martedì 28 dicembre 2010

Su La sonnolenza delle cose di Fortuna Della Porta


recensione di Vincenzo D'Alessio
Nella collana “Aretusa”, delle edizioni LietoColle, è stata inserita ,e pubblicata, la raccolta di poesie di Fortuna Della Porta, salernitana, che vive a Roma, dal titolo: La sonnolenza delle cose. Una potente trasposizione, mito-filosofica, in versi. Più di cento pagine pregne di riferimenti ai miti greci e latini, e a fonti ancora più antiche. La poetica è densa di una maturità che conforta il lettore agguerrito: “(…) La mia maturità / (arduo dirla vecchiaia) / oramai disfatta / in un campo di stoppie / ha solo paletti per sostenere / ancora un giorno” (pag. 53). E, dall’altra faccia della lettura, non bastano i versi deliranti e profetici della poetessa a far sì che: “(…) Ma il diavolo è innocente / e solo una parola / non scalda” (pag. 101).
Tutta la raccolta, compresa tra poemetti e stanze, è un inno solenne alla Poesia, alla forza che da essa si leva, nel corso del Tempo, per reggere i sogni dei poeti e indicare il cammino: “(…) allo sconcerto della controra / coltivo in lacrime / un refolo di mutua pietà / per i fantasmi compagni del viaggio / mentre la lingua dissipa il vaniloquio / che s’alza e sorvola aria incontrastata” (pag. 28). La valenza del poeta, quale partecipe di un ordine cosmico grazie alla poesia, viene assunta e dimostrata nei versi della Nostra, quasi come fossero sentenze emesse da una bocca votata all’incomprensibile ditirambo dionisiaco: “Ogni poeta ha il suo alfabeto. / Chi nasce a sud, nella bisaccia desertica, / e si chiama, poniamo, Tuareg / cerca sotto l’aridità della crepa / il flusso dell’acqua” (pag. 47).
Questi versi sono soltanto una parte delle tante “sentenze” declamate in versi per tracciare i punti geopoetici che ogni autrice/autore porta nella propria scrittura. Gli stessi versi, a volte colmi di una musicalità ancestrale, quasi da ninna nanna, sono il viatico per il lettore che si sobbarca la lettura del viaggio nella vita, e nella poesia, della poetessa. Bene scrive Lucio Zinna, nelle pagine che precedono la raccolta che stiamo leggendo, a tal proposito: “(…) Il viaggio può considerarsi, in ampio ventaglio metaforico, nucleo tematico basilare della raccolta”. Tantissimi sono i richiami al lettore per rivedere, in sé stessi, i mutamenti del pensiero e delle forme che hanno le cose intorno a noi. Cose apparentemente silenziose, chiuse in una sorta di attesa, che aspettano di essere “scoperte” dagli occhi affamati della nuova umanità che legge.
Una sorta di viatico, indispensabile, per abbracciare generazioni e tempi, che altrimenti resterebbero nascosti nella cenere delle menti che si spengono, quasi si bruciasse una intera libreria di testi unici: “A rovescio ti canto, fuoco. / Non fuoco di pane e di chiaro / non l’incipit, ma la cenere” (pag. 52). Come dai versi di Omero, gli archeologi, cercarono le rovine della famosa Troia, così la poetessa Della Porta ci racconta, commensali di un convito immortale, la sete della parola poetica. “(…) Mi persuade di nuovo, in salvo dalla nebbia, / che, sul far del giorno, il sole / con una gemma mi indorerà i capelli / e un insetto – una farfalla? – con anima e presagi, / riparerà soffiando allo squarcio della morte” (pag. 50). E in questi versi, ispirati alle “Vie dell’anima”, compare l’invito di Trimalcione ai suoi commensali, la “larva argentea”: “Ergo vivamus, dum licet esse bene” (Satyricon, 34).
Quante voci, come un coro, compaiono e riparano nella nostra mente. Quel ditirambo comprende anche noi, sospinti dalla lettura dei versi della Nostra, che ci trasportano in un mondo ancestrale e attuale: mondi  volutamente contrapposti, per generare la lezione che il grande Vico inaugurò nella sua Scienza Nuova.
La parte che a noi più  aggrada è nei versi che designano l’identità, tutta umana, della voce che narra: “(…) Ma tra le pieghe porto / il grembo di mia madre / il tortino di fragole / dell’unica nonna / infilata ricurva / nelle increspature / degli occhi verdi azzurri / le piume del chiacchiericcio / per la tregua sul seno suo / posata” (pag. 51). Nel personale, cantato dalla Nostra poetessa, ravvisiamo tutto il calore della poesia meridionale, colma di calore umano, sempre pronta a condividere e donare, una poesia densa, della trasfigurazione, che fa del poeta la voce sempre nuova da ascoltare: “(…) Sono altra da ogni cosa / che comincia. / Sono una fine. / Sono l’urlo dell’amore / che non mi ha voluta / – come mi avrebbe colmata! – / mentre osservo da una finestra / il tempo che insiste a portarsi via / il mio ultimo tempo” (pag. 23).
Versi personali che divengono universali. Accanto ai miti, alle voci bibliche, alle assonanze, metafore, enjambement, anafore, c’è una serrata ironia che produce, in chi legge, l’apprezzamento per la poetessa, per i temi scelti e le opportunità offerte alla mente di scardinare quei “mostri” che ci accecano, portando via, così, la violenza che la società attuale degli uomini conosce. I versi compresi nel poemetto Disparità, incluso nella presente raccolta, sono carichi della lezione dei contemporanei, come il grande Pierpaolo Pasolini (Trasumanar e organizzar, delle Pagine corsare); di Montale della “terra dei limoni”, o della bella poesia  intrisa di fuoco meridionale, il dialetto lucano, della ricordata poetessa Assunta Finiguerra (scomparsa nel 2009). Il sud , “bruciato deserto”, è parte integrante della poetica di Fortuna della Porta. Voce antica e porto sepolto: “(…) Come quando a mela cotogna / o pannocchie si mangia nel sud / I ragazzi inseguivano il cerchio / e battevano le figurine del calcio” (pag. 99) e poco prima, nella stessa stanza, i versi: “Come quando in terra di limoni / cantavano il corredo le donne / del bruciato deserto del sud” (pag. 98).
C’è attenzione verso i giovani: sia nel ricordo della giovane vita di Icaro, sia nei versi del (monologo) a pag. 87: “(…) Ma tutta la mia città si arrende come Tèreo / sta cedendo alla folgore i passi dei giovani, /  i grembi delle gestanti, le mani delle madri che sanano”. Tutta la raccolta vibra di una filosofia che vuole superare quel doloroso “velo di Maya”, per fluire nella concordia poetica, ricordata dall’epigrafe posta all’interno di questa raccolta, richiamando l’iscrizione sul tempio dell’oracolo di Delfi: “Ti avverto, chiunque tu sia. /  Oh tu che desideri sondare gli Arcani della Natura, / se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerchi / non potrai trovarlo nemmeno fuori” (pag. 31).
Dov’è, dunque, “la sonnolenza delle cose”, che dovrebbe rappresentare una umanità che non si accorge, assopita dal troppo benessere, dell’accadere delle “cose” nella universalità del mondo presente?
Noi l’abbiamo cercata nell’anabasi dei versi, in questa raccolta dalla struggente forza femminile; e l’abbiamo condivisa.
  Montoro                           

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