martedì 1 luglio 2008

Il Sud senza memoria né speranza

recensione di Luigi Metropoli a Padri della terra di Vicenzo D'Alessio pubblicata in vocativo.splinder.com

Il Sud ha padri e forse più nessuno. Le figure fantomatiche di un passato ormai lontano che con le loro ombre giganteggiano su di noi sono l’ennesimo paradosso della condizione meridionale. Fantasmi, ormai dimenticati, che non trasmettono più niente. La comunicazione è interrotta. Il Sud è orfano (“hanno ucciso i padri e i santi e/ vanno fieri in auto fiammanti”, p. 192), privo di memoria e incapace di guardare al futuro con fiducia, preda della criminalità organizzata e della connivenza di politicanti . È sempre più terra di nessuno o, meglio, feudo di qualche potente di turno che ne violenta lo spirito oltre al corpo.
Vincenzo D’Alessio ne tenta un ritratto “in assenza” (ormai il suo Sud è “terra rimasta vera/ solo nei miei pensieri” p. 198), una lunga sommessa elegia che non gareggia in perfezione o in acuti letterari (non è sua intenzione), ma risponde precipuamente ad un cuore ferito, ad un dolore accumulato negli anni per le ingiustizie e vessazioni subite dalla sua terra, che per inciso, la nostra terra, la terra di tutti.
Così si parte dalle “mie donne”, che falciano il fieno con in grembo un figlio, “come/ nuovo grano” (p. 191), per poi attraversare volti, luoghi, segni dell’abbandono e dell’indifferenza. C’è il pane di Montefusco, l’unico ad avere in dote un “morbido cuore” (p. 194), mentre un sonno profondo cala sui tetti delle case. Ci sono i giovani laureati che preparano i bagagli per “andare via dall’Irpinia/ terra benedetta dai politici/ servi dei padroni” (p. 201), mentre il catrame corrode gli alberi, i luoghi, le genti. Il pianto per un mondo devastato si mescola a quello privato di Vincenzo, quando guarda ai suoi affetti. L’equilibrio tra pubblico e privato è in una delle ultime (e più riuscite, come nota nella presentazione Massimo Sannelli) liriche della raccolta pubblicata con Faraeditore Pubblica con noi 2007: “Mio nonno Vincenzo è un vuoto/ di memoria la vita senza storia/ scomparso in fretta dal mondo” (p. 215). Tuttavia non cercate nella raccolta la finezza di una lirica meditata nei suoi percorsi ritmico-sintattici, ma avrete un corpo a corpo con l’immediatezza – a tratti forse un po’ abusata e con qualche eccesso didascalico –, con l’urgenza di esprimere un risentimento per la devastazione fisica e morale di quei luoghi, senza che vi sia stato un filtro, quell’“emotion recollected in tranquillity” per dirla à la Wordsworth. Ma forse è giusto così. Del resto il poeta si affretta a chiarire che “non so scrivere poesia/ ascoltare solamente/ la gravità delle parole” (p. 210). Quindi l’invito è ad ascoltare la gravità delle parole che sappiano raccontare il difficile momento storico-politico del Sud.
Eppure, infine, è la poesia che salva, quando Dante cede “ai suoi figli/ eredità di sale” (p. 205) con un monito che attraverso secoli è ancora valido. Infatti, ancora, D’Alessio esorta noi tutti a proteggere i poeti, in un afflato vagamente foscoliano: “Proteggete le tombe dei poeti/ che non le raggiunga la morte/ moneta della dimenticanza/ […]/ Lasciatele ai posteri/ figli di altri figli” (p. 208).

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