domenica 20 giugno 2010

su La caduta di Bisanzio di Alessandro Rivali

Jaca Book, 2010
di AR

Questa nuova raccolta del poeta genovese ci conferma la indubbia qualità della sua scrittura, giustamente definita visionaria e sontuosa da Roberto Mussapi in quarta di copertina. Aggiungerei senz'altro l'aggettivo che secondo me meglio caratterizza la poetica di Rivali: epica. Non solo per la capacità di rendere mitici gli eventi storici di un passato più o meno recente, ma anche per la forza a tratti direi “impietosa” con cui vengono indagati, attraverso gli eventi e i loro esiti “schiaccianti”, i più intimi recessi dell'animo, del cuore e della mente dell'uomo.
Il libro si apre con tre poesie-prologo in cui già veniamo introdotti al modus scribendi del Nostro: gli oggetti diventano simboli, le visioni rivelazioni, i sentimenti paradigmi della condizione umana. La prima, in cui si parla (come ci viene rivelato nelle note in appendice) della peripatetica Tazza Farnese, ci offre subito esempi dell'inconfondibile stile di Rivali: “Era segno dell'armonia primaria, / come gli occhi di un donna / o le matematiche del cosmo. / (…) / Passato e presente si penetravano / seguendo il pendolo delle capitali” (p. 7). E nella seconda: “Sono rossi gli occhi dei mistici. / Metti la lingua nella loro brace: / muoverai le sorgenti dei secoli” (p. 8). E nella terza si intrecciano storie di famiglia (la fuga dalla Barcellona devastata dalla guerra civile nel '36)  con il presente esangue del porto di Genova e i pervasivi riferimenti biblici che sono peraltro sparsi per tutta la raccolta. Ha poi inizio la sezione “Pompei” in cui la distruzione della città campana richiama la scomparsa di Atlantide e più in generale la consistenza tuttosommato effimera delle anche più grandi opere dell'uomo  così come dei più vasti disegni “imperiali” (come sempre, è questa una cifra di Rivali, fatti particolari si mescidano a rivolgimenti storici epocali, la storia stessa viene per-corsa con scarti spazio-temporali che frantumamano l'aristotelica unità di luogo-tempo-azione): “Poi una cortina di fuoco cancellò / Thira, la regina del mare, / il passato si adagiò sui fondali” (p. 13); “Durante gli scavi trovarono / l'ultimo spettatore del teatro / chiuso nel mantello di pietra” (p. 18); “Pensa all'intreccio degli scheletri / sotto il porticato di Ercolano, / ogni schiena sul proprio bene, / figli, schiavi o chirurghi / con i ferri per curare la carne” (p. 20).
Segue la sezione fondamentale del libro “Bisanzio 29 maggio 1453” con la descrizione quasi giornalistica e fotografica della brutalità bellica: “Furono sepolti in schiera, / sulla linea dove erano caduti: / le lance uscivano dalla fossa / sollevando una diga spettrale” (p. 28); “La notte i tamburi della guerra / torcevano le anime degli assediati; / fu invariato l'intreccio del ferro: / nei casolari piansero i padri / suppliziati al cospetto della luna” (p. 29); “Scavarono canali sotto le mura, / trasformando uomini in zanne” (p. 31); “Cadono grasso e sangue, / le balestre hanno lacerato / anche il costato del cielo” (p. 34); “Ricorda / i dadi sul sesso del nascituro / e le spade che scucivano i ventri” (p. 36). Segue una sezione mistica intitolata “Giovanni della Croce”: “Lo chiusero nella gabbia / per miniare la sua schiena / con discipline di ferro” (p. 42); “Ripetevano che era l'oscuro, / quando abitava lo splendore, / che gemeva nella tenebra, / mentre scriveva / un cantico sempre nuovo” (p. 44); “vedo le pareti dei secoli incendiarsi / come cotone trascinato dal vento” (p. 48).
Approdiamo quindi alla sezione “L'Eldorado” (con rifermento ai grandi navigatori e al Nuovo Mondo): “Più della seduzione dei colori / operò l'ossessione della prima via / da tracciare a Occidente / e il nome slanciato nei secoli” (p. 55); “Il sovrano si copriva di resina / per adagiarvi sopra la polvere aurea” (p. 60).
La sezione successiva si intitola “Sacrari”: “La selva aveva inghiottito / e solo Ungaretti era rimasto, / per scrivere del San Michele, / del drago che ruotava la spada” (Monte San Michele, p. 66); “iniettavano canfora nelle vene / per svegiare le tarantole interne” (Kolyma, p. 67); “Dio accarezza i perduti / con la mano di un cieco / che sfiora angoli e onde / e ritorna sul volto degli amici” (Passo del Turchino, p. 69).
Abbiamo poi la sezione “Persepoli” che si apre con versi ispirati al mito di Babele: “In principio furono / una lingua e una parola sola: / poi mescolarano mattoni e bitume / per un ponte contro il cielo” (p. 73). Mentre a pagina 81 troviamo una poesia che offre una chiave importante della archittettura poetica di Rivali sempre in bilico fra tragica o atarassica (stoica) “descrizione” dell'immanente e una tensione ad una luce trascendente che sia (evangelicamente ardua) Via di salvezza: “Secondo le storie degli Sciti, / nell'ultimo dei giorni / avrebbero legato profeti alle ruote, / incendiato carri e timoni / per lanciarli nella pianura, / come comete in fuga / sulla piana assiderata dal vento”. La sezione non a caso si chiude con versi ispirati a Ezechiele 37,7-10.
Le ultime tre sezioni si intitolano “La terra dei serpenti”, “La terra di Lamec” e “Atlantide”. Citiamo alcuni versi della penultima: “cercava la teologia nella storia, / dove risiedesse / la fonte dei cicli e dei ritorni” (p. 99); “Scelse la notte come lezionario, / ripensò ai moti millenari, / ai crani affioranti sulle dune, / ai grani ordinati dal vento / per nutrire le rose del deserto” (p. 100); “Ricordò Molokai, / il lebbrosario dove i dannati / oscillavano con specchi e lame, / per esaminare il morbo / e separare la carne dalla necrosi” (p. 105).
Dell'ultima sezione ci hanno particolarmente colpito questi splendidi versi: “Roveti bruciavano senza consumarsi / quando il profeta dialogava con Dio. // Nulla sapeva del suo nome, / se non che era e ascoltava / e volentieri fermava la sua tenda / accanto ai pali di quella dell'uomo, / che masticava l'esilio e la polvere / e come fossero lontane le sorgenti, / la terra dei datteri e del miele” (p. 112); “Mentre si spezzavano i sigilli, / sospirava il ritorno del profeta, / (…) / e poter dialogare da figlio, / senza più diaframma o roveto, / sfiorando con le dita la bocca di Dio” (p. 113); “Era conclusa / l'alternanza tra sogno e sangue, / contemplava infine / l'epicento e la bellezza del fuoco” (p. 123).
Sicuramente questo libro è una tappa importante, la conferma di uno stile, di una voce, di uno sguardo che sa profetizzare, che sa cioè farsi portavoce di una riflessione filosofica e, soprattutto, teologica sul senso della storia, con la forza di una narrazione sostenuta da un ritmo vibrante come le visioni (così simili come approccio a quelle degli antichi profeti su quali cadeva il “peso” di rivelarle) che danno fuoco alle pagine che le contengono.

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