lunedì 9 maggio 2011

Psicoanalisi e Poesia

di Claudio Roncarati


Gianmario Lucini (in primo piano) e Claudio Roncarati
Il rapporto tra la parola in poesia e la parola in psicoanalisi è un tema complesso, difficile, ma molto interessante.
Scrive Gianmario Lucini: “La psichiatria  (ed io aggiungo anche e soprattutto la psicoterapia) cerca un linguaggio che guarisca, la poesia cerca il linguaggio che trasfigura, decostruisce e ricostruisce il mondo.”
Nell’ambito della psicoterapia la psicoanalisi grazie alla sua specifica attenzione al mondo interno del paziente che si dispiega nella relazione terapeutica tramite le vicissitudini del transfert e del contro-transfert, condivide con la poesia la possibilità di operare una decostruzione e ricostruzione che è affettiva prima ancora che cognitiva, capace di arrivare ad un nuovo incontro tra realtà esterna e mondo interno (rappresentato da pulsioni, affetti, fantasie, desideri, sogni, relazioni interiorizzate, conflitti e quant’altro).
Per molti pazienti la guarigione non richiede il ricorso a parole tecniche che rivelano significati e verità nascoste in quanto inconsce, ma richiede invece il ricorso a parole in grado di riattivare la possibilità di condurre una esistenza più piena, libera, creativa.
Molti pazienti non sono in grado di essere creativi senza correre il rischio di delirare.
Molti non riescono ad immettere creatività nel loro rapporto con il reale che risulta così opprimente e devitalizzato.
Il rimando concettuale è, innanzitutto, all’ “area transizionale” descritta da Winnicot come l’area del gioco dove soggettivo ed oggettivo si incontrano consentendo la creatività.
Scrive Winnicot che la creatività “è una sorta di colorazione dell’intero atteggiamento verso la realtà esterna”.
“La creatività consiste nel mantenere, nel corso della vita, qualcosa che appartiene all’esperienza infantile: la capacità di creare il mondo”.

Un esempio clinico tra i tanti possibili dell’importanza dell’area transizionale per riuscire ad immettere la propria soggettività nel mondo, ricrearlo senza però perdere il rapporto con la realtà condivisa, insomma senza delirare, lo fornisce una mia paziente: L.
Il primo incontro con L è iniziato in modo drammatico e ha comportato un ricovero obbligatorio in psichiatria.
Quando l’ho conosciuta L era in avanzato stato di gravidanza, allontanatasi da casa vagava per la città. Delirava, negava che il padre del bambino che portava in grembo avesse avuto qualsiasi ruolo nel concepimento.
Quell’uomo l’aveva delusa, non poteva essere lui il genitore di suo figlio.
L’aveva lasciato ed ora affermava che il concepimento era il frutto della sua unione con una persona speciale individuata in un cantautore famoso, ma a volte questa persona diveniva una sorta di entità immateriale come lo Spirito Santo.
Ora L sta molto meglio, dipinge e scrive poesie: grazie all’arte riesce a separare e mettere in contatto il mondo interno degli affetti e dei desideri con la realtà esterna e condivisa.
Nella sua vita c’è ancora la presenza sempre più immaginaria e sempre meno delirante di un compagno ideale, a volte ne avverte la presenza, in passato ne sentiva anche la voce, riesce sempre più a collocarla nel mondo della fantasia come avviene quando lo descrive con struggenti parole d’amore in una poesia che conclude così: “Tutti mi dicono che non esisti – tu esisti nel mio desiderio”.
Con la poesia L ha accesso all’area transazionale, per dirla con Winnicot può dare la propria coloritura al reale, mantenendo però un rapporto con esso.
All’opposto di chi come L delira ci sono quei pazienti iper-oggettivi descritti da Winnicot come ”Falsi Sé” che con il reale possono solo avere un rapporto imitativo, per cui la vita è un susseguirsi di accadimenti senza risonanza interiore, vivono nella oggettività e il loro raccontarsi è solo cronaca di fatti.

L’opera di Winnicot ha influenzato molti autori a lui successivi, tra questi Russel Meares, che in Intimità ed alienazione scrive:
“Durante il gioco simbolico il bambino prende le cose del mondo che non sono le sue e le trasforma … la foglia in una barca, il bastone in un uomo, la pietra in un mostro”; “Nel gioco dunque gli oggetti alieni del mondo vengono trasformati in cose che vengono avvertite come mie. Sono permeate … di una specie di calore e di intimità.”
“Il gioco simbolico, il linguaggio particolare e la forma del gioco del bambino sono espressioni di una particolare forma di attività mentale che trasforma sia gli oggetti sia le parole del mondo esterno nei pensieri e nelle parole del mondo interiore e personale”.
È partendo da queste constatazione che Meares indica la necessità per il terapeuta di: “creare un’atmosfera di connessione con un’altra persona che permetta al gioco simbolico di venire alla luce e che è necessaria per la nascita di una vita interiore e per giungere alla sensazione di essere vivi. È questo, dunque il primo compito di un terapeuta.”

Come poeta quando scrivo sperimento il piacere di abitare l’area transizionale, il piacere del gioco simbolico che mi consente di personalizzare il mio rapporto con il mondo immettendo in esso la mia soggettività. È una possibilità inusuale quella che dona la poesia in questi tempi concreti dove efficacia, efficienza, “evidence based” sono valori assoluti.
Quando un poeta nomina un oggetto, quell’oggetto lo rappresenta, diviene importante e significativo acquista vitalità anche se si tratta di una cosa morta, si pensi ad esempio agli “ossi di seppia” di Montale.

Come terapeuta il rapporto tra la parola della poesia e le parole della psicoanalisi non mi interessa come possibilità per esplorare l’inconscio, bensì mi appassiona la possibilità della psicoanalisi di usare parole poetiche che contribuiscono nell’ambito di un rapporto speciale qual è il rapporto tra il terapeuta ed il suo paziente, a far venire alla luce il gioco simbolico o ad aumentare l’ illuminazione quando il gioco simbolico rimane in penombra.

Cos’ è che rende una parola poetica? Quali parole può utilizzare lo psicoterapeuta per dare ai suoi interventi una valenza poetica?
Non sono in grado di fornire una risposta esaustiva e sistematizzata, ma come psicoterapeuta e poeta posso proporre alcune annotazioni

La parola poetica è simbolica. Il simbolo rimanda ad un’assenza.
Un piatto di spaghetti senza vongole diventa un piatto di “spaghetti alle vongole scappate”, questa ricetta campana è una produzione simbolica, è una operazione poetica, è “presenza fatta d’ assenza” (J. Lacan).
Psicoanalisi e poesia sono entrambe impegnate nel darci la possibilità di esistere attorno al sentimento di mancanza. Forse solo quando l’individuo è un neonato che succhia il latte dal seno della madre amorevole  tutti i suoi bisogni sono soddisfatti, in seguito le soddisfazioni dei bisogni prima e dei desideri poi saranno sempre parziali.
In particolare la psicoanalisi Kleiniana ha teorizzato che la creatività nasce a partire da vissuti depressivi di mancanza e dalla accettazione di questi.
In ambito Kleiniano, Chasseguet Smirgel ha differenziato la trasformazione creativa,dalla operazione perversa che tende ad evitare il dolore e l’ accettazione del limite portando falsificazioni estetizzanti della realtà.

La metafora è una delle figure retoriche mediante le quali la poesia prendi forma.
La metafora è largamente impiegata in analisi, ricordo a tale proposito che per Stern è uno strumento terapeutico di primaria importanza e la metafora terapeutica può divenire una “ chiave” che  consente di comprendere e cambiare la vita di un paziente.
La metafora in psicoanalisi non può certo essere “ermetica” e deve riproporre al paziente elementi che appartengono a lui ed alla relazione paziente/analista, evitano una colonizzazione della mente del primo componente della coppia analitica con parole che esprimono solo la creatività del secondo.
Un paziente riferisce  al suo   analista vissuti depressivi rispetto ai quali gli sembra che l'analisi  possa  fare ben poco, l’ analista gli dice: “restiamo al freddo… insieme”.Il paziente si sente si sente scaldato dal freddo calore di  questa frase metaforica che esprime la disponibilità del terapeuta a condividere i sentimenti depressivi e la sua capacità di tollerarli

Freddo calore  e “presenza fatta d’assenza” sono ossimori. L’ossimoro è una figura retorica che accostando termini opposti consente di dare forma con potenza espressiva e con immediatezza a sentimenti contrastanti .
Penso a G. un paziente pesantemente taciturno che mi espone ad un silenzio assordante.

La parola poetica stabilisce accostamenti, collegamenti, correlazioni tra pensiero, affettività, sensorialità, tra diverse percezioni e rappresentazioni del reale, tra affetti contrastanti…
Antonello Correale descrivendo quei pazienti che non riescono ad inscrivere affetti caotici e travolgenti  in una griglia linguistica, a causa di traumi subiti durante la loro crescita, afferma:
“A me sembra che per affrontare il tema del trauma e delle esperienze traumatiche ripetitive noi ci dobbiamo dotare di un linguaggio che sia sufficientemente poetico. Intendo per poetico un linguaggio che sia molto impregnato di sensorialità, ma una sensorialità che ha delle valenze narrative, delle valenze comunicative, per cui all’interno delle immagini sensoriali ci sia come una apertura verso una scena più ampia che è prevalentemente la scena che la persona cerca di raccontare.”

Concludo queste brevi annotazioni ricordando due ultime figure retoriche:
La similitudine, ossia il creare associazioni di idee mediante l’uso del come
“Si sta come
 d’autunno
 sugli alberi
 le foglie. “( Giuseppe Ungaretti)
 La funzione poetica della parola in analisi credo sia spesso veicolata dalla capacità di proporre similitudini in grado di risuonare nel paziente.

La sinestesia  che consiste nell’ accostamento di termini che appartengono a sfere sensoriali diverse.
“Io venni in loco d’ ogni luce muto” (Dante Alighieri)
Mi ha sempre colpito come questa sinestesia riesca con grande  potenza espressiva a descrivere l’ inferno della malattia mentale.
Queste righe sono uno dei tanti piccoli contributi scritti con l’ intento di aiutare chi vi entra ad uscirne per (ri)veder le stelle.


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