martedì 30 novembre 2010

Novembre a Napoli


GIOVEDI’ 2 DICEMBRE PRESSO LIBRERIA TREVES DI NAPOLI
SI PRESENTA IL POEMETTO DI DOMENICO CIPRIANO “NOVEMBRE”


Giovedì 2 dicembre ore 18.00
Libreria Treves
Portici di Piazza del Plebiscito
Napoli

Domenico Cipriano
Novembre (Edizioni Transeuropa)

Presenta Gabriele Frasca
Introduce Bruno Galluccio
Letture a cura di Giovanna Marmo



Sarà il critico e poeta Gabriele Frasca a presentare a Napoli il poemetto di Domenico Cipriano dal titolo “Novembre”, edito da Transeuropa.
L’incontro, previsto per giovedì 2 dicembre alle ore 18,00 presso la Libreria Treves in Piazza del Plebiscito a Napoli, sarà introdotto dal poeta Bruno Galluccio che dialogherà con l'autore e la cura delle letture è affidata alla performer Giovanna Marmo.
Una raccolta di poesie sofferte, che parlano del sisma dell'80, dell’Irpinia, della sua gente, di ricordi, di ricostruzione, di futuro. Un libro di grande spessore e originalità, che si avvale della prefazione del Prof. Antonio La Penna, che così scrive: “I numeri dei versi corrispondono a un jeu de chiffres: le strofe sono 23, perché la data del terremoto è il 23 novembre; ciascuna strofa è di 7 versi e il prologo è di 34, perché il terremoto scoppiò alle 7 e 34; l’introduzione poetica è di 11 versi, perché novembre è l’undicesimo mese dell’anno. Credo che sia ben difficile trovare, nella poesia di oggi, qualche cosa di analogo o affine. Senza avviarci in una ricerca di esito incerto, diciamo che l’architettura è una traccia paradossale del terremoto, che di architetture ne ha distrutte moltissime”. La scrittura ha un difficile compito se si incarica di unire la riva del passato con quella del futura, e la poesia può sanare le ferite tra presente e futuro, e legare il tessuto antropologico-culturale tra le generazioni – come in più occasioni ha sostenuto Cipriano.
Alla pubblicazione di Domenico Cipriano si accompagna un lavoro musicale, il CD di Pippo Pollina dal titolo “Ultimo Volo - orazione civile su Ustica”, realizzato per ricordare quell’immane tragedia con lo sguardo inedito dell'unico personaggio in possesso della verità: il Dc9 Itavia, che si inabissò tra le isole di Ustica e Ponza. Un’opera coinvolgente, in perfetto equilibrio tra musica, teatro e narrazione, per cercare ancora la verità e perché Ustica non sia mai dimenticata.  Alle letture, affidate alla voce recitante di Manlio Sgalambro (il filosofo noto anche come paroliere di Franco Battiato), si intrecciano le canzoni e le musiche di Pippo Pollina, accompagnato dal Palermo Acoustic Quartet e dagli archi della Filarmonica “Arturo Toscanini”. L’iniziativa è in collaborazione con il Traseuropa edizioni.

lunedì 29 novembre 2010

Su Ma il cielo ci cattura di Ardea Montebelli

FaraEditore, Rimini 2008
recensione di Anna Maria Tamburini

Componimenti a confronto con la Parola, alcuni di soli tre o quattro versi, più alcune immagini fotografiche e un commento di S. Agostino sul tema di fondo: la luce della verità che l’amore conosce.

I testi di Ardea nascono sulla pagina pari, a fronte di due passi biblici, da libri diversi, tra loro in dialogo: sono riflessioni, una silenziosa ruminatio della Parola che penetra nell’intimo e si fa voce. Fa eccezione l’inno alla carità di Paolo del quale è riportata una più ampia porzione di testo e sta solo. A fronte, una sintesi dell’amore materno:
Generosi occhi di madre
dividono con noi calore
spezzano il pane
e non ancora sazi
ci offrono ristoro,
stupore nelle sfumature
del bel volto,
passaggio di rondini. (p. 35)

Basta l’ultimo verso per dire l’essenzialità di questa scrittura, che proprio perché privo del “come” di comparazione, rende con assoluta freschezza, connotata d’innocenza, quel battito di ciglia che traduce la carezza dello sguardo materno innamorato. Così l’ultima sta dentro alla prima e più grande similitudine, ugualmente implicita, dell’amore divino: Generosi occhi di madre.
La selezione dei passi biblici sulla pagina dispari è condotta sulla base di un dialogo tra i testi che guida il lettore a riconoscerne la parentela: «Manda la tua verità e la tua luce; / siano esse a guidarmi» è la preghiera del Salmo (Sal 43,3) che trova compimento nell’annuncio evangelico: «Io sono la via, la verità e la vita…» (Gv 14,6). Il testo poetico a fronte – se restasse incomprensibile / e in forse / toccata dalla perfezione / troverei amiche tutte le cose ( p. 37)– si sintonizza con la poesia di Agostino Venanzio Reali : «Se venendo la sera sapessi / che il mio male non le ha toccate / me ne andrei con la speranza / d’una fragrante purezza»; e anche «Ci ri-conosceremo in lui / amici di tutte le cose».
Del resto il titolo stesso della raccolta Ma il cielo ci cattura (un verso del componimento Inesorabile e bugiardo, p. 49) si sintonizza con Reali («aneli come veltro e preda») unitamente a tutta la poesia e alla mistica che rappresenta l’amore divino attraverso la grande metafora venatoria nel confronto tra predatore e preda.  
Dalla medesima tensione spirituale nascono le immagini fotografiche, rigorosamente in bianco e nero, degli eremi d’Abruzzo: è la luce che trae all’essere quelle architetture e fa parlare i luoghi dalle cime più impervie dove il silenzio urla lo spessore fisico della trascendenza.
È difficile confrontarsi con una poesia tanto coraggiosa da lasciarsi provocare direttamente dalla Parola per rispondere non solo con la propria disposizione interiore ma con la propria voce che si fa scrittura, dove l’autentica poesia coincide con l’autentica preghiera.
Ma può l’abisso / aprirsi alla luce?/ Sul segreto delle mie parole / sul mio tormentato credo / per qualche tratto / il mistero si dissolve (p. 37). Le parole non sono del poeta, infatti; per questo recano una cifra del mistero.
                                                                              

Farepoesia a Bologna 03-12 h.18


La libreria Golconda [via Nosadella 23/a] ospita la presentazione di


inserto di Farepoesia n. 3, rivista di poesia e arte sociale: venerdì 3 dicembre 2010, ore 18.

Tito Truglia, editore di Farepoesia edizioni, e la redazione bolognese della rivista (Chiara De Luca, Lorenzo Mari, Luca Ariano, Guido Mattia Gallerani e Rossella Renzi) presenteranno il progetto editoriale di Farepoesia e interpelleranno il pubblico sulla questione:

Qual è la situazione poetica e letteraria della città sul finire degli anni Zero?

Con preghiera di diffusione.

giovedì 25 novembre 2010

Su Il verbo infinito di Giuseppe Carracchia

Prova d'Autore, Catania, 2010

La raccolta di Giuseppe Carracchia, classe 1988 con già due sillogi pregresse (Pensieri notturni e Anime vagabonde),  è suddivisa in sette (numero biblico della completezza) sezioni con verbi all'infinito: “Fiorire”, “Esistere”, “Amare”, “Riposare”, “Sbendare”, “Condividere” (la più lunga) e “Vivere”.
Lo stile è caratterizzato da un dettato terso, sapienziale, con squarci immaginifici e con riuscite tensioni logico-linguistiche: «… La primavera /dell'inverno è il più bel freddo / che questa terra può dare» (Febbraio, p. 11); «anche la terra può dare il suo mare, / un infinito di solchi da navigare» (Primavera, p. 12); «Così lo zefiro sposa le foglie giocando / a sorte sulle pozze, sfiora ogni cosa / e anche la morte è un invito a nozze» (ivi, p. 13); «come le scarpette di un fiore / io voglio essere unito / e sempre slacciato» (v. esergo della sezione “Esistere”, p. 17); «La bellezza si muove con l'uomo / è l'uomo che raramente le va dietro» (p. 18); «Giocare senza troppo toccarla col bozzolo d'una farfalla / capire delicatamente che il vero amarla è / quel lasciarla al suo tempo senza mai perderla dentro» (p. 19); «per imparare ci vuole una vita, per capire un attimo» (ivi); «Esistere è la mia preghiera, un'arte: / ascoltare un po' del tutto nella parte / e benedirlo d'azzurro» (p. 20, trovo particolarmente bella questa terzina che penso si possa assumere anche come una dichiarazione di poetica). Anche l'esergo della sezione “Amare” è particolarmente significativo: «Così Teseo lego il filo d'Arianna / con doppio nodo ad una spanna / dal cuore e strinse forte, per vincere / il male, per sconfiggere la morte» (p. 25). La sezione è compatta, da assaporare: «Ho trangugiato l'odore del bucato / appeso a fili sottili, l'attesa della tua / camicia blu: farsi cielo a stento, finché / non torni tu a colmare quel vuoto / d'aria: riempirsi di vento, fingendosi te» (p. 27). Ecco ci pare che il tono gnomico-visionario, giocato con misura, intellegenza e perizia retorica sia uno dei pregi di questa raccolta: «Anche gli occhi hanno fame: delizia / tutta da gustare questo latte spaziale» (Sub noctem, p. 31); «ci provo a germogliare con le mani» (p. 40); «Libertà è cadere, e dura poco / se pensi all'eternità / ma è un'eternità / se mentre lo fai non pensi a niente» (p. 41). La sezione “Condividere” è forse un po' prolissa, come qualche altro punto qui e là della raccolta dove c'è come un'ansia di spiegare che rischia di cadere nel prosastico o nella sentenza moraleggiante  (v. ad es. la poesia Vecchio mendicante) o nel “poetico” (v. Canto per il poeta) ma anche qui troviamo versi intensi e stimolanti: «Benedici la svista, ringrazia / l'imprevisto, ché oggi / nell'epoca dei manga orologi / è l'unica possibilità che ci resta» (Appunti per un viaggiatore, p. 50); «Ho cucito un tuo abbraccio mancato / al cuore scalzo,  stretto al mio fianco / per ogni distanza un salto di suture» (all'amico S., p. 52, eliminerei però il verso successivo «siderico balzo d'un organo pinzato»). Dell'ultima sezione si segnalano le due utlime poesie, perché anche queste una dichiarazione di poetica onesta e virbante, che inziano rispettivamente coi versi «Non desidero consumare il tempo / per paura che il tempo mi consumi» (p. 64) e «Amo, la perfezione del gesto di chi ha sbagliato» (p. 66). Dunque Il verbo infinito è senz'altro una bella prova: auguriamo all'Autore di trovare sempre più la sua voce, puntando dove necessario a una ulteriore essenzialità, voce che in queste pagine rivela già un suo timbro e una sua notevole pregnanza. Un libro che è un piacere riassaporare. (AR)

Su Se non si muore di Franco Casadei


Ibiskos Editrice Risolo, Empoli 2008
recensione di Anna Maria Tamburini

Densissima di riferimenti a testi letterari e opere d’arte, dai classici ai contemporanei, ai più vicini, agli amici…, la raccolta si apre nel dialogo con un poeta amico per chiudersi ugualmente con un altro dialogo con un altro poeta amico, al femminile; e sono riflessioni sapienti sulla poesia che da sempre, per statuto, si confronta con la morte, tanto più da parte di un poeta medico.
Ci vorrebbe un poeta (p. 17), dedicata a Gianfranco Lauretano in apertura, echeggia Emily Dickinson: la riva rassicura / ma la vela è destinata al vento. È un explicit apparentemente slegato dai versi che precedono, ma in realtà proprio il senso del rischio implicito al viaggio, o volo, lega il distico alla voce che canta la follia.
 La poesia è un attimo (p. 60), dedicata a Roberta Bertozzi, in chiusura, racconta l’esperienza del poeta che è visitato senza preavviso, e costretto a vigilare per accogliere il dono della parola, ma al tempo stesso, per analogia, si dice della vita: anche la vita è un attimo.
Alcune rapidissime descrizioni manifestano l’assoluto realismo dello sguardo, acutissimo: nello sciamare d’auto / le luci aggrovigliano le strade (p. 19); oppure luccica l’argilla tagliata delle zolle (p. 23). Straordinaria la capacità di sintesi: Van Gogh, quadri (p. 24) al tempo stesso in cui realizza un quadro d’insieme della produzione di un classico della pittura, rappresenta, immagine per immagine, come già l’opera, una metafora della vita. Sapiente, nella musicalità di fondo, anche l’uso della rima che spesso, a distanza, e al mezzo, congiunge i motivi sui quali si costruisce il discorso. Valga come esempio banco, stanco, schianto  in “Nighthawks” (p. 20).      
La raccolta presenta una struttura tripartita: la prima sezione, Sull’altra sponda, che si apre con la voce di Cesare Pavese in epigrafe, vorrebbe montalianamente aprire una fessura nel diaframma che separa il visibile dall’invisibile, i vivi dai morti; e nell’anelito al divino – tanto urgente è la Sua presenza (arriverai / anche se non chiamo, p. 27) – si fa implorazione incessante: vedere la misericordia promessa (…) abbracciarti, abbracciarmi / toccarti il respiro (p. 21); che si apra la porta (p. 25); luce / luce che scendi (p. 29).
La seconda parte, Poesie del dolore, che porta in epigrafe la parola sapienziale di Paola Lucarini di memoria campiana (derivata a sua volta dalla Weil e soprattutto da Hofmannsthal) – la nostra forza / sta nella profonda inconoscibile giustezza / di ciò che accade – , parte dalle radici del dolore, dall’incontro con la morte in età tenerissima quando l’evento non si può in alcun modo elaborare tanto che si struttura, nel crescere, come presenza ossessiva del mistero e inclina alla pietas che fa partecipi del dolore dell’altro anche nel nascondimento: Ho visto un prete piangere (p. 40). È il titolo che spiega lo stupore, in questo contesto, perché un sacerdote, come un medico, matura una certa consuetudine con la sofferenza. Alludendo all’immagine evangelica della porta stretta del regno dei cieli, con una punta di dolente ironia il poeta arriva subito, in incipit, alla conclusione : È entrato dalla porta stretta (…) io, dietro la colonna…/sono uscito furtivo / dall’orto degli ulivi ovvero dal luogo della passione, dove si suda sangue. Rimane un segreto senza nome (…) esprime anche profondo rispetto della sofferenza altrui.
La terza parte, Fra partire e stare, trascrive in epigrafe versi di Montale che indicano il volo come attraversamento della soglia. La sosta (p. 54) che a riva trova scheletri di tronchi portati dall’inverno, consente vedere che il vento mutevole di marzo / ha risvegliato i rami. Emblematica è la sequenza dei testi in chiusura Come rondini sospese (p. 58), vagamente ungarettiano – si resta come rondini –, seguito da Tutto è calmo ormai (p. 59): prima il tormento agitato del trapasso e poi la quiete dopo la tempesta.
Niente rinasce se non si muore.

martedì 23 novembre 2010

A Sarah

Poesia stampata sul giornale quotidiano di Piacenza.
Con un grande saluto
Mariangela De Togni

lunedì 22 novembre 2010

Sebastiano Adernò in Friuli

Iniziative Farepoesia

Martedì 23 Novembre
Per la rassegna Spazioaperitivo di Spaziomusica
Pavia - via Faruffini n. 5

SPAZIOINFINITO

Presentazione-happening della rivista FAREPOESIA

Con musica video readings interventi lectio brevis vino novello e buona birra.

A partire dalle 19.30 (orario di inizio dell’aperitivo), reading e inteventi a partire dalle 21.00. Ingresso libero. Spazio espositivo microeditoria con sconti supersonici.

Partecipano: Mariano Bellarosa (installazione e interventi), Tiziana Baracchi e Giancarlo Da Lio (Performance: Fluxus, chi era costui?); Bruno Marazzita (canzoni); I Cantosociale (Canzoni e proteste); Natascia Ancarani (Berlino città invisibile); Ennio Abate (I Molti in poesia. Lo stato dell’arte poetica oggi in Italia); Franca Bottaro (Donne in poesia oggi in Italia); Tito Truglia (Chi ha ucciso il dialetto calabrese? Indagine al di sopra di ogni sospetto).

Nel corso della serata presentazione dei volumi pubblicati da Edizioni Farepoesia.

Intervenite tanti e numerosi.

Con spazio libero di intervento: ognuno può declamare una o più poesie o dire quello che gli pare in tre minuti! INTER-VE-NI-TE!!!

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DOMENICA - 28 NOVEMBRE 2010

Con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura di Pero - Biblioteca Comunale

INCONTRI CON GLI AUTORI
Aperitivi Letterari (In vino veritas)

PuntoPero - via Sempione, 70 – PERO (MI) dalle ore 10,45

DI QUA E DI LA’ DEL TICINO

Natascia Ancarani (Palazzo della Repubblica e altri racconti, da 3x2 – Fara Editore),
Luca Ariano (Contratto a termine, Edizioni Farepoesia 2010 ),
Tito Truglia presenta la Rivista letteraria di Poesia ed Arte Sociale “ Farepoesia “.

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Venerdì 3 dicembre

BOLOGNA - Libreria Golconda - Alle ore 18.30
Via Nosadella 23/a (tra Piazza Malpighi e via Saragozza).

Presentazione dell’ultimo numero della rivista FAREPOESIA
dedicato in parte alla scena poetica bolognese.

Partecipano:

Lorenzo Mari, Luca Ariano, Rossella Renzi, Chiara De Luca, Guido Mattia Gallerani.


FAREPOESIA / Rivista di Poesia e Arte Sociale N. 3 Ottobre 2010, 144 Pagine in parte a colori! 12 euro comprese spese di spedizione. Abbonamento annuale (3 numeri) 30 euro (con libro in omaggio); abbonamento sostenitore 50 euro.

La rivista FAREPOESIA è una costola del progetto editoriale che porta lo stesso nome. L’idea è quella di offrire una possibilità di intervento ai tanti cultori dell’arte poetica (e non solo poetica) all’interno di un contesto di riflessione critica, letteraria ed extraletteraria... Per quanto riguarda i contenuti la rivista fa perno sulla categoria letteraria che è passata alla storia col termine di “poesia civile”. Senza cadere nell'errore di voler definire un qualunque canone, né di indicare una direzione obbligata, ci sembra essenziale attivare una decisa riappropriazione dei dati della realtà anche in riferimento al fare artistico.


Catalogo Edizioni Farepoesia

Collana Puro Movimento

Quasi dei blues di Guido Michelone è un'esplosione patafisica di versicoli blues e jazz. Nel panorama attuale della poesia italiana mancava un ingrediente di questo genere. Imperdibile. La poesia italiana oltre i limiti del suo endemico provincialismo.

Donne Seni Petrosi di Ennio Abate. Quella di Ennio Abate è una scrittura severa, in equilibrio tra le pulsioni contingenti e corporee e le forme di un verseggiare “dialettico”. Una scrittura che tende anche al poema in terza persona, ma non cancella il tono lirico in certi passaggi fondamentali e non esita neppure a passare alla cosiddetta prosa poetica. Nella cinica e ignorante opulenza, in cui troppi vivono la crisi contemporanea che ci sta trasformando, ritornare in poesia sulla relazione fondamentale tra uomo e donna è un’indicazione solo all’apparenza inattuale.

Collana Poesia e Realtà

Quadri di un’esposione di Giulio Stocchi. Un grande ritorno di una delle figure fondamentali della poesia degli anni '70. Letteratura civile scritta con l'eleganza e l'essenzialità dei grandi classici. Una breccia sulla parete viscida dell'italietta stile ventennio, una spina nel fianco della società incivile.

Contratto a termine di Luca Ariano. Collana Poesia e realtà, euro 7, pp. 84, formato12x20. Ariano è studioso serissimo e appassionato della poesia. Questa raccolta rappresenta una tappa del suo percorso di ricerca e di attraversamento della realtà. La categoria della poesia civile in questo caso non rende giustizia degli approfondimenti proposti.

Collana Sincronie

World Pavilion regia di Tiziana Baracchi e Giancarlo Da Lio, a cura di Stefano Menegon, euro 12, pp. 96, colore, formato A5. Un'utile introduzione alla vitalità dell'arte (italiana ed europea), un'esemplare immagine del concetto di padiglione mondo, ovvero dell'arte globale. Artbahnkreuz di T. Baracchi e G. Da Lio, a cura di Stefano Menegon, euro 12, pp. 102, colore, formato A5. Si tratta sostanzialmente del “secondo capitolo” di World Pavilion. Contaminazioni, incroci, no limits, attivismo artistico a 360 gradi. Una passerella di singolarità che fanno dello stare insieme un momentp fondamentale del loro essere artisti oggi.

MailArt Galaxy di Tiziana Baracchi e Giancarlo Da Lio, a cura di Stefano Menegon, euro 12, pp. 102, colore, formato A5. Dal ricco archivio di Mail Art di: T. Baracchi e G. Da Lio un'antologia che testimonia il fiume ininterrotto della creatività sotterranea e indipendente generata dalle mille infiorescenze di casa Fluxus. Arte gratuita come si conviene in tempi di flussi mercantili elevati all’ennesima potenza. Arte indipendente anche dall'Italia. Nonostante tutto!


Edizioni Farepoesia, Pavia via Torino n. 37, 27100 Pavia
titoxy@libero.it, cell. 3495959694

Su Facebook: Gruppo Farepoesia
www.farepoesia.it

Incontro su Rocco Scotellaro a Venafro (IS) 27 nov

Un incontro, che si preannuncia di notevole interesse, si terrà sabato 27 novembre prossimo, alle ore 17, nella Biblioteca Comunale “De Bellis-Pilla” di Venafro, e riguarderà il poeta e scrittore lucano Rocco Scotellaro. Ne parlerà lo scrittore Amerigo Iannacone.

L’incontro apre un ciclo di ventuno incontri – organizzati da Virginia Ricci – dal titolo “Emozioni - letture e critica letteraria”, che si terranno tra novembre 2010 e giugno 2011 e che vedranno coinvolti scrittori, poeti, critici letterari, storici. Tra gli autori di cui si parlerà: Oriana Fallaci, Dino Campana, Sandro Penna, Francesco Jovine, Alda Merini, Ignazio Silone. Relatori: Antonio Santoriello, Giuseppe Napolitano, Mario Matteo, Giuseppe Vera, Rita Iulianis, Domenico Riccio e numerosi altri. 
Dopo l’incontro su Scotellaro, quello successivo ci sarà sabato 4 dicembre, quando lo scrittore Aldo Cervo parlerà di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Rocco Scotellaro, uno dei poeti piú significativi e piú autentici non solo della Basilicata ma di tutta l’Italia, nacque a Tricarico, in provincia di Matera, nel 1923. e morì a Portiici, a soli trent’anni, nel 1953. Di lui disse Eugenio Montale: «Rocco Scotellaro ha potuto lasciarci un centinaio di liriche che rimangono certo tra le piú significative del nostro tempo [...] in lui l'impasto tra la vena che direi internazionale e la vena popolare hanno trovato un’insolita felicità d’accento».
Una delle sue poesie più note è “La mia bella Patria”: «Io sono un filo d'erba / un filo d'erba che trema / E la mia Patria è dove l’erba trema. / Un alito può trapiantare / il mio seme lontano.»

Nell’immagine: Rocco Scotellaro in un’incisione di Carlo Levi.


Grazie e alla prossima.
Amerigo Iannacone             
              
Visitate il blog / Vizitu la blogon:              
 http://amerigoiannacone.wordpress.com/         
             

domenica 21 novembre 2010

SE NON SONO GIGLI, raccolta scaricabile gratuitamente, di Federica Volpe

L’arte è libertà, ho scritto nella prefazione della mia prima raccolta edita, Lembi.

Ma l’arte è davvero libera, legato ogni suo arto al solo fattore economico?

Paga l’autore (tranne in rari casi), paga il lettore.

Certamente l’editore, per produrre l’opera, necessita di denaro, e di questo non ne faccio una colpa.

La mia è, primariamente, una mera riflessione.

Se l’autore non paga, l’opera non esiste sul mercato. Se il lettore non compra, l’opera è come se non esistesse.

Ho pensato: cambierebbe forse qualcosa se l’opera esistesse già in quanto frutto dell’autore, e fosse leggibile senza costrizioni economiche (il modo democratico) dal lettore?

Ho deciso, così, di rischiare con la mia propria pelle, con la mia propria opera.

Essa, “Se non sono gigli”, e formata, per sua natura e per mia volontà, da non-gigli, e nello stile sta racchiuso gran parte del messaggio.

Questa raccolta la si direbbe, dal punto di vista puramente estetico, brutta.

Impubblicabile, se non a pagamento.

Ho pensato, dunque, di rendere quest’opera libera.

Per farlo, naturalmente, non ho pagato alla SIAE alcun diritto.

Se qualcuno vorrà rubare ad una poveraccia il suo bouquet osceno, nessuno potrà impedirglielo, se non forse il suo buon senso, e la consapevolezza che andrebbe a combattere una guerra di povero contro povero (poveri di soldi, poveri di sogni).


Ringrazio chiunque leggerà.

Federica Volpe


(cliccare sul titolo del post per accedere alla pagina web da cui scaricare il file)

Cinque domande a Domenico Cipriano


sul libro Novembre Transeuropa 2010.

di Antonietta Gnerre

La poesia di questo poemetto è ispirata dal tragico terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980. Un terremoto che trasformò la nostra terra i nostri sogni le nostre speranze. Scrive Domenico: “un pezzo della mia vita e di quella delle persone di questi luoghi dove ho vissuto l’infanzia e la crescita e continuo la mia esistenza”. Un libro che ripercorre quel terribile dolore a pochi giorni dal trentesimo anniversario di quella calamità.


Il libro Novembre è ispirato dal tragico terremoto del 23 novembre 1980, un pezzo della tua vita che cammina ancora nei tuoi pensieri. Ci puoi raccontare la nascita di questo libro?

“È una sequenza di poesie, o meglio un poemetto, che ha avuto una gestazione dolorosa e lunga. Era un processo che dovevo attraversare con la scrittura, nell’idea concreta di una poetica della realtà che perseguo da anni e di cui credo sia la vera poesia di cui abbiamo bisogno. Essa ha il ruolo di far sentire le cose, il mondo che ci appartiene, e dare un contributo ulteriore e diverso dalla cronaca che conosciamo, cercando di dare un significato profondo ed emotivamente forte ai fatti della nostra contemporaneità. Il terremoto è stata come la guerra per le generazioni che ci hanno preceduto, il nostro 11 settembre, è stato lo spartiacque tra due epoche recenti e ho ritenuto fosse doveroso non dimenticare quei momenti per riflettere sull’oggi, e la poesia è la risposta di questo processo.”


Scrive Antonio La Penna nel saggio introduttivo: “I numeri dei versi corrispondenti a un jeu de chiffres: le strofe sono 23, perché la data del terremoto è il 23 novembre; ciascuna strofa è di 7 versi e il prologo è di 34, perché il terremoto scoppiò alle 7 e 34; l'introduzione poetica è di II versi, perché novembre è l'undicesimo mese dell'anno”. Ciò accadde in un novembre lontano ma sempre presente nella tua vita.

“In ognuno di noi che ha vissuto quell’esperienza i segni sono evidenti anche se camuffati. Così si nascondono in gesti, in pensieri notturni, custoditi come sono nel nostro animo. Novembre è presente nella vita di questa provincia da quel 23 del 1980. Siamo portati a ricordare gli eventi attraverso le date, ma le date nascondono i fatti, in primo luogo, e soprattutto le sensazioni emotive che abbiamo vissuto e ci appartengono. Ho pensato che ripartire dall’ossessione della data e dall’ora del sisma fosse il modo migliore per fissare le sensazioni, dargli percezione in modo più incisivo.”


Sottolinea il latinista Antonio La Penna: “Il terremoto del 23 novembre 1980, che coinvolse e in buona parte distrusse Campania e Basilicata, ha lasciato molte tracce nella letteratura irpina degli ultimi decenni: fu un'esperienza traumatica incancellabile nella memoria; in certi casi sembra una ferita aperta”. Quanto è ancora aperta questa ferita in te?
“La letteratura celebra anche eventi che lasciano tracce indelebili nella vita di una comunità. Chi scrive, soprattutto poesia, cerca di recuperare quell’emotività perduta, il sentimento contro il sentimentalismo falso che ci è sempre più trasmesso in questi anni. Una ferita aperta può essere l’occasione di ripercorrere e vivere con più coerenza la nostra breve esistenza, dobbiamo farne esperienza, per comprendere la forza emotiva che ci anima e che non dobbiamo perdere, la poesia aiuta anche a questo, a non perdere la nostra capacità di sentire ciò che viviamo.”


Qual è il verso più incisivo della raccolta?
“C’è una parte della raccolta che diventa poesia di denuncia, un termine difficile per il ruolo che ha la poesia, ma spero di essere riuscito a rendere in poesia anche la riflessione sugli errori, le occasioni perdute. Ma sicuramente significativo è un verso della prima “strofa”: «la terra che trema / riempie memoria», è una delle chiavi di lettura di questo lavoro.”


Non c'è modo di custodire il passato senza turbare il presente. Sei d'accordo?
“Sì, in effetti occorre avere il coraggio di rivelare il passato per dare un senso concreto alla nostra memoria, anzi ciò dovrebbe essere un monito per le generazioni future, per conoscere il nostro passato in modo chiaro, senza mistificazioni ed elegie fasulle. Turbare il presente serve ed è importante per non dimenticare i tratti fondamentali della nostra storia contemporanea di cui facilmente siamo portati a dimenticare le lezioni profonde, anche se sono state dolorose.”

Su Novembre di Domenico Cipriano


Transeuropa Edizioni, 2010

recensione di Vincenzo D'Alessio



Ha visto la luce, nella Collana “INAUDITA” dell’editrice Transeuropa di Massa, la raccolta poetica Novembre del poeta irpino Domenico Cipriano. Ventitré “stanze” poetiche, composte da sette versi ognuna (eptastiche), coordinate dall’energia comune: “ispirate dal tragico terremoto del 23 novembre 1980 in Irpinia” (pag. 37).
Così scrive l’Autore nella nota posta a fine raccolta. Un’esperienza vissuta a soli dieci anni. Riportata, oggi, con l’ausilio dei numeri: “Per ricordare diventano ossessivi i numeri. Ecco allora la sequenza di 23 poesie come la data del sisma, tutte composte da “stanze” di 7 versi (poesie eptastiche) e un prologo di 34: l’ora serale che spaccò l’Italia: 7,34. Ciò accadde un novembre lontano ma sempre presente, da cui il titolo e l’introduzione di 11 versi (il numero corrispondente al mese di novembre)” (pag. 37).
Chiarita questa prima parte che sembra cabalistica, la poesia vera di Cipriano riprende il ruolo che ha sempre dichiarato partendo dal suo esordio compositivo:

Sulle mie montagne
c’è il mare.
Lo guardo appoggiando
l’ombra a un palo.
Sempre tempestoso
riflette gli animi
di questa gente.
(da Il continente perso, Fermenti Editrice, 2000)

Ritorna prepotente la radice della terra a farsi elemento del continente che nel Nostro vive ed emerge dalle continue lotte umane. Anche per il terremoto dell’80 i suoi versi sono rastremati, da faber musicale, scheggiando il pentagramma con pause e diesis, tenendo a freno quell’ “ira della notte” che è in noi, poeti incompresi dalla dinamica del potere territoriale: “ti guardo con occhi / diversi parola risorta / ogni notte udendo / la voce degli uomini / senza più voce, lontani / sfuggiti dai luoghi” (pag. 11).
Novembre è la memoria che ritorna e si fa “credo” anche senza vedere. Volontà imprescindibile di bene verso una umanità provata, distrutta, trasfigurata, che però si consola facilmente nei superstiti: “la vera disgrazia è per chi non c’è / per chi ha perso gli affetti nella notte / quando la luna velava la consolazione. / Gli altri si adattano a resistere e continuare / (…) sui racconti prevale / l’invito ad arricchirsi come senso della vita” (pag. 29). Quanto abbiamo pagato questa verità. Quanto abbiamo speso del nostro passato, cancellato dalle ruspe della ricostruzione, senza più riaverlo se non nelle immagini che sbiadiranno. La poesia resterà. Sì, ma per pochi. Il labirinto osceno della politica tenta, in ogni modo, di nascondere le sue colpe: il monito dei morti, di tutti i terremoti accaduti, è la memoria perpetua e la richiesta di Giustizia. I vivi hanno pagato quanto i morti: chi si è opposto alla ricostruzione malfamata, ha pagato con minacce e privazioni, qualcuno ha perso i famigliari che non erano morti con il terremoto.
I poeti sono occhi, come scriveva Alfonso Gatto ne La forza degli occhi (Mondadori, 1967), guidati da quel demone giovanile che li investe di una identità che si rivela “spietata innocenza”. Così fa Cipriano quando descrive sé stesso: “(…) chiedi a me che ho occhi / di bambino e ascolto – non credo / che la terra solo abbia inghiottito tutto / se il sangue a fiotti bagna sopra questi lutti” (pag. 25). Di fronte alla gravità dell’evento, il bambino-adolescente, in cui arde la fiamma della vera poesia, oggi uomo, tenta una ragione alla forza naturale e alla brutalità del genere umano.
Questa è l’anima della raccolta poetica Novembre del Nostro. Ricca di metafore, di assonanze (vedi pag. 12), allitterazioni (pag.15), enjambement (sparsi in tutte le stanze della raccolta), permeata delle radici vere, da Scotellaro a Sinisgalli, riportanti i grumi dell’emigrazione, mai finita, di uomini nelle Americhe, nell’Europa: “(…) delle spalle dolorose dei nuovi genitori / che tornano ad agosto, delle case nuove / e vuote” (pag. 33). La raccolta è carica di tutti i valori della terra del Sud. Tanto articolati nelle parole che anche il nostro dialetto compie la sua parte: “(…) cercavo di costruire già le case / con le graste dure delle tegole  :iniziavo” (pag. 18). La voce vera del “verbo” creare, si manifesta proprio in queste prese di memoria. Dove la “grasta” è il residuo della tegola, ma anche il reperto antico che lega al passato e che viene rimesso nell’impasto delle nuove case per propiziarsi il futuro.
Non credo che questi versi possono avvicinarsi ad una realtà espressionista dove i sentimenti deformano, fino alla più violenta esasperazione, i dati del reale. Invece li sento più vicini ai dati offerti dal critico letterario Luigi Reina: “C’è come una sospensione, un’atmosfera d’attesa neppure controversa nella poesia italiana di fine millennio: scaturisce dalla disillusione seguita agli ideologismi e dalla saturazione degli interessi avanguardistici e sperimentali. E c’è una tensione nuova verso un recupero della storicità dell’esperienza, anche nella sua valenza diacronica” (Lo specchio di Narciso, Fabio Croce Editore, 2002, pag. 167).
Domenico Cipriano, anche di fronte a quest’evento doloroso, legato alla sua migliore età, ha saputo confortare il viaggio transumante dalla civiltà contadina, che anche per il Nostro ha segnato momenti di calore, sostegno morale, purezza nella scrittura, con la caduta verticale e l’affermazione violenta dell’industrializzazione della terra che per noi poeti è: “(è) un fiotto la terra che lotta, sussulta, avviluppa” (pag. 12). La terra è nemica?

Montoro, novembre 2010

su Opera sull’acqua e altre poesie di Erri De Luca

Giulio Einaudi Editore, 2002

recensione di Vincenzo D'Alessio

La raccolta di poesie scritta da Erri De Luca mi è giunta ora. Di questo Autore avevo letto racconti; oggi leggo, con gioia sincera, questi suoi versi. Sono pervenuto alla lettura perché mi ha colpito l’intervista, rilasciata pochi mesi fa a Radio Repubblica (dark room), circa le ricerche compiute dal Nostro sulla lingua ebraica e sulla genesi della grande rivoluzione religiosa che è stata la monoteistica Fede in “Elohìm”. Mi ha commosso lo sforzo laico per giungere, dopo un’esistenza ricca di sacrifici instancabili, pericoli scampati, guerre vissute, alla fonte del Verbo e alla ricerca di Colui che compare nella poesia “L’intruso”, di questa raccolta: Opera sull’acqua.
Mi dispiace ammetterlo, non conosco l’ebraico come lingua, ma ho una Bibbia molto solida, con accanto qualche parola in greco, validamente tradotta dai Testi Antichi. Ho fatto riferimento a questo testo leggendo le poesie del Nostro. Ho sentito, aprendo le pagine, il vento che passava sulle acque: merahèfet. Vento che ritroveremo nel passaggio del Mar Rosso; nell’abbandono definitivo della terra di Egitto; vento che raggiungerà Mosè sul Monte Sinai; vento che turberà la navicella degli apostoli, sul lago verso Cafarnao, e Gesù che cammina sulle acque; vento di Elohìm che toccherà il Cristo morente sul Calvario.
L’Opera di Elohìm ha bisogno dell’acqua primordiale per far nascere la Vita. Proprio come nei termini in cui oggi si è alla ricerca dell’antimateria, quella dell’impatto iniziale, l’energia che il Nostro descrive semplicemente nei versi della poesia L’asciutto (pag.10): “(…) L’ossigeno si sciolse dalla doppia mandata dell’idrogeno / nella nebbia si mischiò all’azoto e si dischiuse / in gas dell’aria, in sostanza di cieli. / (…) E su di essa l’albero / s’abbevera, galleggia, e brucia quanto un uomo.”
Mi risale alla mente un racconto dello stesso De Luca, Tre cavalli (Feltrinelli, 2002), nel quale il protagonista esercita il mestiere di giardiniere, riconosce ogni albero e con loro dialoga. In questo racconto, diviso in più episodi di vita vissuta, compaiono delle analogie profonde con la raccolta che stiamo descrivendo.
L’acqua è l’elemento che compare in tutta la raccolta di cui parliamo. Compare anche nel racconto che abbiamo preso a confronto (Tre cavalli), come eredità di una parte dell’esistenza del protagonista vissuta in America del sud. C’è un passaggio molto bello che possiamo confrontare, con l’introduzione a questa raccolta scritta dall’Autore: “Resto del tutto impari ai cognomi e nomi dei poeti raccolti sotto questa antica copertina bianca.” (pag. 3); “Vedo vecchi poeti ricevere premi per versi scritti in gioventù. Nessuno di loro dice: non sono io” (pag. 30).
La grande orchestra che realizza l’Opera sull’acqua ha vento che sa di ali. Forse di Angeli che reggono Elohìm nella sua grandezza. Vento che in passato ha svegliato “l’infinito fermo” (pag. 9) permettendo la Vita. Acqua arrossata dal sangue innocente dei piccoli ebrei in Egitto (pag. 11) per limitare l’eccesso di fecondità. Acqua che accoglie, oggi,  “(…) lo schiaffo dell’aria / tra lo scoppio e l’arrivo / della granata nel cortile?” (pag. 9) a Sarajevo. Acqua che porta la musica delle sillabe per il Poeta: “(…) Sorda è la scrittura, tocca al musico, / all’incudine d’argento del suo orecchio, / avere la visione. / Senza lucciola di sillaba vede musica al buio” (pag. 9).
La forza del  “Verbo”, contenuta in questa raccolta, è il sapere che pochi uomini hanno: “ (…) questi sanno / che le acque hanno volti” (pag. 8); che poche voci sanno ricambiare in musica di “Arpa, cembalo, piffero” (pag. 9) da trasmettere agli uomini attenti all’ascolto, a quei “pesci che sognano il volo” (pag. 8). Ho ascoltato questa musica universale e ne traggo profondo beneficio perché è sacra: “(…) passerai pure tu , specie di viceré del mondo, / bipede senza ali, spaventato a morte dalla morte / fino a metterle fretta.” (pag. 14). La sacralità della parola è nell’immortalità della comunicazione afferente all’energia che muove il Creato e il silenzio del Creatore. I versi di Erri De Luca lo raccontano in modo straordinario: “Siamo fatti di questo, d’acqua e aria, come le comete, / ma senza ciclo di riapparizione e questo è sufficiente / per sollievo e congedo” (pag. 20).
Tutta la raccolta, nelle sue due parti, ruota sul vortice immenso dell’acqua di un diluvio permanentemente umano: eppure non spaventa, non dilata fosse di dolore. Parlano, i versi, attraverso enjambement della forza creativa. Schiudono, attraverso similitudini, pensieri antichi e recenti. Filosofia ontologica; schermo di una caverna che rigurgita di figure lievi, evanescenti, sempre attuali: “(…) Ho letto queste regole nei libri sacri / e ho avuto desiderio di appartenere a un popolo antico / di buon cuore con la gioventù.” (pag. 26).
C’è una poesia, Valore, che mi piace accostare al Cantico delle Creature di frate Francesco d’Assisi, per l’amore sincero verso le cose animate, viventi, e inanimate; per la consapevole limitatezza della nostra conoscenza; per la ripresa dei valori veri, dimenticati troppo in fretta dalla società di questo nuovo secolo: “(…) provare gratitudine / senza ricordare di che” (pag. 35). Per la richiesta inesaudita, da millenni, da parte della Poesia, e dei poeti: ”(…) Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che / esista un creatore. / Molti di questi valori non ho conosciuto” (pag. 35). Ricerca di un creatore. Valore inestimabile dell’Amore tra esseri umani. Le due grandi forze che alimentano le voci più grandi della Poesia. L’anafora, in questa composizione, incide maggiormente sul lettore perché il verbo scelto, “considerare”,  è l’invocazione a seguire il verso della poesia. Il racconto dell’esistere. L’armonia che governa tutte le cose del Mondo che percepiamo, o immaginiamo.
Questa raccolta di Erri De Luca è il pieno della ricerca di un grande Autore di metà Novecento che si affaccia al secolo nuovo. La sua affermazione, posta all’inizio della raccolta: “È che a cinquant’anni un uomo sente di doversi staccare dalla sua terraferma e andarsene al largo” (pag. 3) trova piena consolazione e ci aiuta nella giusta direzione del vento che crea. Mi piace riprendere un’altra delle sue asciutte definizioni scritte nel racconto Tre cavalli : “Fortuna, ma ci sono fortune che vanno in braccio al primo che incontrano, fortune puttane che piantano subito e vanno col prossimo e invece ci sono fortune sagge che spiano una persona e la collaudano lentamente” (pag. 15).
Di De Luca e dei suoi versi possiamo accordarci sulla “fortuna saggia” che l’ha accompagnato nella sua esistenza da uomo- poeta- vero.
Montoro, novembre, 2010

giovedì 18 novembre 2010

25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne



Io stavo sul divano c’avevo sonno
C’avevo sopra la maglia della tuta
Un po’ sentivo freddo
Con la digestione
Mi riposavo ma
Lui viene dà un calcio al divano mi dice va' su
dice che è stanco che deve stare in piedi sempre
anche per fare la piscia
a casa sua c’ha diritto di essere padrone lui
c’ha diritto del divano la televisione la birra vicino
Dei calzetti che gli stanno sui polpacci
Ma no stretti
Di una moglie zioporco che gli lascia il posto
Che si trucca e gira la sottana
Gli dico guarda i figli di là capiscono
uello grande soprattutto sentono
fai piano amore un po’
Mi dice cosa vuoi tu sei sempre col lamento in bocca
Nella bocca ci devi mettere l’uccello è meglio
Ti strozzi con le ali sbavi la merda
Io stasera mi andava la fettina però
Ti ho fatto il sugo col pesce fresco
Come ti piace a te
sono andata anche in posta
Ma non ti va bene neanche
L’odore del bagno, la carta igienica spessa
Ti calmi un poco non l’ho detto strafottente
Ma lui pensa che sì
glielo dico con la rabbia
che sono io la super
Lui quando si sente di meno di me
lui parte si vede dalle vene nel collo dai pugni
Dal pigiama storto
Non mi far male per favore stasera non lo so se ce la faccio
A coprirmi le labbra a mangiarmi una guancia
Io non lo so magari faccio un urletto mi sente quella di sotto
Ci sentono e chissà chi vanno a chiamare mandano i carabinieri
Dicono signora cosa c’ha nei capelli
Un taglio di bottiglia
il cane che morde
un rametto di salvia
Per favore stasera no che ho acceso il forno
Ho messo i ceci in ammollo
Si gonfiano come i ginocchi le sopracciglia gli orecchi
Metti la mano dove non si trova
Se aspetti ti faccio vedere
Qui in mezzo alle cosce che non ci pensa nessuno
Al cucchiaio di legno
Alle seppioline rotte


martedì 16 novembre 2010

Su La corolla del ricordo di Chiara De Luca

Kolibris Edizioni, 2009, 2010
recensione di Vincenzo D’Alessio

Ho ripreso la lettura delle poesie contenute nella raccolta La corolla del ricordo, nove delle quali, incluse nella raccolta successiva: Animali prima del diluvio (Kolibris,2010), già letta e recensita. Ho faticato non poco a tenere il passo con la voce narrante della poetessa Chiara De Luca, autrice di questa stupenda raccolta: “(…) tutto parla di una poesia dal cuore dei nostri tempi, un’anima in poesia che vuole “ essere / di tutti e non restare”. Le parole sono del poeta irlandese John F. Deane, inserite nel risvolto interno della prima di copertina, a mo’ di introduzione.
Anche i versi, ripresi dalla poetessa Emily Dickinson, e inseriti in questa raccolta come chiave di lettura, ci parlano della bellezza dell’anima The soul her “Not at Home”. Versi asciutti. Germinati come petali di quella corolla esistenziale del fiore che sono i ricordi. Due sfere sensoriali diverse: quella naturale, direi verginale, del fiore e quella sensoriale,indefinibile, della mente. Una sinestesia voluta per raggiungere il lettore lungo il cammino, che ne forma la poetica, teso ripetutamente “ad annusare l’abisso” per scrivere, con la penna “versi sul silenzio” (pag. 7).
La raccolta ha ricordi diversi, colorati, musicali. Provengono dalla memoria collettiva e da quella personale della Nostra, che mima un dialogo, apparente, con un sé indefinito che sovrasta i ricordi e li materializza in forza evocatrice: “Quando tolgono la musica dal mondo / a lungo a me rimane addosso / quel sottrarmi gli occhi per salvarti / il tuo sapore in lieve gestazione / il silenzio ignavo delle tue parole, / che ho portato a spalle per l’Italia / riletto come macchie nel passare / confuso delle case dentro il vetro / stringendomi la sera in fondo al treno” (pag. 18). Volutamente, le cesure poste nelle chiuse dei versi di questa poesia, fanno da contrappunto al dialogo tra l’anima e chi scrive.
I versi “a lungo a me rimane addosso /quel sottrarmi gli occhi per salvarti”; l’enjambement dalla prima alla seconda immagine ci svela il dialogo che fa di questa raccolta, una delle voci limpidissime, del nuovo comporre nel secolo che stiamo vivendo. Il sé che appartiene al mondo e ne vive e rivela le affinità; le sofferte ore di partecipazione esistenziale ai movimenti dell’umano che ci circonda; la lotta impossibile con “i demoni” che albergano in noi e la voglia, sincera, di uscire dal mondo per non essere “bambini sconfitti” dall’ipocrisia dei nostri simili: “Vedi quante palpebre ha sull’autobus la vita” (pag. 19).
La città, dove la poetessa vive, Bologna compare di continuo in questa raccolta: madre; sofferta identità del vissuto; bugiarda (pag. 33) come tutte le apparenze umane: “Bologna / gli sguardi piantati / a sangue su ciò che sei stata” (pag.12) Emerge il ricordo del capoluogo emiliano con i suoi partigiani, le mura delle “Caserme Rosse” dove più feroce vive il ricordo nazista. La stazione con le sue vittime innocenti: “Nuovamente bella nel terrore” (pag. 13). “Danza nuda sotto le due torri, / (…) / un tifo da stadio l’accompagna, / e chissà che marchio porta sulle labbra / come chi ogni giorno sveste ogni pudore / versandosi in poesia per essere / di tutti eppure non restare” (pag. 21). L’enjambement la fa da padrone come a continuare, pensiero che fuga ogni traccia di staticità, la sorte del poeta: essere servo della Poesia, pronto a scomparire da un mondo che l’inchioda al reale.
La raccolta è divisa in due momenti. Due distanze di una medesima spiaggia, lontana dal mare. Dune dove i passi lasciano “ricordi”, che il vento, ritmo di un tempo che ci circonda e domina, cancella irrimediabilmente. La corolla attrae l’insetto per consentire l’impollinazione, la continuità delle specie differenti nella Natura. Allo stesso modo, la metafora del fiore, è rivolta al lettore: viene attratto, fortemente, dai colori e dai suoni che promanano dalla possanza dei ricordi. Non sono ricordi personali. Sono parte di quella recondita attività naturale che è la continuità della specie poetica: “(…) / abitiamo un anno intero la distanza di una sera / vorrei essere di strada ma la strada non è chiara” (pag. 30). Non è stata mai chiara la strada per nessuno di noi, in nessun momento della nostra breve esistenza. La poetessa De Luca lo indica con una metafora indelebile nella medesima poesia: “(…) auto in fila indiana sono stanche di arrancare / aprendosi per terra un varco lucido d’asfalto, / loro sono giovani e spogliate di tormento / insanabile sui viali a tarda notte il gelo” (pag. 30).
La giovinezza stimola il viaggio, distoglie il tormento che giunge nella maturità. Mentre la fine dell’esistenza ci raccoglie in fila indiana, metafora del viaggio verso la montagna presente nella mitografia orientale, riportata come il gelo che a tarda notte colpisce “insanabile” sui viali dove si svolge la vita. In questo motivo esistenziale ritornano alla mente i versi di Cesare Pavese, della raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sono molteplici i profumi che emana la corolla di questa raccolta. Non tutto fonda sul dolore. Non sempre la sofferenza è la penna intinta “nel sangue del silenzio”. Il lettore avverte la dolcezza della parte metafisica della raccolta, quella che manca ai tempi moderni, la scoperta di una energia che ristori il cancro degli uomini: “(…) m’invento la fiducia che coltivo per nessuno / ed è meraviglioso quanto siamo colmi di dolori / grandi di ricordi e di segreti che nemmeno più / sveliamo” (pag. 35). In questi versi la cesura blocca il primo dei contenuti posti alla base della raccolta. I versi che seguono, nella stessa composizione, svelano l’altra metà del percorso della poetica di De Luca: “(…) / perché in fondo è facile sorridere e lasciare / che il mondo giochi pure con le tue controfigure, / mentre tu sei tutta questa storia splendida e crudele / che nessuno ha tempo di abbracciare” (pag. 35).
Nelle parole “meraviglioso”, “splendida e crudele”, sorge il senso vero della poesia e dell’esistenza di noi esseri umani: l’abbraccio. La finalità ultima dell’Amore condiviso, per quella che, testardi, la Poesia ci fa chiamare Vita.
Montoro, novembre, 2010

lunedì 15 novembre 2010

Il libro natalizio dei poeti

ANTONIO SPADARO

Nell'ombra accesa. Breviario poetico di Natale

Milano, Ancora, 2010, pp. 128


Il volume è un'antologia di 50 poesie che dimostrano un accesso profondo agli abissi del cuore inquieto di ciascuno di noi. Leggendole si comprende come esse descrivano posizioni differenti, stadi diversi di cammino: dal buio alla visione, attraverso la ricerca umana e l’annunciazione che giunge dall’esterno. Ogni poesia è accompagnata da un commento che aiuta a toccarne il midollo.

Le poesie scelte non sono preghiere. In realtà non sono neanche, per la maggior parte almeno, «religiose» in maniera formale. Gli autori vanno da Brodskij a Kerouac, da Cummings a Jodorowskij, da Kavafis a Walt Whitmans, da Pavese  a Kikuo Takano,...  Il punto di vista di questa raccolta è infatti quello di individuare le corde profonde che l’animo umano tocca quando non gli basta più la superficialità ordinaria, la narcosi di una vita che si trascina come un automatismo. E questa condizione di insoddisfazione ed inquietudine è di molti uomini (forse di tutti, in fondo), credenti o non credenti.

Il tempo d’Avvento, in fondo, celebra proprio questo itinerario umano che precede la venuta dell’«Atteso dalle genti» e che è ricchissimo di chiaroscuri ma anche di annunci.

Il lettore è chiamato ad accogliere i versi come se gli arrivassero chiusi in una bottiglia che arriva sulla spiaggia dal vasto oceano. È stato indicato l’autore e l’opera dalla quale il testo è stato tratto, ma non c’è alcuna nota ulteriore. La raccolta non ha un valore «critico» ma spirituale e questo richiede un contatto fisico immediato col testo, senza altre introduzioni di spazio, tempo, stile, poetica: a «pelle». I commenti sono molto brevi e vogliono essere una guida (non obbligatoria) alla lettura. Come si capirà subito neanche nel commento si trovano note critiche: solamente lo sviluppo brevissimo di qualche dettaglio utile per l’approfondimento e la meditazione.

La raccolta costituisce un percorso e suggerisce un itinerario che ha un inizio e una fine: sono le poesie che in me hanno sviluppato un percorso, e che spero sia per il lettore una sorta di imprevedibile «esercizio spirituale».
 

Antonio SPADARO, Nell'ombra accesa. Breviario poetico di Natale <http://www.bol.it/libri/Nell-ombra-accesa.-Breviario/na/ea978885140810/>
Milano, Ancora, 2010, pp. 128 <http://www.bol.it/libri/Nell-ombra-accesa.-Breviario/na/ea978885140810/>


Antonio Spadaro S.I.
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giovedì 11 novembre 2010

Cogo e Bortoli a Carpané (VI) 12 nov

Premio Cantone sc. 31-1-11

Su Il pudore dei gelsomini di Adele Desideri


Raffaelli Editore, pp. 76, € 10

recensione di Paolo Ruffilli (RadioRAI, Venezia, 24 settembre 2010)

La chiave di lettura della poesia di Adele Desideri è il filo onirico: quel tanto di inventività fantastica, di visionarietà che interviene sempre ad animare le situazioni facendole levitare e caratterizzando in aerea leggerezza le presenze di persone e di paesaggi per virtù dell’autrice nel suo stesso farsi leggera. I luoghi sono prima sognati o intravisti nella visione che effettivamente documentabili, anche se reali. E questo vale anche per le presenze umane, rese diafane e lattiginose da uno schermo che, mentre le vela, nella loro improvvisa luminosità anche le rivela; in particolare, per forza e suggestione, il padre. Del resto tutto vive nella raccolta Il pudore dei gelsomini in una intermittenza dominata da una direttrice intellettuale: la voce della morte, che non è qui tanto un’ossessione quanto invece una misura di consapevolezza, nel rapporto e nel colloquio costante con le ombre dentro l’alone di una musica particolarissima. La presenza dei morti è una costante, ma la meditazione sulla morte ha una sua attuazione altrettanto particolare: è sostanza stessa della visione, dell’invenzione fantastica che rappresenta il mistero, anche nella consapevolezza dei suoi aspetti più crudi e disincantati. Fa quasi da cerchio entro i cui limiti il poeta raccoglie e rappresenta, proprio allo specchio di quella realtà finale, il suo giudizio sulla vita e sul mondo. Quale enigma più grande del male che strazia l’uomo? Eppure ecco che arriva a trascinare in alto le situazioni quel filo onirico di cui abbiamo parlato con le sue immagini visionarie. Il giudizio è l’anima stessa della poesia, ma non in senso prettamente o propriamente etico, meno che mai moralistico, quanto piuttosto come cifra melodica: quella musicalità (e, magari, “musica nera”) che è la scansione lieve dei versi, capace di prendere una coloritura più elegiaca nella vena più esistenziale che si manifesta per intermittenze tra salti visionari e ritorni di coscienza nella memoria. È il canto di un viandante che riconosce il suo viaggio attraverso la vita e, viaggiando, accetta di misurarsi con gli errori di percorso e con gli intoppi del caso, magari nell’improvviso smarrimento. E che, tuttavia, riapproda poi all’apertura improvvisa, favorita dal ritorno chiaro e netto della consapevolezza.



mercoledì 10 novembre 2010

Su ANIMALI PRIMA DEL DILUVIO di Chiara De Luca (Edizioni Kolibris, 2010) - Recensione di Federica Volpe



PARTE I

I GRANI DEL BUIO (2006/2007)



La prima parte, tratta da I grani del buio, è composta di ventisette poesie che sembrano realizzare uno sviluppo ascendente. In questa la poesia di Chiara De Luca è associabile ad un bruco oscuro che si rinchiude in una crisalide di pensiero per evadervi, negli ultimi componimenti, come farfalla che non è dotata di luce, o meglio la cui luce si sposa all’oscurità iniziale ed intrinseca dei versi, in una sintesi perfetta di chiaroscuri.

Infatti la scalata della poetessa verso qualcosa di positivo (ma che non manca del suo opposto) parte nella tenebra quasi totale.

Il primo verso, emblematico, dice: “E’ un campo ferito la storia di ciascuno”. Ed è proprio da quel campo ferito che la De Luca sembra alzarsi a fatica, muoversi strisciando, zoppicando, senza poter evitare di incurvarsi su se stessa e su quella stessa storia che le provoca dolore ma che, al contempo, la rende pienamente se stessa.

Il dolore provato dalla poetessa in questo percorso di redenzione che lei stessa sa di non potere che essere parziale si manifesta in modo fisico nei versi di questa raccolta, non solo nella fisicità della poesia stessa (cesure, enjambement, frasi sapientemente rese sconnesse o complesse) ma anche nelle scelte semantiche, che vanno a designare le immagini corporee come le predilette.

“La mano me la strappi di mano”, “I grani del buio sono mille / occhi chiusi…”, “Snocciolo / come un rosario le nocche”, “riapriamo nella carne cicatrici per leccare” sono tutti esempi di questo vivere il dolore e la poesia sulla pelle, nella carne, una carne che diventa, in una lirica, carta disegnata dal sole (Ho pelle di carta lo vedi / anche il sole malato / ci ha fatto disegni / concentrici anelli spezzati).

Ed è proprio il sole, la luce, che appaiono dapprima timidi e sporadici, fino a diventare trionfali e preponderanti negli ultimi componimenti.

“In alto si schianta il corpo di un lampione / profilo nel nada la testa luminosa”, si legge in una lirica iniziale, in contrapposizione ad un’apertura maggiore in una poesia che potremmo dire di posizione di coda “Ho spiato scendere la luce / tra le fitte tegole nascondere / la vergogna, …”.

C’è, in questa seconda fase, un freno che blocca l’aprirsi di Chiara De Luca alla vita, che rimane dunque un’apertura incompleta, parziale, ma pur sempre un’apertura.

“Adesso sono io a chiedere /d’essere salvata”, afferma una coppia di versi che fanno da chiusa ad un componimento appartenente a questa parte.

Non a caso, infatti, l’ultima poesia parla di una Bologna piena di bellezza, e il primo verso si riferisce proprio alla luce: “Vedi com’è chiara questa luce di settembre”.

Lo stesso scalare lo si vede nel comparire dell’inverno che all’inizio inghiotte i componimenti e che li libera man mano del suo ghiaccio nell’andare.

La figura che la poetessa usa spesso è quella del fiore, del germogliare, per raccontare la sua voglia di evadere da se stessa (“nell’immaginazione del bambini, / quando si spuntava come fiori”; “Sterili canne sono adesso le parole, / si sporgono dal fango ritentando / di risalire in gola a germogliare”) non nascondendo in questo qualche paura (“Un fiore stringe, incapace a risalire”).

Nonostante i tira e molla che la De Luca si ritrova a fare tra apertura e chiusura nelle maglie del suo pensiero, conclude questa raccolta dal titolo greve e tetro con questo verso: “Sembra quasi possibile ogni cosa al suo finire”.

Quale risposta migliore della non risposta? Quale emblema più significativo? Tra il buio iniziale e la luce che scava un varco che si apre sul finale, la De Luca non prende decisioni: accetta su di sé, sulla sua pelle abitata dal dolore, sia l’uno che l’altra, regalandoci con questo verso semiaperto (anche il verso è lasciato aperto dall’assenza del punto) l’essenza stessa della vita, sconosciuta a lei quanto a noi, ma da lei sfiorata.

Uscita dalla crisalide, la poetessa sa di essere farfalla ugualmente chiara e scura, legata alla sua storia che la fascia di ferite, destinata a non durare che qualche breve tempo ancora.

Ma la sua poesia ne copia, figlia vigile, le movenze silenziose, regalandola all’eternità della carta (“Stiro le membra strappando / pagine, e trucioli scrivono / dal principio in silenzio la storia”). 



PARTE II

CONFINANDO L’INVERNO (2007/2008)



Questa seconda sezione della raccolta Animali prima del diluvio, intitolata Confinando l’inverno, rappresenta, apparentemente, un periodo di apertura.

Mentre la sezione precedente vedeva un movimento ascendente (dal negativo al positivo), questa seconda parte è caratterizzata, invece, da un movimento circolare e concentrico.

Vi è, infatti, un vero e proprio continuo alternarsi di chiusure nel buio e di aperture alla luce, ma anche l’apertura è motivo di dolore, dunque una specie di apertura che finisce inesorabilmente con lo spaccarsi e ricadere nel buio.

Questo tendere della poetessa verso l’altro, verso ciò che sta fuori di lei, è indicato dalle non poche dediche che sono disseminate all’inizio delle liriche. In ogni caso, ogni volto raccontato parzialmente da quei nomi, rappresenta uno squarcio, una ferita aperta, un quadro dolorante.

“Ma ben oltre me ti sei spinta / sul solitario sentiero intrapreso / dove a un punto mi sono destata / e scalza ho gridato nel buio / non tagliare la linea finale”, si legge a conclusione della poesia dedicata Ad Ale. O ancora, la chiusa della poesia dedicata Ad Ale e Moni: “E’ solo chi il buio l’ha sceso / a vedere dove viene l’amore / come un fuoco dentro distante / in sentieri che non hanno riparo”.

Vi è poi una figura nascosta nell’ombra, un viso che ha la forma dell’amore, ma a cui Chiara De Luca non dà un volto, ma a cui lascia la possibilità di aleggiare tra i suoi versi come un fantasma che forse vorrebbe sconfiggere, ma che ancora la fa soffrire e le incatena le viscere alla croce nera del passato.

“Secoli alla sbarra ci scagioneranno / mostrando che l’amore lo uccidemmo / per legittima difesa, di parole.”, dice uno splendido trio di versi, raccontando quanto l’amore non sia che una condanna da scontare, da estinguere, da uccidere.

“Un fiume ha evaporato forte nell’incendio / tutto il sangue ardente dell’amore”, dicono altri due versi che concludono la lirica e che vogliono creare distacco tra la poetessa e l’uomo amato, che in ogni caso rimane presente, a testimoniare un vissuto sanguigno.

In ogni caso, a conferma del movimento circolare, non mancano i momenti in cui la poesia della De Luca torna a richiudersi su se stessa, sulla riflessione che potremmo definire totalmente personale, i momenti in cui, stanca delle ferite inflitte nella sua carne dagli altri (“Si finge di credere per solitudine / a quelli che per brevità di ogni giorno / vestono il nome svenduto di amici”), Chiara va a rifugiarsi oltre gli altri, oltre la carne, nel suo cuore più profondo che è fatto di carta, penna e parole.

Troviamo così momenti di profondissima riflessione, cha danno origine a versi pregni di significato e al contempo (come è solito nello scrivere di Chiara De Luca) complessi e ripiegati su se stessi a protezione di quel senso pieno che contengono “Ogni giorno è fiume a non sfociare nella notte / ogni notte lago a incresparsi al disincanto”, “Nessuno immaginava che la fine / stesse inscritta nel fallito inizio, / che la somma della negazione / basti a disamorare l’amore.”, “Le parole ci cullano ciechi perché / strappo è il moto di ogni pensiero / che schiude sugli occhi la sera”, sono tutti esempi preziosissimi (per quanto concerne sia il contenuto sia la forma) di questo reimmergersi in sé, nella propria piccola vita sfuggendo alla grossa vita del mondo che, immensa balena, nuota alle spalle in cerca, cacciando.

Il tema della luce, come quello del buio, come già accennato, pervadono anche questa sezione (come più genericamente la poesia di Chiara De Luca).

Si ritrovano così aperture e chiusure di questo tipo, strettamente legate al concetto di luce e buio:

“La sera desolata si sloga / l’ampia ossatura di raggi / riavvolti in fasce pesanti / srotolate dall’ombra”. Quest’ultimo è anche un esempio in cui luce ed ombra si incontrano e fondono nella poesia della poetessa, a testimonianza del fatto che non sono concetti che vengono concepiti come separati nella mente chiaroscurale della De Luca.

Altro campo semantico che si ripete (qui come in genere) e quello vegetale. Non è raro che la donna si paragoni ad una foglia, ad un fiore, parli di radici, di rami per descrivere stati d’animo o concetti (“Bocche enormi schiuse volteggiano / soffiano tra petali morbidi di buio / il polline del sogno tra le pieghe del silenzio”; “Non ha tracciato sole il profilo ai crisantemi”).

Due temi attigui quanto nuovi arrivano a pervadere i versi di Confinando l’inverno: il fuoco e il fumo. Il fuoco simboleggia crescita, quanto distruzione. Il fumo, che in genere accompagna il fuoco, impedisce la vista, immobilizza, priva di respiro, di vita.

Essi, dunque, sono indice di quello stesso moto circolare che sembra non dare tregua, imprigionare, fermare, annichilire, Confinando l’inverno.



PARTE III

LA COROLLA DEL RICORDO (2008/2009)


Questa sezione ripropone nove componimenti dalla bellissima raccolta edita precedentemente da Chiara De Luca.

Per rispetto alla raccolta e per solleticare il lettore e spingerlo verso la lettura di questo testo, ripropongo la mia recensione fatta alla raccolta per intero qualche mese fa.



La corolla del ricordo è un testo imperdibile.

Contiene in sé un’umanità senza fondo, un’umanità che fora e sfiora il disumano (o meglio il sovrumano) poiché rintanata tra le pieghe raffinate d’una poesia pura, ricca, che mai scende a compromessi con la banalità e la pochezza di cui il mondo vive e s’intossica così facilmente.

E questa umanità immensa, questa poesia titanica, hanno un volto, e un nome: Chiara De Luca.

L’opera, divisa in due sezioni, si apre con tre versi che hanno tutto il sapore dell’eterno, tutta la consistenza eterea d’una poesia profonda e ben studiata:



Ancora vengo ad annusare l’abisso,

riaprirmi le vene per immergere

la penna e sanguinare versi sul silenzio



Si potrebbe dire, osando un po’, che in questi tre versi sta racchiusa una parte della poetica della poetessa, composta di tre elementi.

Uno è l’abisso, il vortice assurdo dell’ignoto, dello sconosciuto, dell’oscuro, che viene annusato, con una confidenza quasi amicale, ed è la fonte primaria e primigenia della poesia stessa.

La seconda componente, che è rappresentata dal secondo e da parte del terzo verso, è, invece, il dolore. Esso è appunto inchiostro necessario senza il quale non sarebbe possibile compiere il parto di quell’abisso annusato, ed è un dolore sentito così profondamente necessario da divenire quasi volontario (“riaprirmi le vene”, la cruenta azione è svolta dall’io narrante, che fa uscire da sé quell’abisso, quel dolore, visto dalla poetessa come il suo stesso sangue, una parte di lei, che le appartiene e che viene donato al foglio).

Il terzo elemento, infine, è rappresentato dal silenzio. Esso è altra componente fondante e fondamentale della poesia della De Luca, senza il quale la poetessa non potrebbe scrivere: lo descrive come foglio sul quale la poesia va a giacere. Il silenzio le consente la rielaborazione, la solitudine necessaria al conoscersi e al conoscere, la ricerca del coraggio che serve raccogliere per il parto.



I temi dell’opera poetica vera e propria sono vari ma ripetuti, cadenzati in modo ciclico come danza imposta all’animo della poetessa scolpito dal tempo e dalle ferite che esso le ha inferto.

Vi è un continuo ritorno di un passato che la ossessiona, che non vuole staccarsi dalla pelle, che non vuole smettere di essere suo, di torturarla, di tirarle le braccia per farla voltare indietro (“gli sguardi piantati / a sangue su ciò che sei stata”); (“Si riapre la corolla del ricordo”).

Vi è un continuo pensare alle parole, e alla loro inutilità, alla loro pochezza, ai rapporti falsi che si vanno creando tra persone non disposte al donarsi, al condividersi, troppo impaurite e incapaci, che si schermano dietro i falsi sorrisi (“Nessuno nell’aria del mattino – nell’uscire / presto lo spavento della notte – placa il sorriso/ bugiardo”) e dietro alle tastiere dei PC (“…e il vuoto / dei ti voglio bene da tastiera / e immensa stima…”).

Vi è un continuo rimando alla natura, una natura spesso empatica, una natura che strozza, crolla addosso, costringe, (“guarda come impercettibile / precipita l’intonaco del cielo”); (“Vento porta disperato il canto / di un bimbo che si culla nella pelle”).

Vi è un continuo rimando alla città, Bologna, alle sue stazioni (“Nostalgia di treni e di stazioni /di chi si siede e senza domandare / inizia a raccontarti la sua storia”), al rapporto complicato che vige tra la poetessa e la città stessa (“bugiarda sempre Bologna si risveglia”), alle persone che la calpestano e l’attraversano (“Vedi quante palpebre ha sull’autobus la vita”).

Vi è un continuo buio, un’atmosfera tetra, ferita, disperata, sublimata e illuminata, però, dalla poesia, che diventa così una poesia fatta di luci ed ombre, fortissima, grandissima, profondissima.

Ho spesso definito la poesia di Chiara De Luca “luce lugubre”, poiché rende bene questo suo essere buio che esplode di luce, e questo suo far spiccare il fiore luminoso dell’arte solo dopo più letture, solo dopo aver ricomposto i lembi d’una poesia sofferente, ansimante, spezzata, solo dopo aver colto il momento fulmineo in cui il boccio s’apre e sparge in tutto l’essere del lettore il suo agrodolce profumo.

Chiara De Luca implora ed impone pazienza, passione, silenzio.

Solo allora la poetessa sa donarsi, aprirsi, far riaprire La corolla del ricordo.



PARTE IV

DEL VENTO LA PREGHIERA (2009/2010)



Chiara De Luca, in genere, non dà titoli alle sue poesie, non lascia legami (se non quelli emozionali, sublimati e raffinati fino all’inverosimile).

In questa raccolta, intitolata Del vento la preghiera, invece, non solo troviamo due componimenti che portano un titolo, ma anche due poesie che portano, sdraiata ai loro piedi, la data in cui esse sono state partorite.

Si intuisce, dunque, quanto importante sia stato questo periodo, questa raccolta, per Chiara De Luca autrice e (inevitabilmente come indissolubilmente) per Chiara De Luca donna.

Il chiaroscuro deluchiano non smette di disseminare i suoi semi, che fanno sbocciare riflessioni infiorate di luci ed ombre anche in questa raccolta (come ad esempio “Un anno ha fatto il buio da confine al buio / ha chiuso la sembianza di parole in ombre / occultato oscuri spigoli in vastità di attese / di una luce relegata nell’eterno suo a venire”).

Non mancano nemmeno i continui riferimenti al mondo vegetale che la poetessa ama accostare a sé, al suo sentire, al suo vivere, come se la vegetazione, che vive di silenzio e solitudini, fosse l’unica forma di vita capace di capirla, di trovare il tempo e la sensibilità di osservarla. Lei stessa, accostandosi al mondo delle piante in più punti della sua vasta produzione, si attribuisce segretamente quelle caratteristiche, quel ruolo periferico eppure così delicato, così puro (“Hanno occhi piccoli le foglie aperte”).

Ma, nonostante queste costanti, la poesia della De Luca è, in questo lavoro, visibilmente e irremovibilmente mutato.

In primo luogo, nella forma. La poetessa continua ad essere riavvolta su se stessa, continua a proteggere il senso dei suoi versi dietro ad una complessa concatenazione di parole e versi.

Eppure quel gioco difensivo sembra essere parzialmente crollato, sembra avere parzialmente ceduto alle pressioni esterne come a quelle interne che le impongono continue aperture e chiusure, facendole suonare, nelle raccolte precedenti, il suo poetare come una fisarmonica.

In Del vento la preghiera lo stile si lascia rendere più blando, meno serrato e chiuso, più disponibile all’apertura, all’altro.

E’ un’apertura non solo nella carta, ma anche nella carne: essa non è frutto di una pace stipulata con il resto del mondo che le consente di essere più disponibile, ma piuttosto un varco immenso che Chiara si è procurata nella guerra della vita (e alla vita), e che sente di dover ripulire, di dover far spurgare più per se stessa che per gli altri (anche se poi questo aprirsi diviene dono immenso per il lettore, che non può che provare riconoscenza per un tale testo).

La maggiore semplicità (che non elimina, in ogni caso, la profonda richiesta di attenzione fatta dalla poetessa al lettore) è, dunque, un’esigenza tutta personale, di capirsi, di capire e, solo di conseguenza, di farsi capire.

Altro cambiamento sta nella lunghezza dei componimenti. Molti di essi, infatti, vengono percepiti come smagriti agli occhi di un lettore non ignaro della poesia precedentemente prodotta da Chiara De Luca, ridotti fino a quattro o cinque versi.

Il numero risicato di parole indica il profondo bisogno dell’autrice di concentrarsi sull’essenziale, che non è null’altro che l’essenza. La riflessione della De Luca, sempre profondissima, riesce così a toccare il suo apice, a raggiungere e afferrare il filo rosso che connette il tessuto di tutte le cose e di regalare al lettore una poesia elegante, agile eppure complessa, diligentemente pensata, plasmata, studiata in ogni dettaglio.

Le poesie di cui prima ho trattato (quelle titolate), considerate tappe fondamentali di poesia e di vita dalla stessa poetessa, rivelano il tema sotterraneo della raccolta, che striscia come serpe che la tenta –Eva in un Eden di inesplorata poesia- a guardare il pomo che pende da un albero che c’è, piantato nel terreno del suo vissuto, ma che lei finge di non vedere, che lei finge di allontanare, di rifuggire, di non desiderare.

La mela che pende eterea è l’amore, il serpente è quel volto incorporeo di uomo amato che Chiara tenta (forse invano) di superare, di schiacciare sotto il tallone.

In ogni caso quel pomo può essere anche visto come desiderio generico d’amore che trascende da quello vigente tra uomo e donna, semplice bisogno di quell’altro che la poetessa avvicina e al contempo allontana per riavvicinare nuovamente.

Potrebbe dunque essere l’incontro con l’altro, mai vero, mai pago, eppure così segretamente voluto, quasi silenziosamente preteso, la preghiera bisbigliata dal vento di Del vento la preghiera.



PARTE V

ANIMALI PRIMA DEL DILUVIO (2006/2010)



L’opera di Chiara De Luca, Animali prima del diluvio, è composta da quattro sezioni, le quali vanno a raccontare gli ultimi anni della poetessa.

Le varie sezioni sono: I grani del buio, nella quale Chiara sembra emergere piano piano, con un movimento ascendete, dal buio che la attanaglia, non riuscendo, però, a donarsi intera alla luce, ma solo a fare una sintesi di oscurità e luminosità; Confinando l’inverno, in cui traspare ancora una volta il chiaroscuro, che però ha un movimento circolare, di continue aperture e chiusure, un movimento che relega e intrappola; La corolla del ricordo, sezione piuttosto ristretta che sta a rappresentare una raccolta edita precedentemente da Chiara De Luca; Del vento la preghiera, che rappresenta una fase fondamentale della poesia (e della vita) della poetessa, tanto da mostrare una variazione di stile, una maggiore (anche se mai totale) chiarezza che prende vita a causa dell’immenso dolore da rielaborare, digerire, vomitare.

Animali prima del diluvio dà l’impressione di essere un mosaico perfetto: si può decidere di ammirare i colori e le forme di ogni singolo speciale tassello, oppure di guardare questa splendida intonatissima voce poetica per intero, assaporandone la complessità che caratterizza questo complesso.

L’opera è, di per sé, completa, in quanto traccia un disegno dalle linee chiare e precise per quanto riguarda il percorso deluchiano. In essa vi sono tutte le tappe cronologiche e storiche di un vissuto stropicciato e strappato dalle mani prepotenti della vita.

In ogni caso, però, questo percorso è un resoconto di viaggio, un insieme di fotografie selezionate, nel quale non sono, però, presenti tutte le immagini impresse nel rullino.

Il testo, infatti, è un insieme di selezioni di raccolte, e non un insieme di raccolte.

Ciò dice di quanto Chiara De Luca vorrebbe sapersi mostrare intera, e ci tenta con Animali prima del diluvio.

Ma essa è in lembi e piena di ferite, fasciata di dolore, incapace di darsi davvero, o meglio di darsi esattamente come vorrebbe.

L’opera intera, così come le varie sezioni, ci parlano un po’ di noi, con i nostri limiti, con le nostre incapacità, con le nostre aspettative auto deluse.

Ma ci parla anche di luce, di vita, di speranza, ci parla anche di quel periodo atavico e magnifico di quando sapevamo essere Animali prima del diluvio, ormai compromesso, lontano, perso per sempre se non nel ricordo.