martedì 21 giugno 2011

Intervista a Raffaele Urraro

di Antonietta Gnerre

Raffaele Urraro è nato e vive a San Giuseppe Vesuviano. Laureato in Lettere Classiche presso l’Università “Federico II” di Napoli, dopo aver insegnato Italiano e Latino nei Licei, ora si dedica esclusivamente al lavoro letterario. I suoi interessi spaziano dalla poesia alla saggistica alla narratologia alla linguistica alla semiologia allo strutturalismo. La sua attività culturale si esplica quindi nello studio delle forme del dire e nel culto della parola intesa come massimo strumento di espressione e di comunicazione. La parola vesuviana, ricca e affascinante nella sua espressività, rientra anch’essa tra i suoi campi d’indagine. Giornalista pubblicista, collabora come redattore alla rivista di letteratura e arte Secondo Tempo diretta da Alessandro Carandente. Suoi interventi critici sono presenti anche in altre riviste, come La Clessidra, L’Immaginazione, Capoverso, Sìlarus. Raccolte poetiche pubblicate: Orizzonti di carta, San Giuseppe Vesuviano 1980, poi Marcus Edizioni, Napoli 2008; La parola e la morte, Loffredo, Napoli 1983; Calcomania, Postfazione di Raffaele Perrotta, Loffredo, Napoli 1988; Il destino della Gorgonia – Poesie e prose, Loffredo, Napoli 1992; Anche di un filo d’erba io conosco il suono, Prefazione di Ciro Vitiello, Loffredo, Napoli 1995;  La luna al guinzaglio, Saggio critico di Angelo Calabrese, Loffredo, Napoli 2001; Acroàmata – Poemetti, Loffredo, Napoli 2003;  Poesie, Marcus Edizioni, Napoli 2009; ero il ragazzo scalzo nel cortile, Marcus Edizioni, Napoli 2011 (in corso di stampa). Per la saggistica: Poiein. Il fare poetico: teoria e analisi, Tempi Moderni, Napoli 1985; Giacomo  Leopardi: le donne, gli amori, Olschki, Firenze 2008. La fabbrica della parola – Studi di poetologia, Manni Editore, San Cesario di Lecce 2011. Cultura popolare: A Vecchia ‘Ncielo – Proverbi e modi dire vesuviani, 2 voll., Loffredo, Napoli 2002; ‘A ‘Mberta – Canti e tradizioni popolari dell’area vesuviana, 2 voll., Marcus Edizioni, Napoli 2006. Ha inoltre pubblicato, in collaborazione con Giuseppe Casillo, molte antologie di Classici Latini edite dall’Editore Loffredo di Napoli,  e una storia della letteratura latina per l’Editore Bulgarini di Firenze.


La parola è una luce destinata a rinnovarsi continuamente. Sei d’accordo?

Sì, ma con alcune precisazioni. Le parole, come si sa, sono organismi viventi, con una loro vita biologica: nascono, crescono, muoiono, perché soggette alla legge dell’evoluzione linguistica e alle esigenze dei parlanti. Poi, per necessità – potremmo dire –  di conservazione della specie, ne nascono alcune di nuove, altre acquistano una nuova verginità semantica, altre rimangono nel tessuto linguistico. Queste sono le parole della lingua comune, quella della comunicazione. Le parole del poeta, invece, sono sempre nuove perché prodotte da una ricerca personale, e perciò sono davvero una luce che consente al poeta stesso, nelle cui mani la parola si rigenera di continuo, e, ancor di più, al fruitore, di mettere in moto meccanismi mentali e spirituali di cui è impossibile prevedere lo sviluppo. La parola dice la cosa, e quindi la scopre  e la fa scoprire perché comunque la parola produce un’azione conoscitiva e di scoperta. È tutta qui la luce di cui giustamente parli.

Secondo te la tua poesia è composta dal dolore, dalla denuncia o dalla rinuncia.

Da tutte e tre queste fonti del fare poetico. E difatti mi riconosco capace di ascoltare le mie interne pulsioni, i momenti negativi dell’esistenza, ma anche di dar voce allo sconforto che mi pervade quando osservo la realtà di questo nostro tempo. E perciò, come si può vedere leggendo le mie raccolte, sono varie le tipologie del mio fare poetico. In ogni raccolta vi è una tipologia poietica germinata da ciò che l’ha ispirata e da particolari scelte linguistiche e stilistiche.

A quali libri delle tue pubblicazioni sei più legato. Poesia, saggistica o cultura popolare?

Sono più legato ai miei libri di poesia perché, anche laddove più scoperta appare l’operazione condotta sul linguaggio, sono sempre personalmente coinvolto. Nelle mie poesie sono sempre presente, o a livello soggettivo e intimo, o a livello di realtà oggettiva filtrata attraverso la mia personale sensibilità. In effetti posso affermare che la mia poesia sono io, anche quando parlo di altro. Ma si tratta di un’ovvietà: ogni poeta, anche quando lo nega, è presente tutto nella sua opera. E non può essere altrimenti.

È vero che le tue creazione letterarie sono molto apprezzate sia in Italia che all’estero?

Bisogna distinguere. Le mie opere poetiche sono entrate in alcuni circuiti di fruizione, e godono, per lo più, di buona salute. Le opere di cultura popolare hanno avuto una buona diffusione anche fuori dall’ambito regionale. Le opere scolastiche, cioè le antologie di classici e la letteratura latina, hanno avuto ed hanno un’ottima diffusione in tutte le scuole italiane. Il mio saggio sul  Leopardi, edito da una casa editrice di gran prestigio a livello mondiale come l’Olschki di Firenze, ha varcato i confini nazionali: lo si può trovare in tutte le Università italiane e in quelle d’Europa, del Nord America e perfino del Giappone.   

Come è nata la poesia nella tua vita?

Forse ha davvero ragione chi afferma che è la poesia a cercare e trovare il poeta. E difatti fin da giovanissimo sentivo l’esigenza di esprimermi in versi, ma solo a partire dagli inizi degli anni ’70 ho cominciato a coltivarla con un interesse sempre maggiore e, soprattutto, con grande applicazione e consapevolezza dell’estrema delicatezza del fare poetico. Ora è diventata la mia vera forma di espressione. Oggi non saprei più farne a meno. È diventata come un atto necessitato.

Scriveva il critico Guido Guglielmi: “Il problema della poesia oggi sarà quello di lavorare ai margini, nelle zone che sono insieme di invenzione e negatività”. Sei d’accordo?

Sì. In parte questo fenomeno è generato dalla società in cui viviamo, che è portata a rifiutare la poesia e tutte quelle che possiamo definire come vere e proprie attività dello spirito, perché lontane e contrarie ad ogni idea di mercificazione e di profitto. In parte, però, dipende anche dai poeti il cui prodotto, spesso, si pone da solo ai margini della società. Certo, è il lettore che deve attrezzarsi per una fruizione consapevole ed effettiva del prodotto poetico, ma, e non ho difficoltà ad ammetterlo, è il poeta che, troppo spesso, lavorando sul linguaggio come unica finalità del fare poetico si preclude da solo ogni possibilità di essere compreso. Voglio anche dire che il significante in tanto viene creato ed usato in quanto serve a veicolare un significato. Ma se l’operazione sul significante si esaurisce su di esso, siamo di fronte ad un’operazione affascinante quanto si vuole, ma priva di ogni possibile utile fruizione. Quindi il fenomeno della marginalità del poeta e della poesia è un problema che tutti, lettori e poeti, ognuno per la sua parte, dovrebbero finalmente cominciare a porsi, data anche la sua grande complessità.

L’autore che prediligi di più in assoluto.

A parte Dante, che ritengo il più grande poeta della storia, è il  Leopardi. A lui sto dedicando anni di lavoro e di ricerca. Ne condivido gran parte della filosofia e ne amo incondizionatamente la poesia.

Qual è la poesia più bella della raccolta Ossi di Seppia di Eugenio Montale?

È tutta la raccolta che ha un fascino particolarissimo. Ma se proprio debbo indicare un componimento, indico Meriggiare pallido e assorto che conosco anche a memoria e al quale ho dedicato uno dei miei primi saggi di analisi testuale. In esso è applicata in modo perfetto la tecnica del cosiddetto “correlativo oggettivo” che tanta parte ha avuto nella mia formazione poetica. Più in generale, si tratta di un componimento intensissimo ed emblematico della produzione poetica montaliana.

Che posto occupa Leopardi nella tua poesia?

Un posto di primissimo piano. È da lui che ho imparato i primi rudimenti del fare poesia. La “forma” della sua poesia, lirica e drammatica insieme, la musicalità sublime della versificazione, la cura nella selezione e nella combinazione dei segni, la connotazione della poiesis come pensiero poetante o poesia pensante e, soprattutto, come pensiero emotivo, il ritmo dolce e suadente delle cadenze del verso, sono queste alcune delle caratteristiche della poesia leopardiana che, anche per lo studio professionale che ho dovuto dedicare ad esse, sono diventate parte centrale del mio fare poetico.

C’è una poesia che ricordi a memoria della Scuola Elementari?

Ne ricordo molte. Sono poesie di Leopardi, di Pascoli, di Carducci. Ma, a proposito del  Leopardi, ricordo che del Sabato del villaggio e della Quiete dopo la tempesta ci facevano imparare a memoria soltanto la parte cosiddetta “idillica”. La seconda parte veniva tralasciata, anche perché sul libro di testo i versi cosiddetti “filosofici” non venivano riportati perché erano stati tagliati dall’autore. Solo quando arrivai al Liceo mi resi conto del perché: non si voleva che noi ragazzi conoscessimo i fondamenti della filosofia negativa del  Leopardi. Ma quei componimenti, come tutti sanno, se non sono letti nella loro totalità, perdono il loro significato più vero e più profondo. Ora mi rendo ancor più conto che proprio quella di tagliare i testi era la maniera più crudele di uccidere un poeta.

Quanto tempo dedichi alla poesia?

Alterno poesia, saggistica e critica letteraria. Vado, come si dice, a momenti, senza programmare. Obbedisco agli stimoli. Ma nell’una e nell’altra attività si tratta sempre e solo di parole, tanto che, scherzando, amo definirmi un “uomo di parola”. Comunque alla poesia dedico moltissima parte del mio tempo, soprattutto nel leggere e rileggere un testo sino a quando esso non dica davvero ciò che voglio dire. Chiamo “eterno ritorno” questa abitudine un po’ nevrotica e un po’ parossistica.

Che senso ha ricercare ancora un’espressione poetica in un tempo soggiogato dall’indifferenza e dalla superficialità?

Un senso ce l’ha. A livello personale si tratta di un’esigenza dello spirito, della ricerca della mia libertà che celebro, o posso celebrare, soltanto nell’atto di costruzione “libera” della parola. Non per niente la parola è la più libera modalità espressiva a nostra disposizione. A livello generale, il senso è tutto nella speranza che la parola possa ancora continuare a mettere in moto negli eventuali lettori meccanismi che possano produrre una presa di coscienza della vera realtà delle cose. Ogni allusione agli eventi politici cui siamo costretti ad assistere è puramente voluta.

La più importante scuola di vita per te.

Posso dire la scuola della famiglia. È dai miei poveri genitori contadini che ho appreso a vivere e a morire. Tutto quello che ho fatto da grande è sempre dipeso da quella scuola di vita, scuola più di esempio concreto che di parole.
Mio padre aveva frequentato la terza elementare e mia madre sapeva appena leggere e scrivere, anche se non lo faceva quasi mai, come ho scritto in un mio testo poetico, ma da loro ho imparato a dare un senso vero alla vita, pur nella mia pessimistica visione delle cose.

Ci parli del tuo ultimo libro, La fabbrica della parola – Studi di poetologia (Manni Editore, San Cesario di Lecce 2011)?

È un libro di saggi nei quali analizzo la logica e la fenomenologia del fare poetico attraverso lo studio critico di opere teoriche di vari autori, da Orazio a Lagercrantz passando per Boileau, Leopardi, Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud, Gide, Valéry, Rilke, Ungaretti, Cvetaeva, Montale. È un libro rivolto, ovviamente, agli studiosi e ai poeti, ma anche ad un pubblico di lettori colti e curiosi. E difatti nella premessa affermo: “Questo libro è fatto di consigli, precetti, pillole di poietica, suggerimenti, resoconti di esperienze personali di poeti, teorizzazioni, descrizioni di prassi compositive”, cose che si possono accogliere o respingere, ma che bisogna conoscere.   

Un’ultima domanda scriveva Cristina Campo, già negli anni 70, nel saggio Gli imperdonabili, che viviamo nella “civiltà della perdita”, in un tempo smarrito dal presente. Cosa ne pensi?

In effetti è vero ancor oggi. Si ha l’impressione che questo tempo abbia all’improvviso perduto la bussola e che tutti i problemi si siano accavallati in uno spazio temporale piuttosto breve. E l’individuo, soprattutto il giovane, si sente disorientato, spiazzato, smarrito, perché vive in un presente problematico e si prefigura un futuro incerto e nebuloso.
Di questo si trovano tracce vistose nella poesia moderna. Resta da sperare: Addà passà ‘a nuttata! Se passerà. Ma noi dobbiamo sperare. E operare, ciascuno nel proprio ambito, in modo che passi. Anche se è molto difficile, perché sembra che nuvole sempre più cupe si addensino quotidianamente nel nostro cielo.  

1 commento:

C.L.A. - Circolo Letterario Anastasiano ha detto...

Ottima intervista, carissima Antonietta, complimenti. Raffaele Urraro è un riferimento chiaro e importante per noi poeti e amanti della buona cultura e letteratura. Egli è davvero un personaggio poliedrico, un uomo di vera cultura, che sa unire in sé le doti e le qualità di poeta, di scrittore, di saggista e di critico.
Sono contentissimo di averlo conosciuto e mi onoro della sua amicizia.
Rinnovo i miei complimenti per Raffaele, ed anche per te, Antonietta, sempre così impegnata, con passione e competenza, nel portare avanti il discorso culturale, in un periodo non proprio felice e prospero, socialmente, civilmente e culturalmente...
Un caro saluto,
Pino Vetromile