martedì 16 novembre 2010

Su La corolla del ricordo di Chiara De Luca

Kolibris Edizioni, 2009, 2010
recensione di Vincenzo D’Alessio

Ho ripreso la lettura delle poesie contenute nella raccolta La corolla del ricordo, nove delle quali, incluse nella raccolta successiva: Animali prima del diluvio (Kolibris,2010), già letta e recensita. Ho faticato non poco a tenere il passo con la voce narrante della poetessa Chiara De Luca, autrice di questa stupenda raccolta: “(…) tutto parla di una poesia dal cuore dei nostri tempi, un’anima in poesia che vuole “ essere / di tutti e non restare”. Le parole sono del poeta irlandese John F. Deane, inserite nel risvolto interno della prima di copertina, a mo’ di introduzione.
Anche i versi, ripresi dalla poetessa Emily Dickinson, e inseriti in questa raccolta come chiave di lettura, ci parlano della bellezza dell’anima The soul her “Not at Home”. Versi asciutti. Germinati come petali di quella corolla esistenziale del fiore che sono i ricordi. Due sfere sensoriali diverse: quella naturale, direi verginale, del fiore e quella sensoriale,indefinibile, della mente. Una sinestesia voluta per raggiungere il lettore lungo il cammino, che ne forma la poetica, teso ripetutamente “ad annusare l’abisso” per scrivere, con la penna “versi sul silenzio” (pag. 7).
La raccolta ha ricordi diversi, colorati, musicali. Provengono dalla memoria collettiva e da quella personale della Nostra, che mima un dialogo, apparente, con un sé indefinito che sovrasta i ricordi e li materializza in forza evocatrice: “Quando tolgono la musica dal mondo / a lungo a me rimane addosso / quel sottrarmi gli occhi per salvarti / il tuo sapore in lieve gestazione / il silenzio ignavo delle tue parole, / che ho portato a spalle per l’Italia / riletto come macchie nel passare / confuso delle case dentro il vetro / stringendomi la sera in fondo al treno” (pag. 18). Volutamente, le cesure poste nelle chiuse dei versi di questa poesia, fanno da contrappunto al dialogo tra l’anima e chi scrive.
I versi “a lungo a me rimane addosso /quel sottrarmi gli occhi per salvarti”; l’enjambement dalla prima alla seconda immagine ci svela il dialogo che fa di questa raccolta, una delle voci limpidissime, del nuovo comporre nel secolo che stiamo vivendo. Il sé che appartiene al mondo e ne vive e rivela le affinità; le sofferte ore di partecipazione esistenziale ai movimenti dell’umano che ci circonda; la lotta impossibile con “i demoni” che albergano in noi e la voglia, sincera, di uscire dal mondo per non essere “bambini sconfitti” dall’ipocrisia dei nostri simili: “Vedi quante palpebre ha sull’autobus la vita” (pag. 19).
La città, dove la poetessa vive, Bologna compare di continuo in questa raccolta: madre; sofferta identità del vissuto; bugiarda (pag. 33) come tutte le apparenze umane: “Bologna / gli sguardi piantati / a sangue su ciò che sei stata” (pag.12) Emerge il ricordo del capoluogo emiliano con i suoi partigiani, le mura delle “Caserme Rosse” dove più feroce vive il ricordo nazista. La stazione con le sue vittime innocenti: “Nuovamente bella nel terrore” (pag. 13). “Danza nuda sotto le due torri, / (…) / un tifo da stadio l’accompagna, / e chissà che marchio porta sulle labbra / come chi ogni giorno sveste ogni pudore / versandosi in poesia per essere / di tutti eppure non restare” (pag. 21). L’enjambement la fa da padrone come a continuare, pensiero che fuga ogni traccia di staticità, la sorte del poeta: essere servo della Poesia, pronto a scomparire da un mondo che l’inchioda al reale.
La raccolta è divisa in due momenti. Due distanze di una medesima spiaggia, lontana dal mare. Dune dove i passi lasciano “ricordi”, che il vento, ritmo di un tempo che ci circonda e domina, cancella irrimediabilmente. La corolla attrae l’insetto per consentire l’impollinazione, la continuità delle specie differenti nella Natura. Allo stesso modo, la metafora del fiore, è rivolta al lettore: viene attratto, fortemente, dai colori e dai suoni che promanano dalla possanza dei ricordi. Non sono ricordi personali. Sono parte di quella recondita attività naturale che è la continuità della specie poetica: “(…) / abitiamo un anno intero la distanza di una sera / vorrei essere di strada ma la strada non è chiara” (pag. 30). Non è stata mai chiara la strada per nessuno di noi, in nessun momento della nostra breve esistenza. La poetessa De Luca lo indica con una metafora indelebile nella medesima poesia: “(…) auto in fila indiana sono stanche di arrancare / aprendosi per terra un varco lucido d’asfalto, / loro sono giovani e spogliate di tormento / insanabile sui viali a tarda notte il gelo” (pag. 30).
La giovinezza stimola il viaggio, distoglie il tormento che giunge nella maturità. Mentre la fine dell’esistenza ci raccoglie in fila indiana, metafora del viaggio verso la montagna presente nella mitografia orientale, riportata come il gelo che a tarda notte colpisce “insanabile” sui viali dove si svolge la vita. In questo motivo esistenziale ritornano alla mente i versi di Cesare Pavese, della raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sono molteplici i profumi che emana la corolla di questa raccolta. Non tutto fonda sul dolore. Non sempre la sofferenza è la penna intinta “nel sangue del silenzio”. Il lettore avverte la dolcezza della parte metafisica della raccolta, quella che manca ai tempi moderni, la scoperta di una energia che ristori il cancro degli uomini: “(…) m’invento la fiducia che coltivo per nessuno / ed è meraviglioso quanto siamo colmi di dolori / grandi di ricordi e di segreti che nemmeno più / sveliamo” (pag. 35). In questi versi la cesura blocca il primo dei contenuti posti alla base della raccolta. I versi che seguono, nella stessa composizione, svelano l’altra metà del percorso della poetica di De Luca: “(…) / perché in fondo è facile sorridere e lasciare / che il mondo giochi pure con le tue controfigure, / mentre tu sei tutta questa storia splendida e crudele / che nessuno ha tempo di abbracciare” (pag. 35).
Nelle parole “meraviglioso”, “splendida e crudele”, sorge il senso vero della poesia e dell’esistenza di noi esseri umani: l’abbraccio. La finalità ultima dell’Amore condiviso, per quella che, testardi, la Poesia ci fa chiamare Vita.
Montoro, novembre, 2010

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