martedì 5 luglio 2011

Su Primaneve di Agostino Venanzio Reali

Book Editore, 2002

recensione di Vincenzo D'Alessio

La raccolta di poesie Primaneve, del poeta Agostino Venanzio Reali è un dono prezioso della poetessa Narda Fattori, giuntomi dopo un tragico evento della mia esistenza. Mi sono sentito immerso, già alla prima lettura dei versi, in un mondo che a stento riesco a percepire, ma che condivido in tutta la sua naturale bellezza: bellezza che inquieta.
La domanda che il Reali pone al lettore è l’interrogativo che da secoli si pone la Poesia come mediatrice tra cielo e terra:

Hai tu la dolce memoria
premente l’anima adulta
di quando la neve
la prima volta vedemmo
sulle tettoie cadere? (Primaneve, pag.18)

“La dolce memoria”, la certezza che il peso del presente e del domani non sono nelle aspettative del fanciullo; recano invece l’energia che si consuma in versi nell’anima semplice, nell’infanzia, non ancora “adulta”, nel freddo dell’esistere a diretto contatto con la realtà degli umani. Lo stupore che penetra attraverso gli occhi del Poeta giunge fino alle canne dell’organo immenso che suonano l’armonia che governa l’Universo che sommuove. Questa è l’energia che rende folli, ebri di silenzio, naufraghi nella terra dove poche sono le tracce degli uomini. Il Nostro la delinea in questi versi tratti dalla poesia eponima:

Dolce nescienza non sapere
donde venisse la neve. (pag. 18)

L’enjambement posto tra il primo e il secondo verso della poesia Primaneve è la chiave di lettura della poetica del Nostro: versi pregni nelle stanze di richiami a poeti famosi del Novecento, dal D’Annunzio al Pascoli, dal Leopardi a Pasolini, tanto per citare le contaminazioni rilevate.
Fattore primario, musica dell’intera raccolta, il silenzio domina tutte le composizioni. Nel sottotitolo, della prima parte del volume (1986), c’è l’omaggio alla poetessa americana Emily Dickinson. Ho scelto di lei un verso che bene si colloca nell’accostamento ai versi del Nostro: “e io, e il silenzio, una razza sconosciuta / naufragata, solitaria, quaggiù –” (Poesie, I Miti, Mondadori,1996).
Come per la poetessa americana, Agostino Venanzio, reca in dono al lettore la solitudine come fonte di ispirazione per raggiungere la Serenità dello spirito e attendere alle cure del divino che è fonte di ricerca inquieta:

l’acqua nera del silenzio terso
mi raggiunge nel bivacco di quarzo
all’ombra di amici remoti (L’acqua del silenzio, pag. 30)

L’ossimoro (nera-tersa) potrebbe offrire al lettore il viatico per il dolore che l’esistenza produce ogni istante nei contatti con le prevaricazioni, le oppressioni, le persecuzioni, in nome dell’unico onnipossente dio: l’economia. Nella poesia del Nostro le cose che ci circondano, lo circondano, sono aeree, quasi superflue, estremo richiamo tra il vivere presente e l’immensità dell’illuminazione che sopraggiunge con l’ispirazione:

Il lume è dolce nell’aria
e quiete son le porte e le finestre;
un’ala viene un’altra se ne va. (Dolenza vesperale, pag. 25)

La sinestesia, all’interno di questa poesia, offre alle cose inanimate le medesime sensazioni degli esseri umani. Più avanti lo zeugma dell’ “unguento serale” apporta attimi di serenità alle ferite che l’anima in lotta continua a sentire. La rima alternata, la avvicina ai versi del grande Leopardi de La sera del dì di festa.
Il naturalismo del Reali è biblico e stupendo. Ogni animale, ogni pianta, ogni cielo, ha un’anima, un’energia da trasmettere. C’è la lezione dei poeti classici latini. Come bella è l’espressione in cui il richiamo alla pura reincarnazione dell’energia, che non si disperde, chiama per nome le creature viventi alla maniera di Frate Francesco:

Colmi di luce ho gli occhi
nella camera ardente
(…)
e potrò volare ghiandaia
oltre le pareti di cemento. (Presagio, pag. 24)

Il cemento attuale contrapposto alla naturalità che si rinnova in ogni essere vivente. La semplice ghiandaia, che sorvola il mondo degli umani, affusolata in volo dalla lunga coda, emerge dalle profondità del bosco a portare lo Spirito che non muore. Eppure le opere degli uomini sembrano sovrastare il tempo che viviamo. Tempi di offese e di guerre. Tempi di mancata morale e di assoluta indifferenza alla sofferenza dei meno fortunati. Quanti bei versi emanano il loro profumo in questa raccolta. Come grano, sotto la primaneve caduta nella notte, i verdi profili aspettano il sole del lettore per offrire i chicchi gialli e maturi della vera poesia. Mirabile è la purezza del versificare nel Nostro, perché si alimenta all’attesa della vera energia del mondo, riparando il lettore (e forse se stesso) dalla frenesia della corsa verso la fine.
L’itinere è ben altro, “la vena del canto” trasale fino a guardare il Creato con gli occhi “saggi e ingenui” del bambino. Attesa felice per chi ha assunto il Creatore a suo interlocutore e si piega alle stigmate della sua stessa sofferenza:

Il sesso acre e cremisi
non più lusinga il pensiero
e il lago del sangue
non frustato da lampi
ha una calma di canto di merli. (Parabola discendente, pag. 45)

Sono andato ai versi di un altro grande poeta che con il Creatore ha intessuto un dialogo aperto. Parlo di Clemente Rebora, della medesima ricerca della purezza nel perdono, nella certezza che l’attesa non è delusa, perché si raggiunge già quaggiù, dove solo l’anima tersa raggiunge con il suo silenzioso canto l’Immenso:

Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro (Dall’immagine tesa, Garzanti, 1994)

Nessun commento: