeare, Tiziano Ferro, il «Decimonono» (nel senso del giornale), la Beck’s (nel senso della birra), una gran dama dell’Ottocento europeo cuyo nombre no quiero acordarme e molto altro ancora. La Merca ha sembianze smilze, ma è un libro tanto, un prodotto grande. Trabocca di vita e ricerca, convince anzi che i due sostantivi sono all’incirca sinonimi. Piacendo al cielo, non cerca l’intransitivo a ogni costo, né di piacere alla gente che dispiace. Romanzo in che sanamente si parla di malattia, in cui il gioco di parole echeggia Saussure e non Bartezzaghi jr, da leggersi ad alta voce per il suo alto magistero fonosimbolico.»

martedì 24 aprile 2007

Anno Santo 1975 a Pero




SABATO 19 MAGGIO 2007 ORE 21
a PERO
presso il CENTRO CIVICO DI VIA TURATI, 21

presentazione del libro

ANNO SANTO 1975 da Milano a Roma a piedi

di Nino (Nicola) Di Paolo

il racconto di un viaggio e di tutti i pensieri di allora e di oggi

accompagneranno la presentazione i musicisti del gruppo “I VIANDANTI”
Emanuele Scataglini, Barbara Rosenberg, Livio Boccioni

Gunjaca in Letteratura Italiana (Bastogi, 2007)




Drazan Gunjaca è nato a Sinj, dove ha terminato la scuola media. Conclusa l'istruzioni militare a Spalato, ha servito per una decina di anni nell'ex marina militare jugoslava. Nel fratempo si è laureato in Giurisprudenza a Fiume, per poi lasciare l’ex armata popolare jugoslava. Di dieci anni è avvocato a Pola.
Nel 2002 ha scritto Congedi balcanici (tradotto e pubblicato in Germania, Australia, America, Bosnia e Erzegovina, Jugoslavia e pubblicato pei i nostri tipi in Italia). Ha inoltre pubblicato la raccolta di poesie Quando non ci sarò piu; il romanzo Amore come pena (il seguito di Congedi balcanici); i drammi Il lato in ombra della ragione e Roulette balcanica; i romanzi A metà strada dal cielo (prima parte della trillogia sulla guerra nei Balcani), I sogni non hanno prezzo e Buona notte, amici miei.


Drazan Gunjaca, avvocato croato in Pola, è letterato dedito alla poesia, alla narrativa ed al teatro per il quale ha pubblicato “les pièces” drammatiche Il lato in ombra della ragione e Roulette balcanica, che ci giunge tradotta dal croato da Srdja Orbanic e Danilo Skomercic. Trattasi di una farsa tragica i cui protagonisti sono due ufficiali dell’ex esercito federale che si ritrovano da due parti opposte, per gli eventi politici di cui tutti siamo a conosenza. Il tempo dell’azione è il fine settembre del 1991, verso mezzanotte. Il luogo è il soggiorno di un appartamento al quarto piano di un condominio a Pola, arredato con gusto, ma sobriamente: un divano, due poltrone, un tavolino e uno scaffale, sul quale c’è un televisore acceso benché le trasmissioni siano già terminate, qualche vaso di fiori in un angolo della stanza. I personaggi protagonisti sono: Petar capitano dell’esercito Serbo e Mario capitano dell’esercito croato. I comprimari sono in ordine: un poliziotto militare, due poliziotti croati, il medico con l’infermiera ed un vicino di casa di Petar, questo per dire che la pièce ha facile rappresentabilità teatrale. Petar e Mario sono a confronto ed uno, il serbo, dovrà cancellare le norme deontologiche e gli ideali di cui era stato portatore; in questo iato e questa dicotomia si andrà sino alla fine che non riveleremo per mantenere viva la “suspence”. La conversazione a due, alla quale si aggiungono altre voci, si trasforma in dramma, come già preannunciato e sotteso nella metafora del titolo della piéce, nell’urgente ricerca di una lingua aderente al nostro parlato generazionale, sapientemente costruito in modo strutturale, riattualizzando le gesta del comunismo, di cui i due protagonisti sono conoscitori, così come è stato vissuto nella Jugoslavia, considerandone la fine ed il relativo disfacimento di rapporti fra individui e la loro vita di relazione che in qualche modo sembra intaccata dagli infausti eventi. Così lo scrittore si pone con “Understatement” accattivante dal punto di vista del linguaggio, ma anche per rigore di osservazione e di idelologica oggettività, per precisione temporale, che in tal caso rimane statica, mentre le repliche interdialogiche sono piane e di lunga estensione, e la contaminazione lingustica ha talora tocchi di grado infimo, pur mantenendosi la scrittura a livello di hi-tech, son architettura solida i ben costruita. I grandi processati del dramma sono: la guerra e gli assurdi conflitti etnico-religiosi, specialmente quelli tra musulmani e cattolici, ma anche i poteri non democratici, che creano nell’uomo sterilità e dissociazione. L’autore parla di persone concrete e di fatti veri, che appartengono al nostro vissuto, ed il suo messaggio vuol essere reale e propedeutico, anche attraverso quegli intecalari di turpiloquio che ormai fanno parte della vita dei più giovani. Lo scrittore costruisce l’introduzione con due exergo, uno dei quali recita: “Fare del male non è, in verità, così diabolico quanto… il suo rinomarlo bene. Ciò significa togliere a tutte le morti la loro importanza, capovolgerle, leggerle all’inverso… Capovolgere e da dentro abbattere i criteri della verità. E alla fine, nella bocca della verità mettere le bugie!” (da “La parte del diavolo”) autore Denis de Rougemont. Opera, dunque, che evidenza una difficile normalità, inquietamente negativa e redentiva allo stesso tempo, dove c’è complessità psicopatologica e critico letterario di Novi Sad, Serbia Rastislav Durman, a proposito di Gunjaca ci dice: “… il ritmo quasi impazzito di un rondò è procedimento caratteristico dei romanzi di Gunjaca (si può parlare di un certo tipo di ritmo come costante dello stile di Gunjaca). Dopo il climax all’azione subentra la calma…” Ma sappiamo che lo scrittore è anche poeta, infatti ha all’attivo una raccolta di poesie dal titolo Quando non ci sarò più che attendiamo tradotte. Riconoscersi nella modernità, oggi come mai, significa calarsi nella storia, per cui queste traduzioni che ci permettono scambi culturali a livello eurepeo, ben giungano provvidenziali per aiutare l’Europa stessa ad aprirsi ad una prospettiva più universale.

(da LETTERATURA ITALIANA, Poesia e narrativa dal Secondo Novecento ad oggi, Bastogi, Editrice Italiana, 2007)

lunedì 23 aprile 2007

Ritrovarmi (Paola Castagna)



altre opere qui


Penetra

Parole che si diradano
non conosco
l’attesa reale che mi aspetta

Mattinale pesante
tra il trattenere femminilità orgasmica
e voler vivere

Comprimere
o
liberare?

Può dipendere
da una minima
gestualità
può essere
vitale quello che pulsa

Mentre mi soffermo
sul comportamento adottato
stare addosso

Poi
nei miei viaggi
a pochi concedo
un passaggio, uno strappo
verso quell’isola ostinata

Penetra
se consideri il vero
penetra
se pensi che io sia vera
penetra
mentre mi dici
Sei l’unica cosa viva
in un mondo di morti.



Se non scrivo


Se non scrivo
è perché voglio vederti

non te lo mando a dire
mentre abbraccio
l’idea comune

se non scrivo
voglio il respiro come china
da adoperare

sei nel pensiero
di tenere
la testa calda a protezione

con me ti scaldi
ti raffreddi
quasi un circolo vizioso
di estasi

mentre il sole
già batte sugli scuri che socchiudo
mentre non conosco
ciò che il giorno
sta portando
via da me.



Ritrovarmi

Ritrovarmi
qui come fosse normale
il gonfiore agl’occhi
mentre ti invito
ad andare
avendo riguardo di ciò che sei

vorrei ricordare
il tuo corpo
senza l’ombra
di un incubo perfetto
diventato

senza darti
oggi
le parole
vere
che tanto ti sventolo
sulla faccia
come se fossero
bandiere
di un paese liberato

la terra
che hai visitato
già la conoscevi
mentre
sprovveduto
sei stato
sul mio respiro
dove scrivo
quello che dentro
sento

ho scritto addosso
senza pensare
che il gioco di vivere Vera
mi avrebbe preso la mano

rivelo un segreto
al solo che non sa
mentre il resto
degli esseri umani
mi guardano negl’occhi
penetrando la carne

Lui tocca
picchia
fustiga
accarezza
succhia
bacia
coccola
dondola
offende
ama
tu nel reale
altro dove
così a distanza
nemmeno lo sai.

(precedente post di Paola qui)

sabato 21 aprile 2007

Carla De Angelis premiata due volte!




Vivissimi complimenti a Carla e ad maiora!

La giuria della V edizione del premio “Kriterion”

Ha premiato per la sezione A (Poesia edita per adulti)

I° Premio ex aequo Alfonso Attilio Faia – La terra Promessa- Edizioni Del Delfino.
I° Premio ex aequo Carla De Angelis – Salutami il mare - Fara Editore
2° Premio Paolo Borsoni – Noi che volevamo apprestare il mondo alla gentilezza- Besa Ed.
3° Premio Franca Olivo Fusco – Di tanto in tanto – Edizione Del Leone.

Premio speciale a: Pasquale Martiniello – Occhio della civetta- Editrice Ferraro

E per la Sezione C (Narrativa Edita)

I° Premio Carlo D’Amicis “Escluso il cane” Minimum fax Roma;
2° Premio Ugo Cundari “Mistero Napoli” Tullio Pironti Editore Napoli;
3° Premio ex aequo Maria Grazia Maiorino “L’azzurro dei giorni scuri” peQuod Edizioni Ancona.
3° Premio ex aequo Antonio Spagnuolo “Un sogno nel bagaglio”Manni Editore Lecce

Premio Speciale Testimonianza “Achille Siciliano” a: Carla De Angelis Diversità apparenti Fara Editore (Sant’Arcangelo di Romagna).

Premio Speciale della Giuria a: Annamaria Gargano “Prima che la luna tramonti” Mephite Edizioni.

La cerimonia di premiazione della V Edizione del concorso letterario Kriterion avrà luogo sabato 12 maggio p.v. alle ore 17.00 presso la Sala Convegni della Banca della Campania Collina Liguorini (Avellino). Per info e risultati delle altre sezioni: aipdconcorso@virgilio.it
Le poesie vincitrici e brani tratti dai racconti premiati saranno letti dagli attori dell’associazione culturale Logopea.
I premi in denaro non ritirati personalmente, o tramite delega scritta, saranno devoluti all’ Associazione Italiana Persone Down sez. di Avellino.

Massimo Sannelli su Universo TV




Wilma Stefani intervista Massimo Sannelli sul suo libro pasoliniano. Vai al video

http://www.universotv.it

venerdì 20 aprile 2007

Mosse per la guerra dei talenti


Marco Merlin presenta:

Igor De Marchi, Martino Baldi, Andrea Ponso, Tiziana Cera Rosco, Francesca Serragnoli, Gabriel Del Sarto, Paolo Fichera, Adriano Napoli, Daniele Piccini, Alessandro Di Prima, Filippo Neri, Andrea Raos, Riccardo Ielmini, Mario Fresa, Matteo Veronesi, Alessandro Rivali, Massimo Sannelli, Tiziano Fratus, Isabella Leardini, Pierre Lepori, Roberta Castoldi, Giovanni Tuzet, Roberta Bertozzi, Paola Turroni, Massimo Gezzi, Oliver Scharpf, Jacopo Ricciardi, Florinda Fusco, Matteo Marchesini, Stefano Massari, Italo Testa, Flavio Santi, Elisa Biagini, Simone Cattaneo, Vanessa Sorrentino, Andrea De Alberti, Fabrizio Bajec, Francesca Genti, Stefano Lorefice, Gianluca D'Andrea, Michele Zaffarano, Alberto Cellotto…

Sono dunque quarantadue i poeti messi in gioco in queste pagine ulteriormente arricchite dai commenti dei postfatori: Matteo Fantuzzi, Massimo Morasso e Salvatore Ritrovato.

Il palazzo vuoto e Interrail


Freschi di stampa due volumi diversamente impegnati:

La acuta e propositiva analisi di Alberto Rossini ci indica, ne Il Palazzo vuoto, una strada possibile per dare un senso al fare politica oggi, al nostro ruolo di cittadini, alle istituzioni nazionali e sovranazionali in un punto della storia umana in cui la transizione verso nuove forme di regolazione del potere è quanto mai incerta e suscettibile di pericolose (antidemocratiche ed economicistiche) derive. La situazione viene analizzata con occhio acuto e chirurgico, ma lasciando spazio ad un sano ottimismo che sa valorizzare la persona e prospetta una prassi delle relazioni (non solo fra individui, ma anche fra questi e le organizzazioni che ne regolano di fatto la vita) che sia rispettosa e solidaristica: «… bisogna partire dai punti qualificanti della nostra vita, dalle esperienze concrete, indispensabili per poter individuare le azioni da intraprendere formulando proposte effettivamente praticabili volte a modificare uno stato di cose che non ci piace e non ci rende felici.»

Alberto Rossini è nato a Roma nel ’58. È sposato e padre di due figli. Si è laureato in filosofia a Bologna (ha curato per Fara, Dio. Prima parte dell'Etica). Ha lavorato nella formazione professionale come responsabile di corsi ed attività di ricerca. È stato segretario sindacale e poi direttore della Confcommercio di Rimini; vicepresidente di Itinera (centro internazionale di studi turistici) e componente della Camera di Commercio di Rimini. Attualmente è Assessore nella Giunta della Provincia di Rimini. Ha pubblicato vari saggi sul turismo e il commercio, tra cui Rimini ed il Turismo, edito da Franco Angeli nel 2003 e La metamorfosi di Rimini pubblicato da Guaraldi nel 2006.



Interrail, la silloge opera prima di Stefano Sanchini, come dice Davide Nota, profana: «… il tempio delle banalità di massa con lo scandalo della poesia. […] Si inizia con il tema del viaggio, dai tunnel dell’oblio alla luce della realtà. Stefano Sanchini, con la sensibilità e l’innocenza di un novello poeta popolare, attraversa e scava le città della nuova Europa, tra i detriti di un’umanità ridotta a cumulo di merci e i bollettini di guerra dal fronte orientale. A interrompere l’inferno cieco della storia contemporanea è il riemergere del paesaggio naturale, tanto caro al poeta, tra paesini disabitati, cani randagi e l’antica vegetazione del mondo. Qui, nella visione epifanica del passato sopravvissuto, il presente storico è sconfitto, inglobato in quell’eterno ritorno di saggezza popolare e di gioia di essere al mondo. Perché “l’infinito è il tempo di chi viaggia”. E perché “il mondo nel suo vagare ritorna”.»



Gli indirizzi ai quali mandiamo la comunicazione sono selezionati e verificati, ma può succedere che il messaggio pervenga anche a persone non interessate. Potete perciò opporVi, ai sensi dell'Art. 13 della Legge n° 675 del 31/12/1996, in tutto o in parte al trattamento di dati personali che Vi riguardano specificando l’indirizzo mail che volete venga cancellato.

martedì 17 aprile 2007

Che cos'è la verità (Ardea Montebelli)



Resterai stupito
se ti mostro
una per una
tutte le cose di qui,
passano via
stranamente
si cambiano
senza posa.

***

Che cos’è la verità?
Un abisso che si veste di metafore,
il lungo abbandono del cuore
in attesa di un segno finale,
quel soffio che salva
come un grido di sollievo.
Nel volgere ignoto
di un respiro di luce
l’ultima conoscenza
pare scandire:
la morte,
la vita.



I versi di Ardea Montebelli affrontano con umile essenziale sagacia i temi dello spirito, del senso e del dolore/amore che segnano l'ascesi di ogni cammino (anche laico).
Ardea Montebelli è nata e vive a Rimini. Ha pubblicato cinque raccolte di poesie e un catalogo fotografico dal titolo Cari, vecchi frammenti. Sia i lavori poetici che quelli fotografici costituiscono un approfondimento della Sacra Scrittura. Con Fara ha pubblicato nel 2001 Il paradosso della memoria. Meditazioni in versi sulle Lettere di San Giovanni e nel 2005 in FaraPoesia la plaquette Un’anima intera (dal Cantico dei Cantici). Con Guaraldi ha pubblicato nel 2005 Ma tu non dartene tormento dedicato alle vittime della shoah.

Due recensioni di Cristina Babino su «Stilos» n. 7


3x2 a S. Alberto di Ravenna


il 14 aprile 2007 alle ore 17.00

presso la Biblioteca di S. Alberto (RA)
già casa di Olindo Guerrini

ha avuto luogo un incontro intenso accogliente e parteciapato con Natascia Ancarani e Patrizia Rigoni

vincitrici del concorso Pubblica con noi e inserite in 3x2

si è aggiunto anche un altro fariano, Alex Celli, che ha letto suoi racconti da Antologia Pubblica. L'incontro è stato introdotto da Stefano Ravaioli (Presidente della Circoscrizione di S. Alberto) e gli autori sono stati brevemente presetanti dall'editore e, in modo più articolato e avvincente, da Nadia Ancarani (insegnante di filosofia).
Fotoracconto qui

Bestiario (di Andrea Rivola)


dal 13 MAGGIO al 3 GIUGNO 2007
FUSIGNANO (RA)
Centro culturale il Granaio
Piazza Corelli,16

La mostra sarà visibile dal Giovedì alla Domenica dalle ore 15.00 alle 18.00. Nei giorni festivi apertura anche dalle ore 10,30 alle 12,00. Ingresso gratuito.
Si tratta di una mostra che ospita non solo le meravigliose illustrazioni di Andrea Rivola ( con una selezione di opere realizzate dal 2000 al 2006), ma anche una festa fatta di laboratori d’arte, letture animate ed incontri per ragazzi e bambini.

Inaugurazione Domenica 13 Maggio alle ore 16,30 con una merenda speciale, il laboratorio del legno La Lanterna Magica di Sergio Spada ed una lettura animata per tutti i piccini.

L’iniziativa è promossa dal Comune di Fusignano in collaborazione con diverse realtà locali : Il Cerchio centro educativo, la Biblioteca Carlo Piancastelli ,
le classi dell’ Istituto Comprensivo Battaglia Fusignano, la Biblioteca Carlo Piancastelli, Auser, Pro Loco, Agis.
Si ringrazia per la cortese collaborazione il Comune di San Giovanni in Persiceto
e La Clessidra di Lugo di Romagna. L’iniziativa è patrocinata dalla Regione
Emilia-Romagna e dalla Provincia di Ravenna.

Andrea Rivola, nato a Faenza nel 1975, si è diplomato al Liceo Artistico di Ravenna; nel 1999 e nel 2000 è stato segnalato alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna. Nel 2002 ha vinto il primo premio al Concorso Internazionale di Illustrazione “Omaggio a Bertoldo” del Comune di San Giovanni in Persicelo (Bo) e nel 2003 ha ottenuto il Premio “Miglior libro illustrato 3/8 anni” al Concorso Internazionale “Sulle ali delle farfalle” di Bordano. Nel 2004 ha ottenuto il quarto Premio al Concorso Internazionale “Il Gatto con gli stivali” indetto dall’Accademia Pictor di Torino.
Nel 2006 ha ottenuto il Premio Award per l’illustrazione italiana
Molte le pubblicazioni di Andrea Rivola, ecco l’elenco dei libri che ha illustrato:

• Shiro di Francesca Gastaldi Gallo (Edicolors – Genova, 2001)
• Il latte di Rainbows di Francesca Gastaldi Gallo (Edicolors – Genova, 2002)
• Calcio in testa di Sergio Bozzi (Falzea Editore – Reggio Calabria, 2004)
• Dei mestieri di Matteo Cava (Bacchilega Editore – Imola, 2004)
• Bertoldo di Roberto Piumini (Diabasis – Reggio Emilia, 2004)
• I’m thirsty di Sumark (AgaWorld – Seoul, Korea, 2005)
• La formica hippy di Oreste De Fornari (da “La Baia delle Favole”, Giunti Editore, Firenze, 2005)
• Fasì la cut di Anna Andrini (Bacchilega Editore – Imola, 2005)
• Cake Book (AgaWorld – Seoul, Korea, 2006)
• Blue Valentine di Andrea Pagani (Bacchilega Editore – Imola, 2006)
• Per fede e per scaramanzia di Anna Andrini (Bacchilega Editore – Imola, 2006)
• La fatica e l’ingegno di Anna Andrini (Bacchilega Editore – Imola, 2006)

Informazioni: www.comune.fusignano.ra.it
Telefono .u.r.p 0545.955653-0545.955672 Fax 0545.50164

Saturnalia (di Simone Lago)


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saturnalia


Ho voglia di una luce che si accenda nei cieli e annunci
la venuta di un bimbo già morto
che renda vano viaggiare
per i deserti e la speranza dell'acqua dimenticare la vita
stessa. Ho bisogno di cambiare il mio nome in Tommaso
toccarti e dire amore non è vero, io non credo
ma sento il sudore colare le vene pulsare e a questo cedo,
per questo rinuncio a consolazioni e null'altro bevo
che i tuoi umori.

Sarò blasfemo in questo osannarti terra per me disperso
in altri mari anni luce lontano dagli incavi
delle tue mani, vorrò
vigliaccamente abbandonarmi all'onda di dicembre
altrove per qualche riva dell'asia, pastore in assenza di luna:
saprò orientarmi ancora senza lancette in quest'ora
puntando le dita dove?

Relativamente mi concedo al niente del tuo alito e senza
la linea del tempo sarei
sabbia che cammina se stessa, parete dell'orma fasulla,
e la mano del vento che l'annulla.


Scrive Simone: L'ho scritta in brevissimo tempo, ma non contiene né temi né toni che mi
riguardino da vicino. Che mi è successo? Idee? :)

A me sembrano versi di una spiritualità passionale, Simone, alla Cantico dei cantici: perché non te la spieghi? Io credo che il nucleo della persona sia veramente spirituale in gioco con il corpo che ci ancora alla storia e che la incide facendosene incidere (insomma c'è comunque una lotta, l'importante è che sia una lotta non per rivendicare la idolatrazione del sé, ma per esprimere la gratuità del noi attraverso il Vangelo di Gesù … cosa facile a dirsi molto meno a farsi… be' con questo mini trattato "teologico" ;) forse si potrebbe aprire un dibattito nel blog…

lunedì 16 aprile 2007

Canzone (di Paola Castagna)


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CANZONE I


Quando vieni
lo fai al mattino

come gli amanti
nella penombra di un imbrunire

Quando vieni
fallo per me
una forma paradossale d’amore

quel compenso
che si va cercando

Pavoneggi nel varcar la soglia
porti ai piedi
zoccoli d’altri tempi
sulle scale

È uno specchio
un vetro smerigliato
che rende prezioso
il ritorno

Quando vieni
lo fai in un giorno di sole
mentre la pioggia
inzuppa la faccia
pregna di umori

I tuoi zoccoli
uno scalpitio di simbiosi
mentre a rilento
conto le ore

Non spostare le lancette
all’orologio
appeso in cucina:
segna il tempo
svolazzante
come la zanzara
che ieri custodiva
la mia pelle

Quando vieni
non scordare nulla
nel dimenticare tutto

Scendo in gola
come una grappa morbida
sciolgo ogni titubanza

Vieni mentre io decido di restare
a contare le ore nell’adagio del silenzio

quando vieni
– che di rado si sa –

quando te ne vai
– che si conosce sempre.



CANZONE II

Il profumo della torta
riempie le impronte
dei passi scalzi
che la stagione concede

apparecchio la cerimonia
presto verrai

di giorno
nell’allungarsi delle ore

nel nostro passato remoto
la notte
ha reso il sogno

eternità creata
unione dalla quale nulla scinde

vieni
non essendoci alternativa
venire
solo
senza ombra o pensiero

aprire la porta
alla venuta
come gambe spalancate
dove la carne pulsa e arde.

venerdì 13 aprile 2007

Kermesse letteraria a Riccione 12 maggio


Con il patrocinio del Comune di Riccione – Assessorato alla Cultura

Autori sommersi? Tuffiamoci!
Incontro con poeti e narratori emergenti
che riescono a bucare il mare dell’indifferenza


Sabato 12 maggio 2007 dalle ore 15.00 alle ore 19.30
presso la Villa Mussolini
Via Milano, 31 (vicino viale Ceccarini, 5 minuti a piedi dalla stazione)
47838 – Riccione (ingresso libero)



Leggerano nello spazio di una canzone loro cose: Alberto Rossini - Caterina Camporesi - Massimo Sannelli - Enrica Musio - Mimmo Cangiano - Alex Celli - Lorenzo Mari - Franca Mancinelli - Alessandro Moscè - Gianluca Brogna - Giovanni Fierro - Corrado Giamboni - Subhaga Gaetano Failla - Barbara Magalotti - Nicola Di Paolo - Franco Casadei - Giusi Sapienza Jouven - Giuliana Guerri - Carmine De Falco - Natascia Ancarani - Luca Ariano - Stefano Sanchini - Loris Ferri

Il programma in dettaglio qui

E se la vera poesia fosse la poesia di Massimo Sannelli?


di Patrizia Bianchi


E se la vera poesia fosse la poesia di Massimo Sannelli?
Ogni volta che leggo le poesie di Massimo sono in difficoltà. Sono difficili? Non sono poetiche? Forse perché non sono descrittive? O perché non lanciano un messaggio discorsivo, descrittivo, verboso? Ma in fondo – che cosa è la poesia? Che cosa non è?
Allora ho guardato in modo diverso, da ogni angolazione. E mi sono detta: SE QUESTA FOSSE LA VERA POESIA? SE MASSIMO SANNELLI FOSSE L’ULTIMO POETA? (e il discorso sulla poesia si chiude definitivamente, come se avesse concluso un percorso. È davvero detta l’ultima parola?). Non è provocazione o presunzione.
La forma del suono nella poesia di Massimo è talmente pura da rendere infruttuosa ogni e qualsiasi interpretazione. Come nella musica: la si ascolta senza intralciare il suono. Che fine ha fatto la poesia? È poeta chi riconduce la poesia a sé come è stato naturale – e quindi fa poesia. Massimo mette in forma pura le voci e le lega al suono. Nascono i versi: sonetti difficilissimi da far entrare nell’orecchio, perché è diseducato al linguaggio scritto ad arte. Non è un linguaggio comune – quindi non è mediatico, non mediato, inadatto a dare risposte, consolazione e piacere istantaneo.
Leggere le poesie di Massimo comporta un’attentissima preparazione e accoglienza del bello in quanto bello. LA POESIA STESSA SI SERVE DI SANNELLI PER ESSERE VIVA. Massimo non ha scritto la poesia di Massimo. È una disciplina che si legge – e che legge se stessa – in solitudine. Ma oralmente assume una personalità, perché la voce di Massimo la rende più umana e reale. Voce calma ma ferma.
Siamo abituati a letture facili con un impatto ravvicinato. Pensiamo: «se mi emoziona, è poesia». E non riusciamo a distinguere. Poesia è il non detto, il non dire, il non entrare nel pettegolezzo; o è un colloquiare tra stanza e stanza. La poesia è appartarsi e dire in silenzio, senza mediazione o intervento. Non ha bisogno di un interlocutore (l’altro è se stesso, che si riflette nello specchio). La parola è un tempio e lì resta isolata, chiusa. La si può guardare da vicino o da lontano, ma nessuno entra, perché non c’è porta; non si spiega ciò che non ha nulla da spiegare. Essere o sentirsi poetici non vuol dire essere poeti. Essere poeta significa costruire senza rompere la parola; rendere udibile la parola senza rimandare le voci a nessuno. Questo è il linguaggio puro. Un poeta ha questa voce universale. Massimo Sannelli fa poesia perché è un poeta sia quando scrive sia nella vita di tutti i giorni: senza distinzione tra quello che scrive e come vive. La sua grazia non è molle, ma rompe le catene di una presunta libertà. Chi è sordo, è sordo in ogni caso: non sentirà né l’urlo né il soffio.

www.patriziabianchi.blogspot.com

giovedì 12 aprile 2007

Su Diversità apparenti di Carla De Angelis


recensione di Vincenzo D'Alessio (via Sala, 29 - S. Felice, 83025 Montoro Inferiore, AV)

Sono contento, sono sereno. Provo gioia nel leggere quasi cento pagine di quello che è il vero racconto della vita: Diversità apparenti di Carla De Angelis.
Ho provato la stessa, immediata gioia quando ho letto il libro Il coraggio dei sogni di Zina Righi. Al momento gli argomenti trattati sembrano differenti tra loro. Invece la caparbia volontà di perseguire una meta. Eppure: «Per fare questo io ho avuto bisogno di salire tutte le scale della disperazione, fino alla rabbia e alla voglia di annientare il mondo per poi scendere verso la comprensione, la tenerezza e l'accettazione della realtà.» (p. 62)

Mi fa provare una immensa, sconsiderata gioia che alla fine, "gli invisibili" della nostra civile società in questo angusto pianeta terra, divengano le pietre vive di una costruzione che forma una scala di valori accettabile, condivisibile, partecipante.
Troppe volte da bambino, quando ero un chierichetto nelle processioni del mio paese di origine, ho veduto volti nascosti dietro gli usci delle case a pian terreno. Troppe volte nei manicomi finivano persone che altro non avevano se non una "diversità apparente". Troppe volte le famiglie sentivano sussurrare: "Se hanno un figlio così è colpa dei loro peccati o di quelli dei loro antenati.

Avevo già letto Carla De Angelis ed ascoltato nelle sue poesie il peso, turbinante, della parola che disseta il seme posto a marcire per dare nuova vita. Sempre vita. Ancora vita, alla vita stessa più ce alla speranza. Anche se credere alla vita non allontana il desiderio di saper sperare.
Questa volta il dialogo, retto dall'avvocato del diavolo, Stefano Martello, ha rotto gli ormeggi alla piccola imbarcazione e la forza dell'amore ha fatto prendere il largo alla parola/vita.
Un libretto bellissimo che andrebbe adottato dai servizi sociali di tutti i comuni d'Italia, piccoli e grandi. Affidato alle Asl per il proprio personale. Consigliato agli addetti ai lavori sociali per confidare di più nella riconoscenza che noi tutti, lettori, accreditiamo al loro mal pagato lavoro.
Quanto pesi il potere amministrativo locale, provinciale e regionale, nella vicenda umana riportata in questo volumetto è facile intuirlo: «La realtà è che abbiamo perso l'attenzione all'importanza delle parole; personaggi pubblici ci danno ad intendere che non abbiamo capito o che abbiamo capito male. E ognuno inventa e ha la pretesa di dare altri significati alle parole dette.» (p. 60)

Alla fine il bambino diverso, di cui parla questo lavoro, resta un "invisibile" essere umano a carico dei suoi familiari, che non vivranno più di lui, che non possono far fronte con la propria economia a tutto il presente e il futuro della persona che sentono uguale a loro, viva, partecipe (forse con una intensità alla quale non si è mai abituati) della loro famiglia.
Quanto più saranno, i cittadini diversamente abili, compresi insieme a quelli ritenuti "homo abilis", tanto meno sconforto ci sarà alla nascita di una creatura umana diversa.
Grazie mamma Carla per aver dato voce a Roberta e a milioni di esseri umani simili a lei!

(aprile 2007)

martedì 10 aprile 2007

Un inedito di Giovanni Nuscis


Non chiedetemi se credo.
Per l’amore che porto alla parola
e al mistero non rispondo.
Domandatemi se immagino
Cristo in croce e cosa provo,
se comprendo il dolore della madre
e dei suoi cari mentre muore
e geme invocando il padre.
Ci fossi stato anch’io il giorno
in cui è risorto per abbracciarlo:
magari da lontano, indegno;
e tra coloro a cui riapparve
presso il mare di Tiberiade
all’alba, leggero sulle acque.
Chiedetemi se lo penso vivo
ancora, in nuovi volti e in nuovi gesti
(in)sofferente o imprevedibile
sgattaiolato fuori dai vangeli
e dalle chiese, tra la gente.


Giovanni Nuscis è nato ad Ancona il 20 marzo 1958. Dal 1973 vive a Sassari. Laureato in giurisprudenza, lavora nell’Amministrazione giudiziaria dove si occupa, attualmente, della formazione del personale amministrativo. Nel 2003 esce la prima raccolta poetica Il tempo invisibile (Book Editore, Castelmaggiore)(Premio Nazionale di poesia “Alessandro Contini Bonacossi” ed. 2003 opera prima).; nel 2006, la seconda In terza persona (Manni Editori, Lecce). Per l’inedito, ha vinto il Premio D.M. Turoldo ed. 2005, organizzato dalla rivista Poiein). Alcuni suoi lavori compaiono in antologie e su riviste (in particolare, e più assiduamente, Italia Libri, Org, Poiein), nonché su siti e blog compreso il proprio: www.giovanninuscis.splinder.com

Su Il sogno e la speranza di Paolo Butti


Editrice i Segni, Firenze 2003 (II edizione per Polistampa, 2004)

recensione di Caterina Camporesi

Marco Guzzi, nell'aprile del 2001, in un seminario svoltosi a Roma all'interno delle manifestazioni organizzate dal Centro Montale, riflettendo sulla crisi d'identità del poeta dopo le tragedie che hanno segnato il Novecento, individuava due possibili percorsi per il letterato del nostro tempo: l'uno rivolto verso il passato, ignorando la crisi, con il rischio di ripeterlo; l'altro orientato verso il futuro, al di là della crisi, accogliendo il travaglio della nascita del nuovo dalla forma non ancora definita. Il poeta, come in generale l'artista, è il «custode della metamorfosi», come suggerisce Canetti, e la cultura è anche la risposta al lato oscuro di noi stessi e del mondo.
Il sogno e la speranza di Paolo Butti appartiene sicuramente alla tradizione, prima della crisi, non solo per quanto riguarda la forma ma anche per quanto riguarda i contenuti. Il Novecento, che è stato un secolo tra i più feroci e malvagi della storia, non ha potuto ignorare la presenza del male nell'uomo e nel mondo; ha dovuto fare i conti con l'inferno personale e transpersonale, assistere al crollo della coscienza kantiana, fondata sui rapporti lineari tra soggetto, oggetto e pensiero; ha dovuto affrontare il tormento dell'incontro con l'ombra, l'accettazione della molteplicità non riducibile.
Nei testi della sua raccolta il lettore sembra entrare in un altro tempo, dove il male non esiste: esistono affetti, memorie, speranze, attese, semi che anelano a nascere.
Anche il dialogo con la natura è sereno e il «quotidiano stormo degli affanni» non intacca nella sostanza la bontà dell'uomo e del creato: la vita dura e pesante è comunque rischiarata dalla luce divina e da quel «ricamo di giallo splendore” che si riversa sui campi.
Sembra di respirare tra queste pagine una forza in grado di fermare il tempo che passa, lasciando gli uomini radicati alla propria origine, ad una sorta di innocenza e di non compromesso con la complessità, contraddittorietà e atrocità della vita. Anche nel dialogo fra uomo e natura c‚è il timore di «profanare» il giorno e forse l'intera esistenza.
Il poeta sembra avere fatto proprio il candore del "fanciullino" del Pascoli, la cui poetica alita di frequente tra queste pagine.
Tuttavia, lo stile, affinché possa evolversi come processo nel tempo e nello spazio, richiede la trasformazione e lo spostamento dei contenuti soggettivi e privati in un nuovo contesto mentale e sociale: non si può dire di più di quanto la propria struttura formale, cioè il proprio stile, riesca a sopportare. Così lo stile tradizionale di Butti, che è registrazione di piccoli e grandi eventi quotidiani senza trasfigurazione o rielaborazione, è funzionale a ciò che egli vuole comunicare e la sua poesia si colloca più sul versante descrittivo e non indaga le ambiguità e le conflittualità sia del mondo reale che di quello mentale. Egli rimane sospeso nella nebbia autunnale in uno stato di lunga attesa del germoglio del seme. La parola «seme» compare di frequente in questi testi.
La campagna toscana, che si perde «nel sereno scorrere dell'Arno», mantiene lo stesso respiro di sempre, e gli affetti familiari, le memorie, la preghiera verso la divinità, costituiscono il substrato della poesia di Butti, consolidando l'immobilità di un eterno che si ripete, e non si contamina con il male e con i cambiamenti che il tempo e il movimento costringono.

venerdì 6 aprile 2007

Su Il Cielo interrato


recensione di Vincenzo D'Alessio (via Sala, 29 - S. Felice, 83025 Montoro Inferiore, AV)

Alessandro De Santis
è stato pubblicato, con altri poeti, da Fara Editore di Rimini, nell'antologia Voci condivise nel 2006. Con questa sua prima raccolta poetica (edita da Joker nello stesso 2006) dalla nomenclatura "sincera" de Il cielo interrato si propone all'attenzione del lettore come una voce da interpretare per il cammino della poesia nel secondo millennio.
La prima parte della raccolta richiama gli haiku che fanno ricorso a quelli comparsi in Voci condivise: frammenti di un cielo che viene in-contro al lettore con tutta la potenza delal parola e del suo definirsi.
La seconda parte, al vero pingpong sull'abisso. La poesia diventa più sincera, più attiva verso il lettore, più in chiaro: «(…) madonna del caos amoroso / frammento dell'assenza / rovescia al suolo / quel che di te Inquietudine nutre…» (p. 27).
Rimane l'abbrivo, questa composizione, della forza maturata nella sua lunga esperienza di poeta (lunga nel senso di ricerca, vista la giovane età) in ascolto della poesia del suo tempo: Inquietudine nutre…
«(…) lasciando a uniformi con la faccia dei nostri figli
di cogliere i fiori di un futuro senza più stagioni…» (p. 29).

Nessuna delle voci giovani, e meno giovani, dei nostri tempi di guerre e violenze estreme deve restare inascoltata. Nessuna critica ha il diritto di schiacciare l'unicità della fatica che muove la mano di chi scrive raggiungendo la superficie di lettore-poeta: «D'accordo, sì d'accordo / Tengo ferme le mani sul bordo / e quando piove mi metto in ascolto» (p. 73).

L'intera raccolta è vita, «senso segreto degli oggetti», ricerca intensa di placare «il corallo sotto il ghiaccio», astenersi dall'emendare il mondo umano e le sue false regole, volare a bassa voce.
Il poeta di questa nuova generazione, che trascina in sé la nostra inquietudine si riconsce nel «Destino di una parola, possente abisso / di consapevolezza…» (p. 66)

(cfr. l'Ungaretti de Il porto sepolto).

Un sogno di Giovedì Santo 2007


di Adeodato Piazza Nicolai


Mi trovo in un altipiano di montagna (è forse Casera Razzo). Alla base di un dolmen osservo un’ aquila immobile. Sembra morta. Mi avvicino e lei sbatte un’ala. È soltanto ferita. Pian piano, teneramente, la prendo fra le braccia come un bambino. Sta immobile. Accarezzo lentamente le sue piume dalla testa verso la coda. Emana un calore tremendo che si dirada dal petto e mi penetra tutto il corpo. Il mio corpo risponde e si congiunge al suo, finché siamo un unico organismo incandescente. Questa fusione dura alcuni secondi ma sembrano un’ eternità. Apro gli occhi e vedo un cane grande che annusa l’aquila. Il suo pelo è di un bianco avorio. Non è aggressivo, soltanto curioso. La voce chiara di un uomo dice al cane: “Vieni qua! Vieni qua!” L’uomo si avvicina e gli racconto ciò che mi è appena successo. Mi fissa negli occhi e dice: “È accaduta una cosa mistica.” Si gira e raggiunge un gruppo di persone sedute sull’erba – tre uomini (lui incluso) e due donne. D’improvviso sulla mia sinistra appaiono quattro uomini di media età. Sono malvestiti, con barbe incolte, e si avvicinano con prepotenza. Di fronte a me si mettono a urlare insulti e bestemmie. Cercano di strapparmi l’aquila dalle braccia. Subito i tre uomini dell’altro gruppo vengono a difendermi e gli altri se ne vanno borbottando. A quel punto apro le braccia e l’aquila s’invola. La seguo finché sparisce nel cielo cristallino, senza una nuvola. Mi sveglio, chiedendomi se l’aquila ferita fosse un simbolo del divino che deve congiungersi con l’umano, che deve incarnarsi ed essere abbracciato dall’uomo per poter chiudere il cerchio immanenza-trascendenza. È il divino, il Deus incognito che si avvera attraverso una unione con l’uomo? Forse era solo un sogno che ho sognato questa notte di Giovedì Santo e il divino rimane sempre l’incognito nella mente sveglia, razionale, dell’uomo. Non so.

(Padova, 5 aprile 2007 – 10,30)

martedì 3 aprile 2007

Due + due (di Massimo Ferrando)


JE EST UN AUTRE
MON JE EST DIEU
LES JEUX SONT FAITS


BREVISSIMA NOTA INTRODUTTIVA AL LETTORE INTERESSATO

Questa – è un’esperienza surreale.
Laddove, nell’esperienza mistica, l’io si eclissa in un Noi Eterno, qui – Io – è Sovrano. Tradotto il suo “eccesso” in parole “accessibili”, ecco – il dispiegarsi dell’esperienza, la stessa che il mistico sperimenta per negazione. Due strade, medesima sorte.


NOTA AGGIUNTIVA INTRODUTTIVA PER COLORO CHE INTENDONO PENETRARE IL TESTO ALLUSIVAMENTE

Bandito ogni dubbio, si affidi, il lettore, a ciò che di più Vero e Trasparente è nella sua natura. Due più due non fa quattro, e lucidamente il cuore conferma: intuitivamente, il non visibile, è nominato.




IO sono l’animale dalla lingua sciolta
sono l’anatra dal becco adunco
sono il lombrico dalla testa istrionica.

Mia compagna è l’onda che sale,
mio padre il corvo,
mia madre la iena.
I miei fratelli sono:
l’avarizia, la pigrizia
e l’amore non corrisposto.
Il mio cuore è il colosseo
al centro le belve trovano pace.

***

Ascoltate.
La musa prolifica è quella morente,
la poesia più accogliente quella temeraria.
Il materiale è nei capelli, nelle ossa, sulla pelle.
Nel mio deposito sotterraneo,
nella mia banca marmorea,
il matrimonio a cui aspiro
è quello del verso che taglia come lama.

***

L’uovo eterno che per primo pose la vita
si schiuse lentamente fra braccia di cicogna.
Da quel giorno – un po’ delizia e un po’ pace –
come un animale richiamo il mio cibo,
come il vento cerco la polvere.
Come un uccello caduto tra i rovi,
nella musa folle della mia intemperanza
con le braccia trovo al mio ventre avvinghiato Dio.

***

Un consiglio, quello del coniglio inseguito dal boia.

Rinnega la fede!
La fede ha gambe malate, braccia ridicole.
Il trionfo è in noi stessi, il trionfo è nell’ombra.
Releghiamo la luce a posto opportuno.
È l’Io – la lama
che taglia gli angoli del paesaggio!
Detesta il tuo sogno,
benedici il fallimento.
Coloro che ballano
portano in grembo la solitudine.
Abbi Fede.

***

Un altro consiglio, quello del topo nella bocca del boa.

Se incontri leggendo un tuo fratello di sangue,
se ascoltando i suoi versi dichiari finita la tua vita,
se comprendi il suo genio e lo consideri l’ultimo,

allora bevi,
versa nel ventre litri e litri di vino:
la musa
unica e degna di essere ascoltata
è il sangue diluito
nell’ubriachezza.

***

Questo invece è il consiglio della volpe.

Quando, con la zampa nella tagliola,
maledici il contadino
che vigliacco si nasconde in casa,
prova a formulare un tema,
manifesto della tua liberazione.
Conservalo alla mente, meditalo,
poi piano fa che scenda fino alla bocca dello stomaco.
E quando canta in testa e nel ventre batte armonioso,
fanne un canto, fanne poesia.
Io stesso sperimento questo arcano.
L’uccello che dal ramo comincia a cantare
lascia sempre cadere il suo cibo.

Volpe ferita, volpe ferita!|
Ora lo so
che il tuo dolore è pari alla morte,
ma il nutrimento
arriverà come manna dal cielo.
La Parola che giunge errabonda
resuscita i morti.

***

Questo
è il pensiero dell’orso!

(Buono e Salvato sarà chi non ruba,
Buono e Salvato chi non si adira col prossimo,
Buono e Salvato chi non commette omicidio.
)

Ma ancora questi
ciechi credono alla regola che salva?
Fratelli!
Siate autonomi nelle vostre inclinazioni.
Ciò che è vero
non è aderenza alla norma imposta,
ma naturale propensione
a seguire il bene.

***

Infila la notte l’allodola al tramonto,
e il pipistrello cattura il moscerino.
Ruscello d’ombra,
sei tu il giusto compendio di tutto ciò che è chiaro.
Perché affidare ai devoti la giustizia,
ai saggi la bontà perfetta!
Io onoro con il mio sdegno per tutto ciò che è buono
la stessa volontà immutabile.
Perché abbiamo i nostri diritti, lo sapete?
Di essere vegetali, e animali,
di essere pietre invisibili e luminose,
di essere gli insetti e le ali degli insetti.
Un solo dovere: onorarci.
Io ti onoro
corpo volubile e affettuoso,
con tutti i tuoi escrementi, la lingua, il naso.
Sepolte nel tuo nome le virtù,
coi vizi tra le gambe onoro il mio compito: procrearmi.
Ho già in mente il mio erede,
creatura nuova e imperiale!
Io stesso risponderò a questo precetto:
purché sia erba,
purché sia foglia,
purché sia albero, radice,
purché sia
acqua,
purché sia vita,
purché sia
infinita.

***

Tutto ritorna
diceva una piccola creatura
tremolante al primo battito
nel fianco.
Tutto ritorna.


Liberi tutti! Liberi tutti!
È questo
il canto dell’eroe che salva il suo popolo?
Nessuno deve cadere.
Geniale è il condottiero
che conduce il suo esercito in battaglia
curandosi perfino del ronzino
che in coda arranca sotto il peso
degli scudi.


Tutto ritorna.
Liberi tutti! Liberi tutti!
urlano i bimbi giocando a nascondino.
Liberi tutti!
era il gioco prediletto
di un bimbo fra i suoi simili dagli occhi
chiari aperti nascosto fra i salici!


***

E ora la sentenza.

Non aspettatevi da me delicatezza,
combatterò – e sarò spietato.

In pace coi mie occhi,
in pace con la mia bocca,
in pace con le mie mani,
in pace coi miei reni,
in pace con le mie ossa,
in pace con tutti i miei sensi accolgo

l’ultimo fiore: il bianco papavero!



"La musa prolifica è quella morente, / la poesia più accogliente quella temeraria."
Un distico che è tutto un programma. Ferrando mi ricorda Gianmaria Giannetti per la visionarietà al limite dell'autismo, a tratti forse un po' gnomica ma capace di sfolgorare (del resto il Nostro è anche un fotografo e sa giocare con l'ombra e la luce): "Infila la notte l’allodola al tramonto"; "L’Io - è la lama / che taglia gli angoli del paesaggio!"; "come il vento cerco la polvere"… (AR)


Massimo Ferrando è nato a Savona il 07 giugno 1972. Cresciuto a Sassello, piccolo paese sull'Appennino Ligure, vive del suo artigianato creativo. È fotografo, poeta, scultore e organizzatore di eventi culturali. Ha pubblicato parte di una sua plaquette (Liriche del dolore e del ritorno) sul numero 2/2001 della rivista letteraria «La clessidra», ed. Joker; nel 2008 ha pubblicato la raccolta poetica Per altra porta (Galata Edizioni, Genova). Suoi scritti compaiono in alcune antologie (fra cui Luce e notte, esperienza dell’immagine e della sua assenza, ed. LietoColle, 2008).

«La città dagli ardenti desideri». Mario Luzi custode e cantore della civitas*



di Bernardo Maria Gianni (la II parte di questo saggio si trova qui)

A Mario Luzi,
in memoriam


«L’idea e l’immagine della città per me non è mai stata tanto quella puramente paesistica, quanto il suo insieme e la sua comunità. È stata sempre civitas più che urbs. E può benissimo dirsi immagine agostiniana. La città è un corpo, percorso da diverse pulsioni dell’agire umano e storico, ma è anche realtà illuminata dalla natura. È vero che il mio destino è stato più quello di segnare come auspicio i termini vitali della città, mentre dati storici o di cronaca osservati mi hanno più spesso significato l’offensiva del male, nelle sue diverse forme. La città sotto l’azione della violenza e della corruzione si disgrega, come Alessandria in Ipazia, come la città moderna, Firenze, sotto l’alluvione. La raffigurazione, naturalmente, è reale e simbolica nello stesso tempo e vuole denunciare che la città umana senza idea vitale si sfascia.» [1]

Sono queste le parole con cui Mario Luzi, rispondendo a Stefano Verdino in una conversazione pubblicata nel 1997, cercava di render ragione della cordiale e partecipe ospitalità accordata nella sua opera alla città, accoglienza creativa che possiamo facilmente immaginare l’esito di un vigilante ed appassionato sguardo su di essa, realtà organica e memoria vivente che il poeta vuole e deve ascoltare, custodire, emendare, riscattare.
Nemmeno la palude di lurido fango che il diluvio del 1966 rovescia come ignobile pellicola di morte e distruzione su Firenze riesce ad annegare la speranza del poeta, la cui memoria biblica si fa accorata e addirittura orante testimonianza del mistero pasquale cui allude un fulmineo, ma esplicito inciso del dialogo ospitato nella lirica intitolata Nel corpo oscuro della metamorfosi, ai vv. 20-43:


«Prega», dice, «per la città sommersa»
venendomi incontro dal passato
o dal futuro un’anima nascosta
dietro un lume di pila che mi cerca
nel liquame della strada deserta.
«Taci» imploro, dubbioso sia la mia
di ritorno al suo corpo perduto nel fango.

«Tu che hai visto fino al tramonto
la morte di una città, i suoi ultimi
furiosi annaspamenti d’annegata,
ascoltane il silenzio ora. E risvegliati»
continua quell’anima randagia
che non sono ben certo sia un’altra dalla mia
alla cerca di me nella palude sinistra.
«Risvegliati, non è questo silenzio
il silenzio mentale di una profonda metafora
come tu pensi la storia. Ma bruta
cessazione del suono. Morte. Morte e basta.»
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«Non c’è morte che non sia anche nascita.
Soltanto per questo pregherò»
le dico sciaguattando ferito nella melma
mentre il suo lume lampeggia e si eclissa in un vicolo.
E la continuità manda un riflesso
duro, ambiguo, visibile alla talpa e alla lince. [2]


Ancora una significativa allusione alla sopravvivenza si rinviene in una lirica che ci rammenta l’altra grande ferita inferta alla Firenze del ’900, quella della seconda guerra mondiale. Il poeta contempla la sua città, nobile e sofferente, dall’alto del passo della Consuma, in Memoria di Firenze (1942):


E quando resistevano
sulla conca di bruma
le tue eccelse pareti sofferenti
nella luce del fiume
tra i monti di Consuma,
più distinto era il soffio della vita
intanto che fuggiva;
e là dove sovente s’ascoltava
dai battenti socchiusi delle porte
origlianti la luna
la tua voce recedere in assorte
stanze ma non morire,
non un pianto, una musica concorde
coi secoli affluiva. Senza un grido,
né un sorriso per me lungo le sorde
tue strade che conducono all’Eliso… [3]



Una città, invece, ancora inesplorata, per il suo immediato apparire come meta sospirata ed organica compagine di singole biografie e di vicende collettive, di case, mestieri, mercati e chiese, si lascia immaginare dalla partecipe fantasia del poeta, «nuovo di queste vie, ma non straniero», con evocative metafore che rimandano a secolari monasteri o a navi che traghettano, come biblica arca, l’esistenza. Alla mirabile Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo, la città dove il poeta sosta presumibilmente nel 1954 per gli esami di maturità, si accompagna una suggestiva prosa coeva alla lirica, edita per la prima volta nel 1955, dove Luzi così scrive: «Viterbo appare come il termine o la tappa favolosa ai sensi afflitti dell’antico pellegrino dopo un duro viaggio… la città si leva intorno come un grande bugno picchiettato di luci nelle cui celle stanno artigiani, frati, mercanti mentre lo spazio sconfinato s’abbuia». Ancora: «L’umile fontana quasi claustrale che era perché le donne fiere e fini di qui vi attingessero acqua s’innalza tazza su tazza tra le linee avvolte e rotte dalle statue a creare un grande spettro». E come si diceva, oltreché in un cenobio, il dedalo luminoso di case e di anime immerso nel buio e nel vento della notte fa immaginare al poeta di trovarsi «sul ponte di una nave ancorata nello spazio e nel tempo». [4]
Così invece, nel ritmo peculiare della poesia, le ultime tre stanze:


La donna prende acqua alla fontana,
risale su per il proferlio, guarda
quella nave ancorata nel cielo ch’è Viterbo
poi rientra, sparisce nell’interno
della casa, della città, del tempo.

Nuovo di queste vie, ma non straniero
ho sentito l’infermo sulla soglia
pregare per la sorte di quest’arca
con il suo andirivieni d’operai,
le sue case crepate, i suoi animali,
i suoi vegliardi acuti ed i suoi morti.

Ho lasciato alle porte i miei cavalli,
ho chiesto asilo e molto supplicato
d’esser preso a farne parte. Vigila
ora tu, scruta i segni della notte. [5]


Non diversamente dal dialogo ospitato fra le stanze già ricordate di Nel corpo oscuro della metamorfosi,[6] anche qui si ritrova l’allusione alla preghiera come vitale relazione che ospita nel cuore dell’orante l’intera civitas: vero custode della porta della città è infatti «l’infermo», immobile e forse reietto, ma capace di «pregare per la sorte di quest’arca/ con il suo andirivieni d’operai». E al poeta, che supplica di entrare a far pienamente parte di quella communio civile, si deve adesso sostituire qualcuno che sia capace di vegliare sulla città, capace di scrutare ciò che le notte prepara, come incubo, minaccia o speranza, mentre la civitas è avvolta dal sopore.
Altrettanto intenso e viscerale è l’approdo al cuore della città che il poeta immagina esperito da un grande maestro del Gotico Internazionale, cui Luzi ha dedicato una delle sue più ispirate sillogi: il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, edito a Milano nel 1994. Non si farà fatica a scorgere come anche l’impianto urbanistico e gli elementi architettonici di Siena, analogamente a quanto si è già notato a proposito della Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo, rimandino con ancor maggiore pathos al vissuto della civitas che nasce, muore e quasi s’eterna in quelle strade e in quelle case:


E ora lo conduce la vacanza
al cuore antico della sua città
stralunata dalla feria.
E lui si perde
– sono io ancora? –
dall’una all’altra
in quelle stupefatte vie
attirato in una rete
d’immaginate e vere sofferenze,
evoca – alcuni ne rivede
con il fiato sospeso
tra memoria e senso –
coloro che accesero con lui
di vita quelle alte case
e vi portarono morte,
misero eternità in quelle stanze.
Il tempo, lo sente nella carne,
pieno e vuoto di loro
in sé tutto equipara,
però non li elimina
di tutta
quella caducità si gloria,
e umilmente la glorifica. Città. Torri. [7]


Allo sguardo del pittore era già parso che la luce del tramonto svelasse l’autentica, drammatica, fragile consistenza del nobile tessuto che fa di una città, prima ancora che un sistema di edifici e di spazi, un «costato» ferito dalla vita:


Nel ricordo o nel presente?
Entra, sera di sole,
sera estrema di solstizio
nel costato di Firenze,
ne infila obliquamente
i tagli, le fenditure,
ne infiamma le ferite,
le croste, le cicatrici,
ne infervora le croci,
le insanguina copiosamente.
Lui controcorrente
si trascina la sua ombra
verso quella sorgente.
In fronte gli si scheggiano le linee,
gli si disfanno le moli,
gli si frantumano i tetti
sopra una polverizzata gente.
Risale lo sfacelo,
scansa quelle macerie
di una ancora
non cancellata
e non assolta storia,
voglioso di primizia,
avido di semenze.
Non empio, non ingordo,
servo della vita – e basta. [8]


Privilegiato è tuttavia lo sguardo eccentrico che solo rende il ‘poeta Luzi’ a Viterbo e il ‘pittore Martini’ a Siena capaci di lasciarsi avvincere dall’immagine complessiva della città a lungo cercata e desiderata, la cui vivente compagine distesa nel paesaggio interpella e incalza il cuore del civis che di lontano la contempla, per una rinnovata e ancor più generosa volontà di partecipazione:


Mi guarda Siena,
mi guarda sempre
dalla sua lontana altura
o da quella del ricordo-
come naufrago?-
come transfuga?
mi lancia incontro
la corsa
delle sue colline,
mi sferra in petto quel vento,
lo incrocia con il tempo-
il mio dirottamente
che le si avventa ai fianchi
dal profondo dell’infanzia
e quello dei miei morti
e l’altro d’ogni appena
memorabile esistenza…
Siamo ancora
Io e lei, lei e io
soli, deserti.
Per un più estremo amore? Certo. [9]


Infine, non meno intenso, e volutamente enigmatico e quasi inesausto, il congedo fra il pittore e la sua città:


Si ritira da me lei, mia città,
e io da lei. Finito il tempo dato,
l’amalgama perduto
oppure fondono
vissuto e non vissuto
in quel celeste sovrumano tedio
sempre atteso, sempre in agguato… [10]


Più che alla statica e concreta oggettivazione topografica dell’urbs, precipuamente interessato –come già sappiamo - alla vivente vicenda della civitas,[11] Luzi non manca semmai di utilizzare, con la forza e la logica tutte precipue del simbolo,[12] quanto dell’urbs possa esprimere la vitale consistenza e al contempo l’incessante tornitura della storia con la conseguente stratificazione e, anche, cancellazione della memoria proprie della civitas: potrà essere la pioggia che consuma i tetti, potrà essere il fiume che incide il tessuto urbano, potrà essere la pietra che ospitando «nella sua cavità, nelle sue celle rigorosamente distinte l’alveare umano registra e lascia depositare su di sé gli eventi», permettendo altresì che tutto sia lavato e cancellato «quasi per un ricominciamento continuo della natura».[13] La città, nella sua organica condensazione di vita vissuta, pare insomma inesorabilmente esposta all’inesausta tensione tra memoria e oblio, tra sedimentazione ed erosione, tra puntuale ciclicità e ineluttabile, repentina e inaspettata metamorfosi.[14] La stessa compagine di pietre, strade e piazze può rendersi irriconoscibile agli occhi del poeta, come testimoniato e sigillato dai versi di una inquieta lirica appartenente alla raccolta Frasi e incisi di un canto salutare, edita a Milano nel 1990:


Non fu pari all’attesa,
si sfece in brevi tessere
di una invetriata cerimonia
il tanto vagheggiato incontro.
Parole non mancavano, mancava
se mai la loro musica. E Firenze
non ne aveva
di sua, non ne emanava
dalle segrete camere, neppure
ne perdeva da occulte fenditure
o da malchiuse porte come un tempo-
quale? – non ricordavo. Ci appariva
insolita Firenze. Stava muta,
impiccata allo strapiombo
delle sue nere muraglie,
rigata dalle lacrime
di luce delle sue alte lampade
Era insolita nel volto
o noi troppo mutati suoi nottambuli
attraversati da lei, passati oltre. [15]


A proposito di questi versi e dell’occasione che li motivò così Mario Luzi, in un dialogo intrecciato ancora con Stefano Verdino, ebbe modo di postillare:

«È una Firenze non ritrovata, attraverso i miei compagni; vedo la città staccata, non è più quella dei nostri tempi. L’immagine della città è impervia, perché non contiene più le nostre illusioni. C’eravamo dati un appuntamento per fare festa – e questo è accaduto molte volte, a me e ad altri - e poi ci si è trovati davanti a una sorpresa, a qualcosa che si presenta altro.» [16]

È forse in questa lucida consapevolezza, come cioè il tempo – e qui s’intende il nostro tempo, la nostra inquietante, se non «violenta», contemporaneità- laceri il tessuto connettivo delle nostre città, trasformandone gli abitanti da comunità di persone a singoli individui e da «moltitudine» a «massa»,[17] che si dovrà individuare la ragione e il senso di molta della vibrante lirica soprattutto dell’ultimo Luzi, così attento a riformulare un dettato poetico animato da un accorato accento etico, se non addirittura ‘civile’, per certe sue composizioni che non a caso avranno sempre più nelle vicende drammatiche della nostra cronaca feriale il loro sofferto kairòs e la loro più vera ispirazione: [18]

«Oggi c’è una moltitudine di uomini isolati e non comunicanti. La sera, quando esco, come d’abitudine, vedo queste strade vuote, dove non c’è nessuno, tutti si sta chiusi in casa. Nelle città è venuta proprio meno la comunicazione e la città invece era questo, era comunicazione. È una fase storica che finisce e la civiltà che ci aspetta sarà probabilmente disseminata in particole in tutto il pianeta e non avrà molto interesse alla città, all’urbe. Vi saranno città di servizi, conglomerati di uffici, ma la società urbana tende all’estinzione. Ai tempi di Cristo le moltitudini convivevano la stessa sorte, mentre noi oggi non conviviamo la nostra, la subiamo ciascuno per conto proprio. È un sintomo visibile tra i più drammatici del nostro tempo. Una specie di profeta che deve parlare alle moltitudini parla per TV, per immagine televisiva, trovando ciascuno chiuso nella sua cellula. Anche l’incarnazione come sarebbe oggi? L’incarnazione fu così perché l’uomo era visibile e legato in una comunità che ne condivideva le pene; l’uomo era circoscritto nella sua fisicità, nel suo corpo che ebbe così importanza e valorizzazione nell’eucaristia. E oggi dove si incarnerebbe il divino? forse in Internet. Qualche volta d’improvviso capita ancora di osservare qualche aggregazione civile e urbana. Mi capita ad esempio quando vado a Ferrara; lì mi pare di ritrovare il clima della città come fu fino agli anni ’50: la gente che va in bicicletta, in piazza si formano i crocchi di conoscenti e amici, però si tratta per lo più di vecchi.» [19]


Sappiamo già da quelle primissime riflessioni di Luzi con cui avevamo aperto queste nostre pagine, quale siano le risposte a quanto Stefano Verdino gli andava domandando in ordine alla composita percezione della città che il poeta mostra di avere nelle sue liriche, caratterizzate, ormai lo sappiamo, dal ricorrente motivo della «città dell’uomo, segnata dall’afflizione e dall’avvilimento», ma capace anche di «consentire improvvise epifanie della grazia […] ovvero caratterizzarsi come agone tra i tragitti di morte che quotidianamente la percorrono e le spinte della vita, in genere elargite dalla natura».[20] A conforto di questi suoi pertinenti rilievi Verdino citava opportunamente il finale di Lavata – (Belfastina), che, occasionata da un soggiorno di Luzi a Belfast nell’autunno del 1985 e ispirata dalla desolante guerriglia urbana fra cattolici e protestanti, si apre con l’immagine eloquente di una città non ancora sufficientemente lavata da quel sangue che «corre/ verso le chiaviche/ flagellato dagli idranti,/ incalzato dalle spazzole» e si chiude con un siffatto explicit:


Calma
si offre la città
alla muta
ispezione dei gabbiani.
Calma
l’isola dispensa
equa
la sua domenica di pioggia
a tutte le sue parti,
a tutta la sua erba.
Cresce o muore l’esperienza.
O, ancora,
ammassa loglio nella sua riserva. [21]


Ed è proprio questo «agone» fra i «tragitti di morte», qui significati dal «sangue», e «le spinte della vita», sovente «elargite dalla natura» e qui evocate dalla calma quiete durante la «muta/ ispezione dei gabbiani», che suggerisce a Stefano Verdino prima di domandarsi «se questo modo di guardare alla città non sia qualcosa di un po’ diverso dal motivo metropolitano, generalmente infernale, tipico della modernità», quindi di interrogare de hoc lo stesso Luzi:

«Sia nella doppia tipologia della raffigurazione cittadina, nella città prostrata, o nella città come luminosa epifania, infine nel dibattimento di immagine negativa e positiva non è possibile ritrovare le matrici del tuo agostinianesimo? In altre parole avverti anche tu la lotta tra la città di Dio e la città dell’uomo?» [23]

La risposta, significativamente affermativa, di Luzi ci ha già informato di come per questi «l’idea e l’immagine della città […] non sia mai stata tanto quella puramente paesistica, quanto il suo insieme e la sua comunità. È stata sempre civitas più che urbs. E può benissimo dirsi immagine agostiniana».[23] E ancora, forti dell’itinerario poetico appena compiuto in queste pagine, possiamo essere certi di quanto nell’officina creativa di Luzi si riversi il lucido bagliore dello sguardo di Agostino che intuisce come la città di Dio e la città degli uomini siano, nella nostra storia, perplexae e permixtae.[24] Ecco perché, ancora nello stesso locus ora citato, Luzi così lucidamente sentenzi: «la città sotto l’azione della violenza e della corruzione si disgrega, come Alessandria in Ipazia, come la città moderna, Firenze, sotto l’alluvione. La raffigurazione, naturalmente, è reale e simbolica nello stesso tempo e vuole denunciare che la città umana senza idea vitale si sfascia». [25]
La sofferta diagnosi di Luzi in ordine alla rottura, a prima vista irreparabile, del nesso vitale fra «città» e «comunicazione», con la conseguente riduzione della civitas a una inerte «moltitudine di uomini isolati e non comunicanti», sintomo indubbio di una «fase storica che finisce», e, al contempo, la sua nitida percezione, appassionatamente da «denunciare», della «necessità» di un’«idea vitale» per scongiurare il rischio che «la città umana […] si sfasci», paiono assai consonanti con gli appassionati e risoluti appelli che Giorgio La Pira (1904-1977) aveva ripetutamente lanciato nelle più diverse assisi.[26] Fra questi vi è un celebre discorso, tenuto al Convegno dei Sindaci delle città capitali di tutto il mondo il 2 ottobre 1955 a Firenze, il cui testo ormai si accompagna sempre con il significativo titolo: Per la salvezza delle città di tutto il mondo. Ebbe fra l’altro a dire l’allora sindaco di Firenze a quel prestigioso consesso:

«La crisi del nostro tempo - che è una crisi di sproporzione e di dismisura rispetto a ciò che è veramente umano - ci fornisce la prova del valore, diciamo così, terapeutico e risolutivo che in ordine ad essa la città possiede. Come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita. E prima di finire questo discorso sul valore delle città per il destino della civiltà intiera e per la destinazione medesima della persona, permettete che io dia un ammirato sguardo d'insieme alle città millenarie, che, come gemme preziose, ornano di splendore e bellezza le terre dell'Europa e dell'Asia. Signori, ci vorrebbe qui, per parlare di esse, il linguaggio ispirato dei profeti: di Tobia, di Isaia, di Geremia, di Ezechiele, di San Giovanni Evangelista. Per ciascuna di esse è valida la definizione luminosa di Pèguy: essere la città dell'uomo abbozzo e prefigurazione della città di Dio.» [27]

[continua…]


* I testi poetici di Luzi citati in queste pagine sono sempre quelli editi nell’opera omnia in versi pubblicata nella prestigiosa collana de «I Meridiani» di Mondatori: M. LUZI, L’Opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di S. Verdino, Milano 1998. Il volume include, alle pp. 1825-1882, un’abbondantissima bibliografia. Mario Luzi nacque a Castello, presso Firenze, il 20 ottobre del 1914 ed è morto a Firenze il 28 febbraio del 2005. Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica Italiana dal 1999 al 2006, lo nominò senatore a vita il 14 ottobre del 2004 «per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo letterario ed artistico» (cfr. www.quirinale.it). Il poeta è sepolto nel piccolo cimitero della sobborgo natale. La collocazione di una lapide commemorativa nella basilica fiorentina di Santa Croce ha ormai ascritto Mario Luzi alle «itale glorie».

[1] M. LUZI, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di S. Verdino, Casale Monferrato 1997, p. 108.

[2] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 379. La lirica apparve nel 1969 sulle pagine de «L’Approdo letterario».

[3] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 112.

[4] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1475.

[5] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 234.

[6] Cfr. i vv. 20-24: «“Prega”, dice, “per la città sommersa”/ venendomi incontro dal passato/ o dal futuro un’anima nascosta/ dietro un lume di pila che mi cerca/ nel liquame della strada deserta». E ancora, ai vv. 38-39: «Non c’è morte che non sia anche nascita. / Soltanto per questo pregherò».

[7] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1083.

[9] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1059.

[10] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1075. La forza emotiva generata dallo sguardo eccentrico, ovvero periferico, sull’intera città è capace altresì di suscitare timorosa soggezione nel cuore di Simone Martini, che, guardando Firenze da lontano, intuisce di trovarsi di fronte ad una città tanto attraente quanto, al contempo, inquietante per il suo essere, nel dedalo delle sue strade, fecondo laboratorio di avanguardia per nuove estetiche e per nuovi stili figurativi: «Si approssima Firenze./ Si aggrega la città. / S’addensano i suoi prima / rari sparpagliati borghi. / S’infittiscono / gli orti e i monasteri. / Lo attrae nel suo gomitolo, / ma è incerto/ se sfidarne il labirinto/ o tenersi alla proda, non varcare il ponte. / Il seguito è sfinito. Il sonno e il caldo/ ne annientano il respiro. / È là, lei, la Gran Villa / che brulica e formicola. / Di là dal fiume. Lo tenta / e lo respinge, / ostica, non sa / bene in che cosa, ma ostica / eppure seducente, vivida. […] A lui piace e non piace quel vigore/ dei corpi, quella forte/ passione delle forme. / […] Ah Firenze, Firenze. Sonnecchiano/ intontiti i viaggiatori nella sosta./ Meglio rimettersi in cammino,/ prendere la via di Siena, immantinente» (LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 1055-6).

[10] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1087. E ancora: «Ti perdo, ti rintraccio, / ti perdo ancora, mio luogo, / non arrivo a te. / Vanisce / nel celeste / della sua distanza / Siena, si ritira nel suo nome, / s’interna nell’idea di sé, si brucia / nella propria essenza / e io con lei in equità,/ perduto/ alla sua e alla mia storia… / Oh unica / suprema purità… Oh beatitudo» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1094). Significativi pure i versi scritti da «lontano» per il paese natale dei genitori, Semproniano, borgo della Maremma grossetana: «Ci vorrebbe più pace, o almeno più arte – / dico al parroco di Samprugnano con molto rammarico / mentre guardo la carta intitolata ai santi / Vincenzo ed Anastasio della sua lettera inevasa / con l’amabile richiesta di versi/ in onore del paese, in lode dell’alveare umano / petroso vegetale da cui resto / lontano, di cui pure sono parte. // […] Del resto / per i figli, come me, della diaspora / il paese a pensarlo in lontananza/ si arrocca nella sua fitta compagine, / nella sua memoria comune, nella sua comunione del presente, / realtà profonda fino ad una profondità di favola/ simile a tutto ciò che ci stupisce, e non è altro che la vita, la vita medesima» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1202).

[11] Si allude qui alla dottrina ciceroniana – assai cara a Giorgio La Pira – secondo cui il popolo è un’associazione i cui membri (come peraltro insegnano Gaio e Giustiniano con i suoi giuristi), sono gli universi cives, ovvero coloro che, abitando l’urbs, costituiscono la civitas, integrando così la urbs civitas, per usare la endiadi eloquente dei grammatici romani. Il primo sostantivo di cui Paolo-Giustiniano tratta, nel sedicesimo titolo del Libro L delle Pandette, il De verborum significatione, è precisamente urbs: «‘Urbis’ appellatio muris, ‘Romae’ autem continentibus aedificiis finitur, quod latius patet». È bene ricordare come la scissione tra civitas e urbs comporti il venire meno di quella societas civium che proprio nella urbs e nel condominio dei ‘muri’ della urbs trova il suo nucleo determinante. Cfr. a proposito l’insegnamento di Cicerone, Off. 1.17.53: «Gradus autem plures sunt societatis hominum […] interius etiam est eiusdem esse civitatis: multa enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines…».

[12] De hoc basti P. RICOEUR, Il simbolo dà a pensare, Brescia 2002.

[13] Si pensi ad una lirica tratta dalla suite intitolata Un mazzo di rose: «Piove fitto, pluvia / antica primavera/ sulle antiche mura, / dilava la città, / di noia / e di tempo la defluvia, / le porta vita, / ne sente / – e se ne inebria – / il primo insulto / in tutti i suoi giardini, / in tutte le sue altane / ancora risecchito, / di spoglie anche le allevia, / scorie, ceneri, immondizie / franate in rigagnoli e fossati / tutto corre al fiume… / Il fiume non si oppone / accoglie ciò che il tempo / dell’uomo e la natura / gli propina, altro ancora / in momenti di turgore / lui medesimo rapina, / li assolve poi nella sua magnificenza, / li prepara alla disparizione/ ed al ritorno, dov’è? alle stesse rive / tra case, muraglioni, rupi, in volti alle finestre, / fronde d’alberi, nuovi / effimeri firmamenti cittadini» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1151). L’immagine del fiume che solca incessantemente la città significando, al contempo, trasformazione, continuità e ciclicità torna in un’altra lirica della stessa raccolta: «[…] Si porta,/ eccola, i riflessi, / gli spregi, le onte / dei paesi rivieraschi, / le lordure dei ristagni, / spoglia di vanagloria / i ponti, le città / dei loro futili trionfi, / li dissolve, li vanifica, / massa piana compagine / messa rotta gareggiante, / flusso d’acqua / nell’acqua verso l’acqua / del futuro tempo. / Oh continuità, / oh ritorno su se medesimo/ di ogni cominciamento» (LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 1148-9). Per la pietra e, ancora, l’acqua, metafore ‘urbane’ di memoria e cangiamenti, si mediti sul già ricordato passo di Trame, volume riedito nel 1982: «La presenza della pietra a Firenze è trionfale. […] Questa pietra che ospita nella sua cavità, nelle sue celle rigorosamente distinte l’alveare umano registra e lascia depositare su di sé gli eventi, le passioni e le ugge di generazioni, ma anche le espone al lavaggio e alla cancellazione: quasi per un ricominciamento continuo della natura. Infatti poche città così antiche sono così poco muffite e stagnanti dentro e fuori» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1567). In Giovinetta, giovinetta, l’ultima lirica de La barca, così tratteggia la geografia urbana del capoluogo toscano: «le scogliose vie di Firenze / disperse in un etereo continente» e le sue «livide pietre dei crepuscoli» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 41). Infine, a proposito, ancora un lacerto poetico, l’incipit di una lirica del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: «Discese su Firenze una triste sera./ Oppure trasalì dalle sue pietre, / entrò dalle sue porte? / Non conobbe / la mente / e neppure il profondo cuore seppe / il perché di quella pena […]» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1060).

[14] Sono gli accenti che ritornano nella narrazione poetica di un ulteriore approdo del poeta nel tessuto vivente della città, anzi «nel suo antico ventre», dove il simbolo del fiume è funzionale a ribadire metaforicamente il perpetuo agone fra la possanza dei «marmi» e il «fluente», incessante, «moto» delle acque verso la foce, simbolo di «morte» e di «ricominciamento». La città è Pisa e la raccolta ospitante è Frasi e incisi di un canto salutare: «Si condensa, laggiù, la luce,/ già è una tumida albescenza. / Moli, poi, volumi – / è Pisa / quel candore / in quella piana / in fondo a quella chiostra. / Le vado incontro / io fiume Arno / così prossimo / alla foce / le vado continuamente / sopraggiunto dalle mie acque, / spinto dalla mia corrente / ed ecco mi si approssima, / mi è sopra con i suoi marmi, / mi stringe con i suoi ponti, / mi attira nel suo antico ventre / e io? / io entro nel doloroso grumo, / divento cupo e risplendo, / la rubo in immagine / col mio specchio fluente, / la frantumo, / la sbriciolo nel mio / molecolare lampeggiamento, / adesso non è più niente, / la supero, la dimentico / nel mio moto verso il mare, / la morte, il ricominciamento. / Sappiamo questo io e lei, / lei e io nell’universale grembo» (LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 874-5). Cfr. ancora i versi di Inferma, così, lirica appartenente alla medesima raccolta della precedente: «Inferma, così / forse si sente; / e arida. / Le viene meno / un suo profondissimo fervore / le brucia / nelle vertebre / la dura / geometria delle sue moli. / Spiomba / lei / di notte / nelle sue stellate fosse, / scoscende nel suo scheletro, / le duole in ogni parte / la invetrita massa. / Qual è il male? / È là, ancora, il fiume / ma dove il fluviatile / del fiume, dove l’anima? / È la spoglia / quella, chiusa in quella abbacinante bara. / È morto / allora? o sceso / in una vitrea / immobilità, il fachiro? / Ed ecco, le manca / in mezzo alle sue pietre / quel flusso d’acqua e luce, / d’acqua e notte / con stelle e sole / che si sfanno / in torce ed in facelle, / le manca quella vena, / non sente sotto il pettine / dei ponti / quella palpitante chioma. / E soffre / lei, città,/ soffre innaturalmente. / Ma intanto già si scioglie / dalla sua rigidità, / va verso la vita / una vita sotterranea, / le tocca i basamenti, / le alita i cunicoli / un sentore di disgelo… / che cosa porterà con sé il fiume / al suo prossimo risveglio, / la pura ripetizione del già stato / – già stato o già vissuto? / già totalmente passato? – o altro / non conosciuto / che si genera dal mutamento / di quella continuità. / La vita nasce alla vita, / è quello l’avvenimento, quella / la sua sola verità» (LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 863-4). Alcuni di questi versi sono stati da Luzi stesso così glossati: «<è> una città che avverte una nuova situazione, quando il fiume è congelato» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1284).

[15] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 830.

[16] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1283. Il testo citato è estrapolato dalla conversazione di Mario Luzi e Stefano Verdino originariamente edita nel 1995 col titolo A Bellariva. Colloqui con Mario, a cura di Stefano Verdino, poi integralmente ripubblicata nell’edizione de «I Meridiani».

[17] Per una significativa distinzione fra «moltitudine» e «massa», cfr. lo stesso Luzi: «Massa è una accezione violenta, fa riferimento a una moltitudine umana su cui è stata esercitata violenza in varia forma, dall’urbanesimo ai reclutamenti dell’industria che hanno comportato drastici movimenti e mutamenti e tolgono individualità e naturalezza alle figure. Massa è certamente l’effetto di una fase violenta della storia» (l’osservazione si legge in LUZI, La porta del cielo, cit., p. 42).

[18] Si allude qui perlomeno ai seguenti componimenti: Belfast 21 Novembre, Palermo, Aprile ’86, Piazza pulita (dedicata alla sanguinosa repressione della rivolta studentesca contro il regime comunista iniziata con l’occupazione, il 13 maggio 1989, della piazza Tien An Men a Pechino) e, infine, Le donne di Bagdad (scritta in occasione della cosiddetta guerra del Golfo scoppiata nel gennaio 1991 tra gli USA con gli alleati NATO e l’Iraq, a seguito dell’occupazione del Kuwait nell’agosto 1990 da parte dell’esercito del dittatore iracheno Saddam Hussein). Le liriche in questione si leggono in LUZI, L’Opera poetica, cit., rispettivamente alle pp. 1208-9, 1210-11, 1217 e 1218-9.

[19] LUZI, La porta del cielo, cit., p. 43.

[20] LUZI, La porta del cielo, cit., p. 107.

[21] LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 825-6.

[22] LUZI, La porta del cielo, cit., p. 108.

[23] Già abbiamo infatti più estesamente citato queste riflessioni di Luzi in apertura di questo articolo.

[24] AURELII AUGUSTINI, De Civitate Dei 1, 35: «perplexae quippe sunt istae duae civitates in hoc saeculo invicemque permixtae, donec ultimo iudicio dirimantur».

[25] Cfr. LUZI, La porta del cielo, cit., pp. 108-9.


[26] Una valutazione di Mario Luzi su Giorgio La Pira e «la sua radicata convinzione di ottimismo cristiano» si legge in LUZI, La porta del cielo, cit., p. 25.

[27] Il testo qui citato di Giorgio La Pira si legge anche in www.iisf.it/la_pira.htm.



Bernardo Francesco Gianni, O.S.B. Oliv.
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