martedì 30 marzo 2010

Su PigmenTi di Antonietta Gnerre

Edizioni L’Arca Felice, 2010

recensione di Vincenzo D’Alessio

In tempi violenti, segnati dallo spasimo continuo del dolore sociale e morale, come quelli che viviamo, un attimo di sosta, nei versi della splendida plaquette della poetessa irpina Antonietta Gnerre, è come acqua che disseta l’arsura del corpo. PigmenTi è il titolo della raccolta.
I poeti, le poetesse, sono da secoli la parte migliore della società organizzata dagli esseri umani. Sono le sagome, mobili, esposte ai venti gelidi delle inquietudine e delle sofferenze. Vivono ai margini delle società votate all’economia del vivere quotidiano. Si alimentano del colore dei sogni, scoperti nel confronto con la Natura.
La raccolta che ci propone la Nostra è possibile accostarla a quella di un grande poeta del Novecento, Benito Sablone del volume L’Angelo di Redon (edizioni Tracce, 2000). Sablone rende omaggio al grande artista francese Redon Odilon, con versi ricchi di quell’ardito passaggio della lingua, definito Simbolismo, che vede nel simbolo l’archetipo della Poesia. La Gnerre fa un analogo passaggio prendendo spunto, attraverso analogie e metafore, dal simbolismo naturale. Il pigmento che colora tutte le forme viventi. La linfa che alimenta uomini, animali e piante. L’alito infuso dal Creatore alle sue creature.
Simboli di vita che ritornano nelle stagioni. Così dalla prima raccolta pubblicata dalla Nostra, che recava il titolo Anime di foglie, si giunge a quest’epilogo che svela, in tutta la sua complessità e nel suo vigore, la maturità raggiunta in poesia. Simbolismo contemporaneo che riversa, nel Dio nascosto allo sguardo materiale degli uomini, le speranze per superare “il flagello della tempesta dei ricordi” insita nella mente di ognuno di noi: “(…) Eppure, sento, che non hanno riparo / queste mie pene./ Nascono dalla / tua materia, per restare sul rigo / di un grande motore umano. / La mia carne”. Eccoci di fronte al testamento spirituale della poetessa. Rieccoci di fronte all’invocazione, rivolta al Creatore e al suo creato, di riuscire a comprendere la veridicità del dolore che si subisce, che si accoglie, che ci conduce a quel Golgota di fine vita. La metafora si ricompone nel verso “foglia disabitata”, come l’invocazione nella Passione “Padre perché mi hai abbandonato?!”. Tutto il creato “trema” di fronte alle porte del Mistero. Ogni creatura, annientandosi, cerca nei “propri segreti”, analogia del dialogo interiore, la Speranza “di amarti / senza mai più tardare”.
Quest’affermazione appartiene agli animi grandi. Alle coscienze preparate all’incontro finale con sorella Morte. La risposta all’interrogativo, perché viviamo, viene colmato dalla Gnerre, in questa raccolta, ancora nel dialogo simbolico con gli elementi della Natura, uomo compreso. L’ikebana, citato in una della poesie, bene rappresenta lo sforzo semiologico di” sgranare i lucchetti dell’universo”, di scardinare finalmente i dubbi e raggiungere le certezze, attraverso la poesia.
Una poetessa che ha toccato, dopo un duro cammino, le sponde dove sorge la sua poesia. Un cammino, simbolicamente a ritroso, per ritrovare lo spirito primo, puro dell’infanzia, che nutre la versatilità e aiuta a superare le insidie dell’esistere. Lo declamano i versi che ancorano la poetessa ai luoghi della nascita: “Irpinia, mia sventura e mia sopravvivenza / terra del mio sangue, verde e cosmica/ infinita fino a schiacciarmi”. La coscienza che il luogo dove vive lo spirito è quello del mito della nascita ma ha bisogno degli spazi ampi del circostante per liberarsi e comporre.
Prova poetica di elevato spessore filosofico, senza abbassare la musicalità delle composizioni. Una pietra miliare nella poetica di Antonietta Gnerre.

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