venerdì 5 febbraio 2010

Su Il pudore dei gelsomini di Adele Desideri

Raffaelli Editore, 2010

recensione di Vincenzo D'Alessio

La varietà dei sentimenti, che scivolano nell’ampolla (quasi clessidra temporale) della raccolta Il pudore dei gelsomini, costituiscono il segno colorato di un’armonia desiderata tra umano e naturale. Dal punto di vista semantico la parola è divenuta strumento spazio/temporale per misurare la propria e l’identità del creato, visto con gli occhi puri del Poeta. La traboccante sessualità trasfusa nei versi non è che visionaria passione per l’esistere in sé e nell’appartenenza agli altri. Il corpo non è che un tramite del multiforme strumento dell’anima.
Tutte le composizioni affondano nella mitologia greca e latina, variegando di divinità e creature favolose, l’incontro tra Amore e Dolore. Ritroviamo la favola di Esiodo dell’allodola e dello sparviero (callida iunctura); il re Salomone con il Cantico dei Cantici “Entri il mio diletto nel suo giardino” – mentre la nostra poetessa dirà: “Non sono il giardino del tuo cantico.” (pag. 16) – Sodoma,Gomorra, Babele; Tantalo, Itaca, Tebe; il Tigri e l’Eufrate (antico Eden); i luoghi del genocidio armeno (cristiani) perpetrato dai Turchi dal 1915 al 1918 e poco ricordato dalla Storia: a differenza degli Ebrei gli Armeni hanno minori possibilità economiche per farsi ricordare.
Quattro sono le parti che compongono la raccolta. La più drammatica è “Elegia” dedicata al padre. Questa lunga melopea, segnata da anafore, resta nelle coordinate sentimentali dell’intera raccolta come il punto di attracco nella terra poetica della Nostra: “Padre, io amo. / Esisti / e sei un altrove.” (pag. 37)
Pudore di essere cosciente del dramma che il corpo comporta: il tempo tramanda le forme solo nella mente, mentre il corpo lento scende a divenire la polvere che è: “Io morte, / io lucida insegna / io sola detergo / le membra, ma poco, / e veglio il dolore / o meglio il sapore / di vita che muore.” (pag.41)
Accolgo questi versi brevi, taglienti ad ogni chiusa, caustici, come l’ultima offerta accesa accanto al sepolcro del morto, dopo che lo strigile ha deterso l’estremo sudore. La tragedia è sul proscenio del mondo, sotto lo sguardo di tutti, ma nessuno sa comprenderla.
Il tripudio dei gelsomini, tra Sacra Scrittura e mitologia pagana. Semiotica di un linguaggio perduto e poi ritrovato con la fatica del divenire. Il fiore profumatissimo che dura meno di una primavera. Un attimo nascente, un fiore a stella, che dura solo l’attimo di un profumato respiro. Giovinezza eterna perché colta nel suo attimo più forte:nascita del mito. Tutte le poesie cantano una poetica colorata di vita intensamente vissuta e dolorosamente ripiegata nella valigia del viaggio. Dei viaggi intrapresi dalla Desideri, verso l’antica terra calabro-greca, la cittadina di Soverato annoda il dialogo annunciato dal prefatore Tomaso Kemeny, “evoca l’intenzione di trasfigurare la natura nei giardini di una grazia antropomorfa, e/o di mutare l’umano in una leggenda vegetale.” (pag. 5)
In questa poesia scritta sulla terra calabra, l’accoglienza, il sorriso degli altri, l’incontro con la semplicità parlano ancora la lingua dei segni che l’Autrice ricerca da quando ha scopeto di sé il seme della difficile via dello scrivere: “Tra le mele mature, nel mio fiore di zucca, / sei germogliato come il gelsomino / quando profuma, pizzica l’aria/ e si nasconde tra il pudore delle foglie.” (pag.16)
Nei versi sono tante le figure retoriche, gli stratagemmi poetici per annunciare al lettore il canone dell’intera commedia. Gli ossimori spingo a capire: “legni di vetro, giorni appesi ai chiodi”; le sinestesie svelano tratti: “il cuore balbetta, veglio il dolore, bruciare i crocefissi”, ma gli attori siamo noi, i lettori, che assistiamo allo svolgersi delle scene attraverso la pantomimica e i segni divenuti suoni che l’infinito spettacolo della Natura (compresa quella umana) ci offre attraverso l’alfabeto della Poesia.

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