sabato 22 gennaio 2011

Su Le lumache mediocri di Gaetano Giuseppe Magro

LietoColle 2010

Questo è uno dei libri più belli che ho letto ultimamente. Magro, già “incontrato” nella silloge Il glomerulo di sale (fra le opere vincitrici del concorso Pubblica con noi 2010) ha uno stile sobrio, salace e riconoscibile in grado si scalzare con efficacia chirurgica frusti stilemi, luoghi comuni, autoreferenzialismi asfittici che non raramente ricorrono in tanta poesia/vita contemporanea. Il suo sguardo è scettico ma non indifferente, la carica emotiva è trasmessa con immagini splendide e stimolanti, c'è una intelligenza delle cose, degli accadimenti, dei sentimenti che ci toglie dal torpore in cui questo nostro stanco Occidente tenzialmente adagiato e narcisista sembra indulgere. L'Autore si sente come l'Albatro di Baudlaire “forse esiliato per incomprensione d'ali” (p. 69) eppure dice anche “Mi moltiplico d'ontogenesi” (p. 68). C'è una tensione direi spirituale, nell'approccio “scientifico” del Nostro alla realtà: una domanda di un senso ulteriore che le parole cercano di attingere, finanche di provocare. A volte c'è forse qualche verso di tono intimo/familiare, descrittivo/diaristico o scientistico che potrebbe essere asciugato ma il libro è assoluto, compatto, resiliente, ben tornito.
Mi sono rimasti in particolare impressi i versi in cui le grandi questioni sono riassunte in quadri pulsanti e magmatici pur sotto una pellicola “oggettiva” e a tratti analiticamente russelliana eppure altre volte vitalistica come la natura francescana evocata nei versi di Agostino Venanzio Reali (come ad esempio in «Stupisce la divertita smorfia / della felicità rossa dei coralli», p. 42): «Sono una lumaca senza Dio / che lascia indizi falsi sul foglio / (…) / La poesia è l'occhio attraverso/ cui le cose guardano gli uomini / (…) / e la nostra vita è soltanto una smania di nomi» (p. 15); «La parola è neve / che muore ai piedi degli dèi» (p. 17); «le intercapedini strusciano / e le cose si toccano appena / ma non ce la fanno a sapere» (p. 19); «per ora a me basta il passo incerto  / di queste cieche salamandre / e l'ombra che lasciano / senza sapere di lasciarla» (p. 20); «Appendo alla croce una spina di pesce / è la mia resa a comprendere, / nella parola c'è un angolo morto» (p. 25); «Il cuore è la donna / che ciascun uomo / non sa di portare dentro» (p. 27); «Hanno occhi grandi le piccole cose / guardano di spalle / sanno il tuo segreto» (p. 31); «e le pietre muoiono, a parte, dagli uomini / formando tombe e santuari / per piccoli fossili, da lì passati per caso» (p. 38 e qui come in altri casi il tono assertivo segnala la sospensione di una domanda aperta la cui risposta è mistero o rivelazione); «Anche il vuoto del mio bicchiere / capovolto non vuole morire / perché ogni cosa priva di nome / è ogni cosa» (p. 41); «Si scrive la storia degli uomini / mai la storia delle ombre, / la loro scaltra sopravvivenza / al netto degli oggetti» (immagine davvero fantastica perchè in queste ombre ci vedo l'orma del divino, in una prospettiva teilhardiana, anche se penso che l'Autore non voglia volutamente pronunciarsi in proposito); «Le cose esistono perché si ripetono» (p. 49); «le cellule impazziscono d'amore / se le tagli nel punto giusto» (p. 53); «Irrimediabile la carne si confonde con altra carne, / (…) / io ti chiedo a che serve la vita e la morte? / tu rispondi prontamente: “a fare la storia”» (p. 61).
Una raccolta da assoparare, vibrante come un trattato filosofico in versi di mente, di corpo (e di spirito). (AR)

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