martedì 27 dicembre 2011

Concorso Pubblica con noi sc. 6 gen 2012

i giurati



Art. 1 Fara Editore bandisce la XI edizione del concorso Pubblica con noi. Due le sezioni a tema libero: sez. A. racconto o raccolta di brevi racconti inediti; sez B. silloge poetica inedita.
Art. 2 Le opere dovranno essere inviate entro il 6 gennaio 2012 direttamente al nostro indirizzo elettronico info@faraeditore.it in un unico file.
Art. 3 L'opera inviata (non più di una per autore) deve essere inedita (o comunque l'autore deve ancora detenerne i diritti; a tal fine l'autore deve dichiarare l'opera frutto della sua inventiva e di sua libera disponibilità) ed essere: per la sez A. tassativamente compresa fra un minimo di 10 cartelle (o 18.000 caratteri spazi inclusi) e un massimo di 25 cartelle (o 45.000 caratteri spazi inclusi); per la sez. B. comprendere un massimo di 30 poesie e non meno di 20 e non superare comunque il numero complessivo di 1200 versi (righe bianche incluse).
Art. 4 È richiesta una tassa di lettura di € 25,00 che dà diritto a ricevere (solo in Italia) il romanzo di Daniele Borghi Pinocchio non abita più qui e il Poema dell'esilio di Gëzim Hajdari: la tassa verrà pagata solo dopo aver ricevuto i libri (nel plico inseriamo bollettino di c/c postale già compilato).
Art. 5 Il partecipante dovrà allegare o inserire nel messaggio di posta elettronica un breve curriculum vitae (non più di 10 righe) con dati anagrafici, indirizzo tradizionale, e-mail e recapito telefonico.
Art. 6 Premi. I primi 3 classificati della sez A. e i primi 3 classificati della sez. B. verranno pubblicati congiuntamente in un libro a cura e a spese dell'editore, che si riserva gli interventi editoriali che riterrà opportuni. Gli autori pubblicati riceveranno 3 copie omaggio godendo dello sconto del 40% (+ spese di spedizione) sulle altre copie che volessero eventualmente acquistare.
Art. 7 Ogni autore selezionato per la pubblicazione riceverà un accordo di edizione che gli lascia la libera disponibilità della sua opera previa citazione dell'edizione Fara. Non verrà dunque corrisposto alcun diritto d'autore.
Art. 8 Il giudizio verrà operato insindacabilmente dall'editore ed da giurati di sua fiducia. I risultati verranno comunicati ai partecipanti via posta elettronica (v. Art. 10).
Art. 9 Qualora si ritenesse non soddisfacente la quantità e/o la qualità delle opere pervenute, la pubblicazione premio potrà non aver luogo.
Art. 10 I risultati verranno comunicati ai partecipanti e nel web presumibilmente entro il mese di marzo 2012 (saranno pubblicizzati nel nostro sito www.faraeditore.it e nei blog narrabilando e farapoesia). Non è prevista una cerimonia di premiazione.
Art. 11 La partecipazione al Concorso Pubblica con noi implica l'accettazione di tutte le norme indicate nel presente bando.
Art. 12 Ai sensi della legge 96/675 i partecipanti al concorso consentono a Fara Editore il trattamento dei dati personali e delle loro opere secondo quanto previsto dal presente bando. Resta inteso che potranno in ogni momento richiedere di essere cancellati dalla nostra banca dati.

Gli indirizzi ai quali mandiamo la comunicazione sono selezionati e verificati, ma può succedere che il messaggio pervenga anche a persone non interessate. In caso ci scusiamo e vi preghiamo di rispondere a questo stesso messaggio specificando l’indirizzo mail che volete venga cancellato dalla nostra mailing list.


lunedì 26 dicembre 2011

Un inedito di Luca Artioli

Venerdì sera, in occasione del concerto che ha visto unirsi gruppi rock e poeti sul palco dell'Arci di Cremona, ho preteso da Luca Artioli che mi inviasse la poesia che vi pubblico qui sotto. É un testo che Artioli solitamente legge durante le azioni del Movimento Dal Sottosuolo, l'ha fatto al Galeter di Montichiari, si è ripetuto alle Giubbe Rosse di Firenze. É un testo che mostra l'impegno civile di Artioli, che da tempo immemore è toccato dall'argomento: non ricordo di averlo conosciuto senza che già ne parlasse. Perciò, visto che non mi risulta abbia ancora pubblicato poesie di questo genere, lo faccio io, per far conoscere un altro aspetto della poetica di Artioli. Inserisco così come sono anche una riflessione dell'autore e alcuni eserghi. (A.Garbin)

RIFLESSIONE
Dal ’54, lo Stato della Somalia è indipendente grazie all’intervento dell’ONU. In loro onore, il popolo somalo ha è deciso di adottare una bandiera nazionale capace di ricordare i colori della stessa Organizzazione: un’unica stella bianca, al centro, su sfondo azzurro.
L’indipendenza conquistata è quella dal nostro Paese, per la cronaca.
Poi, è vero, le cose sono andate come sono andate e, di certo, oggi, in Somalia - soprattutto fuori da Mogadisco - è un vero far west.
Ma su questo non possiamo definirci esenti da colpe.
Questo “Corno d’Africa” è come la cartina tornasole della cattiva coscienza “made in Italy”.
L’abbiamo infatti colonizzata, perduta, ri-colonizzata, gestita, sovvenzionata, politicizzata, consegnata agli americani, lasciata a se stessa, ai Signori della Guerra, ad Al Quaeda, all’Etiopia ed ai trafficanti di ogni genere.
Insomma, con i tempi che corrono, la Somalia è divenuta un vero e proprio “duty free” a cielo aperto.
Chi può “prende”, gli altri se ne stanno un passo indietro.
E spesso, hanno vita breve.
Come i bambini soldato, ad esempio.
Come Ahmed, che è appena nato e ancora non sa nulla di ciò che lo aspetterà.
Come la storia dei suoi fratelli, quella che sto per raccontarvi.

ESERGHI
“Quando l’infanzia muore, i suoi cadaveri vengono chiamati adulti ed entrano nella società, uno dei nomi più garbati dell’inferno. Per questo abbiamo paura dei bambini, anche se li amiamo: sono il metro del nostro sfacelo.” (Brian Aldiss)
“Poiché non ci è possibile ritornare bambini, la sola cosa che possiamo fare è impedire loro di diventare come noi.” (Anonimo)
“Voglio eliminare tutti i bambini degli zingari.” (Giancarlo Gentili, leghista, ex Sindaco di Treviso per 2 mandati)

PANE NERO

Figlio della luna, Ahmed
è qui il cuore rimasto
è qui il cielo di Somalia
intero, infinito
-tutto-
che fan male, ancora,
le stelle da contare,
troppe per la vista
nella notte faticosa
del primo pianto.

Sei un guscio di noce
venuto da un pertugio,
da un cono remoto
di utero stuprato
sul nome “madre “,
un colpo di fucile
nel buio ribelle
ti festeggia maschio, ti prepara
presto al mondo
che non vorrai.

Tuoi sono gli occhi
catrame languido,
pane nero,
tua è la fame che
chiede con la mano
e poche, pochissime
le risposte: sette sono
i fratelli che ti precedono,
sette le bocche, le lingue,
la parola “aiuto” da saziare.

Sul campo delle esercitazioni
Tahlil, undici anni
(seme primo della progenie
chiamata bastarda)
già ti aspetta,
stringe AK-47 e buca teste
fatte ora con la paglia,
ma presto d’ossa, cervello
e pensiero assetati
di una fuga che non si placa.

Sorella Amita nelle cucine
spenna polli
ogni giorno taglia verdure
per i soldati di turno,
piccolo fiore del deserto
lavora rapida, precisa
sa della promessa:
qualche frattaglia, qualche patata
e si manda avanti la famiglia,
ma l’altra deve restare.

Saadyya, sangue del tuo sangue,
soltanto nove gli inverni
per essere donna
i capelli scuri, lunghissimi
le labbra piccole del lampone
e quel terribile trattenersi
la sera, a comando,
che la guardia vuole rispetto
e una bocca ubbidiente
ancora un po’, fra le sue cosce.

Nazri, Mohammed, Kahlil, Zhabiya
benedica Allah questo giorno
mentre cede alla terra,
sani e salvi anche oggi,
l’età appena per correre
in avanscoperta, quando
sui sentieri è pericolo di mine
e nessuno sa che i giochi
sono altri, che la Valmara
le gambe non le restituisce.

L’alfabeto muto dell’oppresso,
è tutto qui, Ahmed, dove
vivere è “dimenticare”
fare in fretta, dove troppo
è lo sforzo del tenersi
addosso questo vuoto
(nel cucchiaino la bava
bianca già sfrigola, chiama l’ago,
il demone che ti salva
da un male più grande).

La Somalia è così, Ahmed
un po’ vittima e un po’
puttana, con una bandiera
che parla di liberazione
e dice basta all’Italia fascista,
quella che offriva
la vergogna del mitra
e poi la mano aperta,
il bacio di Giuda, la replica
nei secoli dei secoli.

Figlio della luna,
sogno per te questo
mondo al contrario
sogno della rosa, dunque
e non più della violenza
del viaggio e non più
delle catene, sogno che tu
possa un giorno sognare,
vedere il tutto - sempre -
anche nel nulla.

domenica 25 dicembre 2011

Un poema di Gabriele Rossetti



Gabriele Rossetti 


Il Tempo, 
ovvero Dio e l’Uomo

Edizione critica, introduzione,
commento e apparato delle varianti
a cura di Mario Fresa





Lanciano, 2012
pp. 348 



Collana «I Classici», 
diretta da Gianni Oliva





Opera pubblicata con il sostegno
del Centro Europeo di Studi Rossettiani di Vasto


con il Patrocinio del Comune Città del Vasto 
e dell'Università «G.D’Annunzio» di Chieti-Pescara, opera in collaborazione
con le Università di Napoli "Federico II", Caen Basse - Normandie (Francia),
Birmingham (Gran Bretagna), Oxford (Gran Bretagna) e Yale (U.S.A).






Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo, Salterio del 1843 di Gabriele Rossetti, illustra e rappresenta, con l’acuta e bruciante lingua della metafora, la situazione politica italiana dell’epoca, traducendo in immagini di ascendenza biblica l’atmosfera e le vicende di quell’infuocato periodo della nostra Storia. I versi melodiosi e vibranti del poeta di Vasto disegnano una trama drammatica e movimentata, in cui la malvagia, ma transitoria vittoria degli empi sui giusti perseguitati sembra sfaldare e addirittura rompere l’amorosa Alleanza stipulata tra Dio e l’uomo: di qui, il canto appassionato e dolente del poeta-profeta, che aspira, con tutte le sue forze, al finale ristabilimento di una ideale, universale concordia. La presente edizione critica del testo ricostruisce, sulla base del fortunoso ritrovamento del manoscritto autografo dell’opera, l’esatta fisionomia del poema, offrendo anche, in appendice, le varianti della sua prima redazione, risalente al 1833.





Gabriele Rossetti, nato a Vasto nel 1783, fu poeta, critico letterario e patriota italiano della corrente neoghibellina del Risorgimento. Per il suo appoggio agli insorti dei moti liberali del 1820, fu costretto all'esilio. Si rifugiò prima a Malta, nel 1821, e da qui si spostò a Londra (1824), dove trascorse il resto della sua vita. Divenne professore di lingua e letteratura italiana presso il King’s College di Londra (1831) e mantenne l’incarico fino al 1847. Pubblicò numerose raccolte di poesie: Odi cittadine (1820), Iddio e l'uomo (1833, seconda redazione 1843), Il veggente in solitudine (1846) e L'arpa evangelica (1852); fu anche autore di alcune opere di critica letteraria, soprattutto sulla Divina Commedia, letta in chiave massonica ed antipapale: Commento analitico alla “Divina Commedia” (1826-27); Ragionamenti sulla Beatrice di Dante (1842). A questa linea storico-interpretativa appartiene anche il saggio Sullo spirito antipapale che produsse la riforma e sull’influenza segreta che esercitò sulla letteratura d’Europa e particolarmente su quella d’Italia; mentre, nel 1840, riuscì a pubblicare i cinque volumi de Il mistero dell’amor platonico del medio evo derivata da misteri antichi. Sposò Francesca Maria Lavinia Polidori, figlia di un altro esule italiano, Gaetano Polidori, segretario particolare dell’Alfieri, dalla quale ebbe quattro figli: Maria Francesca, Dante Gabriel, William Michael e Christina. Alle tribolate e continue difficoltà economiche dopo il 1845 s’aggiunsero gravi infermità come la progressiva cecità. Morì il 26 aprile del 1854: il suo corpo è seppellito nel cimitero londinese di Highgate.
 


venerdì 23 dicembre 2011

POETI: ORGOGLIO DI FRONTIERA

POETI: ORGOGLIO DI FRONTIERA


Non poeti, né lustrini. Prima uomini, donne, persone capaci, abili nell'espressione poetica. Pessoa diceva “Poesia, farfalla che ti posi sulla testa e rendi più ridicoli maggiore è la tua Bellezza”. Bene, ma sulla testa di chi? Di cosa? Di persone, di uomini. La poesia sta solo sulla testa di chi vuole diventare poeta, non di chi lo è già. “Non dimenticate che siamo tutti apprendisti” sentii dire qualche anno fa a Buffoni. Perché il Poeta troppo spesso incarna il participio passato di un freddo amore per la Poesia, e di fuoco c'è solo il ricordo sostituito dal tiepido che gli sale alle guance nominando i grandi gruppi editoriali che se lo contendono. In questi giovani, nell'elenco di sacrifici che fanno per fermare qualcosa della loro produzione, nell'umile lavoro lontano dai facili applausi, e spesso senza ritorno; nell'affanno di chi forsenna sé stesso per entrare nelle cose, qui sarà più facile osservare il germe della Poesia. Questo reading è pensato per promuovere e incoraggiare il loro pensiero anche nella Terra d'origine. Se la Sicilia è Frontiera, loro debbono essere il nostro orgoglio. Per la tenacia, l'impegno e i sacrifici con cui portano avanti la loro differenza.




giovedì 22 dicembre 2011

Carmelo Lauretta

di Marco Scalabrino


Maestro e amico, autore e persona dalle rare qualità, decano fra i poeti dialettali siciliani, Carmelo Lauretta nasce a Comiso (RG) nel 1914.
Laureato all’Università Cattolica di Milano nel 1939, docente per quarant’anni di Lettere in Istituti Statali, è stato dopo la Liberazione vicesindaco della sua città, nonché negli anni Cinquanta il primo presidente delle municipali ACLI.
Collaboratore del Vocabolario Siciliano di Giorgio Piccitto, a cura del Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani, del quotidiano la sicilia, dei periodici giornale di poesia siciliana di Palermo, arte e folklore di sicilia di Catania, dialogo di Modica (RG) e di altri giornali nazionali e locali, ha pubblicato poesia, prosa e saggistica, sin dal 1938.
Sue liriche sono state tradotte in greco da Kostas Stamatis, in sloveno da Vinko Velicic, in inglese da Alessandro Caldiero, in francese da Mazambi K. Makila, in tedesco da Robert Grabski, in giapponese da Gjosho Morishita e in russo da Tatiana Antonova.
Privilegeremo in questa sede, giacché ciò ci preme, la sua prolifica produzione in dialetto, dando spazio, per ciascun lavoro, ad alcune delle tante voci che del Nostro si sono occupate.

Il suo primo titolo in dialetto, A cori apertu, è del 1981. Giorgio Piccitto considera: “Carmelo Lauretta mi ha interessato per la sua ricerca di un linguaggio nutrito di intimi succhi dialettali. Ha il gusto e il senso della lingua e mostra di conoscere in modo eccezionale il suo dialetto”. E Antonio Fjrigos osserva: “Straordinaria è la sua capacità di cogliere la quotidianità e renderla, tramite versi disadorni da ogni enfasi, fonte di squisita umanità e di impareggiabile dolcezza”;          
Pani schittu è del 1982. Salvatore Di Marco nella sua recensione sostiene: “Colpiscono tre aspetti di questo libro. In primo luogo il linguaggio: Lauretta propone un dialetto d’indubbia radice ragusana, ma arricchito di neologismi della vita di oggi. In secondo luogo, la capacità del poeta di collegarsi ai temi della quotidianità. E infine, un forte senso della natura e dell’uomo come risorse perenni, in alternativa alla disumanizzazione tecnologica di quest’era”;
A provocazioni esce nel 1984. “Il Lauretta – commenta Maria Sciavarrello – fa piazza pulita di forme e di atteggiamenti della poesia enfatica e parnassiana, vivendo le sue immagini in modo aderente al suo pensiero e alle sue emozioni”. E Rino Giacone: “Lauretta appartiene a quella poco numerosa famiglia di poeti che, pur forti di una cultura umanistica, non si sono lasciati condizionare da essa, ma hanno cercato nuove strade per una poesia più aderente alla realtà che viviamo”;  
Il 1986 è l’anno di La casa di tutti e della svolta. “Con La casa di tutti – asserisce Salvatore Camilleri sul MANIFESTO della nuova poesia siciliana, edito in Catania nel 1989 – Carmelo Lauretta abbandona definitivamente la grafia della Contea di Modica per quella più coerente della koiné linguistica siciliana”. “La casa di tutti – precisa lo stesso Carmelo Lauretta – voli diri tri cosi: Primu: La casa di tutti è la poesia; secunnu: La casa di tutti è lu duluri; terzu: La casa di tutti è la morti. Iu, però, dicu ca unu e unu sulu è lu patruni di La casa di tutti: l’amuri”;
Na rimpatriata segna l’anno 1989. Carmelo Depetro nella sua recensione attesta: “La tonalità umana di bonomia e di celia accompagna la raccolta. C’è una nota costante di rimpianto per un mondo in cui le persone si contentavano di poco, erano semplici e sincere, pur con le loro manie in fondo perdonabili. Al centro di tutto la funzione del dialetto, sradicato dal peso idiomatico, per renderlo più comprensivo e comprensibile”;
Il 1990 si apre con Acqua di lu Giordanu. “Lauretta – afferma Domenico Pisana – dà alla sua esperienza religiosa la massima estensione, trovando nel Nuovo Testamento i motivi ispiratori per un’ideazione lirica condotta con la sensibilità e il trasporto di chi si accosta al Testo Sacro per educare lineamenti di contenuto poetico-religioso attraverso i riferimenti specifici a personaggi del Vangelo”;
Nel 1992 è la volta di Pani di casa. Salvatore Di Marco così lo recensisce: “È una raccolta di novelle dialettali legate a storie e personaggi di paese che il Lauretta trascrive dipanandole dal filo lungo della memoria. Umorismo sottile, malinconie, ricordi, astuzie e semplicità d’animo, saggezza popolana, ne sono le caratteristiche. Dal loro insieme viene fuori uno scenario nel quale rivive la storia di una comunità dove i sapori sono, appunto, quelli del pane di casa”;  
Oasi di Sion vede la luce nel 1993. “Le poesie di Carmelo Lauretta raccolte con il titolo di Oasi di Sion – assevera Paolo Liggeri – producono in chi legge il sollievo e il ristoro del verde ombroso, della fioritura incantevole, dell’acqua sorgiva e limpida che l’oasi del deserto offre al viandante”. E Giacomo Ferro aggiunge: “Carmelo Lauretta suggerisce traguardi sicuri di fede dove tutto si tinge di luce e di pace. Poesia aperta ai drammi del nostro tempo di cui l’autore si avvale per indicare “oasi” d’amore alla luce del Vangelo, àncora di salvezza per questi uomini di oggi, soli e smaniosi di successo facile. Il dialetto siciliano brilla di immagini fascinose e ricche di conforto”;
Prigionieru di l’Angili è del 1995. “Ogni componimento poetico di Carmelo Lauretta – enuncia Giorgio Battaglia – è una totalità in sé, in cui la realtà e la vita individuale vanno verso la realtà e la vita universale. Non dunque il particolare accende la fantasia e il cuore di Carmelo Lauretta, ma l’universale: l’universale visto come qualcosa che è sostanza e fondamento del reale”;
Pani di cumpagnia, del 1998, chiude gli anni Novanta. “Nei suoi racconti – testimonia Gesualdo Bufalino, suo illustre concittadino – Carmelo Lauretta si cala, da maestro, nella mentalità popolare e ne trascrive riflessi religiosi, momenti topici, aspetti affettivi, risvolti sociali, dando ricchezza e prestigio alla prosa dialettale siciliana. I personaggi si fondono tutti in una raffigurazione-affresco della quotidianità della vita, in cui tutto è concretizzato nel carisma di una prosa dialettale alimentata da pietà per il destino delle vicende umane”;
Il 2000 esordisce con ‘A vita agghiorna. “Le favole di Lauretta – ribadisce Gesualdo Bufalino – coniugano, come d’incanto, la fresca naturalezza del linguaggio gergale con le celiose valenze della paremiologia popolare, senza logomachie moralistiche”;
Ventu di lu Golgota è datato 2001. Riporto dal commento scritto a quattro mani da Maria Pia Virgilio e da me: “L’aspetto saliente di questa nuova silloge di Carmelo Lauretta sta nell’estendere oltre ogni precedente misura l’ambito degli exempla spirituali, nel dare una connotazione universale al proprio credere. I motivi ispiratori del progetto della Trilogia che, dopo ACQUA DI LU GIORDANU e OASI DI SION, con VENTU DI LU GOLGOTA si perfeziona, scaturiscono dall’intento di pervenire alla propria e all’altrui salvezza. Salvezza da conseguire col testimoniare la propria fede anche attraverso la Poesia, mezzo che gli è congeniale; col partecipare – specie in questi tempi così difficili – la propria vocazione alla pace, che è umana e cristiana al contempo; con l’esortare, quanti da tutto ciò sono distanti, a coltivare l’aspirazione ad una dimensione più “alta” del proprio vivere. Gli effetti per il dialetto siciliano sono di notevole portata. Questo difatti viene catapultato in un palcoscenico globale vieppiù dimostrando – ove ve ne fosse ancora bisogno – di essere in grado di districarsi su ogni argomento, in ogni circostanza, di sapersi spingere verso latitudini e longitudini di pensiero inesplorate, di potere affrontare ogni contenuto e non già – come in taluni circuiti si sosterrebbe – doversi relegare agli aspetti del folklore, ai temi della tradizione, alla iconografia della terra di Sicilia nel suo eterno, sofferto sopravvivere. Egli ci parla senza perifrasi, in un idioma da presa diretta – immediato, intenso, attuale – di lebbra, di donne martiri, di fame che ammazza … In buona sostanza, si e ci proietta dalla terra … al cielo”;
A colpu sicuru è del 2002. “Le piante e gli animali – avvalora Saverio Saluzzi – sono i protagonisti delle favole, e ciò non per ossequio alla tradizione, ma per espressione del suo clima umano e del suo respiro affettivo. Egli è nella libertà di quei caratteri, nella spontaneità di quegli ambienti, negli equilibri di quelle lingue”;
L’anno 2004 genera ‘A goccia d’oru. “‘A goccia d’oru – stende in prefazione Giulio Raboni – orbita tutto nel volontario appropriarsi del dolore umano e tradurlo in cifra di sollievo e di purificante solidarietà. Ne è incipit fondante una vicenda biografica (quella del milanese Marcello Candia, che all’età di 45 anni vende ogni suo bene e si trasferisce a Macapà, in Brasile, per costruirvi un ospedale ove curare i lebbrosi di quella poverissima regione). Il vissuto del protagonista è ricondotto alle coordinate evangeliche con semplicità e spontaneità meditativa”;
A colpi cuntati è del 2005. Nella prefazione che egli stesso ha stilato, Carmelo Lauretta ci fornisce la genesi dei versi di questa sua raccolta: la frequentazione e l’affinità col genere letterario dell’epigramma, l’esercizio dei classici, in particolare Marziale e l’Antologia Palatina. Dalla recensione curata da Maria Pia Virgilio e da me leggo: “L’universo floreale metafora del consesso sociale umano! Come non riconoscere infatti, nel variegato mondo dei fiori e nelle loro vicissitudini, i caratteri, le cornici socio-ambientali, le vicende delle “umane genti”? I parallelismi tra i due “regni”, gli itinerari esistenziali che li raccordano sono tanti e altrettanti gli esempi che suffragano la pregnanza della dichiarazione. Fanno parte del bagaglio d’attenzione temi quali: l’aborto, l’assenza delle persone amate, la mafia; ma ricorrenti sono pure i quadri che attengono alla precarietà della vita, alla delicatezza dell’amore, alla compassione, alla speranza. In tutto ciò la Poesia, fregiata di semplicità di immagini e fresca di arguzia evocativa, fluisce genuina nella partecipazione lirico-semantica al nostro dialetto, e realizza un felice equilibrio tra la tensione sentimentale e l’attinenza alle tematiche trattate, fra le quali, preminente, quella religiosa. Nell’ultimo verso del testo “A cardedda di la pruvidenza”, a tutte lettere maiuscole Carmelo Lauretta scrive il nome di Dio: ‘A pruvidenza di Diu è granni. Quasi JHWH, il tetragramma sacro ebraico per Jahvè. Ancora una volta il Nostro prende lo spunto dalle cose del mondo giusto per staccarsene e librarsi verso quella dimensione spirituale che ne contraddistingue l’esperienza d’uomo e lo spessore d’artista”;
Lu suli ammucciatu, tre volumi di favole, è datato 2005. Traggo dalla mia recensione: “Puntiamo la nostra attenzione su tre degli elementi che costituiscono la fattispecie del trittico laurettano: i temi, i protagonisti (animali e piante), il lessico. A che pro? Allo scopo, sceverando tali registri del dettato di Carmelo Lauretta, di riaffermare l’immensa dovizia lessicale del nostro dialetto, le rimarchevoli sue suggestioni sintattiche, l’attitudine – nella testa esso, nel cuore e nelle mani di un nobile esperto regista quale il Nostro è – a contemperare liricamente i suoi preziosi, antichi fasti alle grinze drammatiche del nostro amaro, odierno vivere”;  
Con Prestu prestu scurau siamo al 2006. “È la trasfigurazione poetica – annota Giuliano Frattini – di eventi che hanno oscurato di angoscia il cielo del terzo millennio. Quanto di terrificante è accaduto ha trovato la sua connotazione lirica nella scrittura ritmata da brucianti immagini, da perplessità meditativa, da linguaggio libero da inondazioni aggettivali e da usurati sintagmi”;             
Chisti cu l’autri risale al 2007. Dichiara il medesimo Lauretta: “Questi racconti appartengono alla stessa famiglia degli altri: Na rimpatriata, Pani di casa, Pani di cumpagnia. Sono della stessa pasta, hanno la stessa natura e hanno preso lo spunto della narrazione andando dietro la vita della gente, lungo il paese. Sono come i figli dei tre libri che ho citato”;
Ju e l’amicu silenziu è il titolo del 2008. Maria Pia Virgilio e io ne abbiamo scritto: “Lu silenziu è la patria di la poesia, sostenne Charles Baudelaire, e Carmelo Lauretta, il quale nella quiete della sua compagnia ha percorso tutta la strata râ vita, ha fatto sua tale asserzione e lo ha eletto a titolo della crestomazia. Posto questo ideale triangolo equilatero – la Poesia al vertice, il Silenzio e il Nostro agli angoli di base – registriamo in apertura la sua amicizia cu la poesia. Apprendiamo inoltre che entrambi abitano nni la stissa strata e addirittura idda la porta di supra e lui nni chidda di sutta e che, in virtù del loro rapporto, allorché lei lo riceve mi abbrazza e mi vasa … mi porta a vidiri lu cielu … mi metti nni li manu di l’Eternu. L’ultimo verso della silloge, contenuto nel testo “Chiddu ca cunta”, recita: pi spalancari li porti di lu cielu. E giusto dal verso pi spalancari li porti di lu cielu scaturisce una ultima interessante notazione: la struttura anulare dell’opera. Se facciamo un passo indietro, al primo testo osserviamo infatti che si fa riferimento ad un’altra porta: quella della poesia. Il poeta, dunque, e il credente, ambedue cercano l’ingresso alla propria via, gioia, pace.”
Del 2009, Nun mi nni pentu, titolo, precisa lo stesso Carmelo Lauretta, che “si riferisce a tutto quello che ho strappato dal cuore nella vita.”
Per ultimo, ancora del 2009, U maratoneta di Diu vinutu di luntanu. “È la conferma – scrive Domenico Pisana – del suo pathos religioso trasfigurato in stilemi lirici e che ha nell’icona di Papa  Giovanni Paolo II un riferimento di ideazione rapsodica. Teologicamente rilevanti appaiono i versi che riprendono le parole pronunciate dal Pontefice in occasione della sua elezione: Nun v’aviti a scantari mai. Abbarricati i porti a Cristu.”

Ciò detto succintamente del poeta, avvertiamo che Carmelo Lauretta, scomparso nel 2011, è stato altresì apprezzato saggista. Ha scritto, fra gli altri, su Pietro Tamburello, il quale lo ha messo a fronte dei problemi connessi al rinnovamento della scrittura della poesia, ai rapporti tra questo e la tradizione siciliana, alla concezione che la poesia dovesse essere impegno di penetrazione e di scavo interiore e poggiare sulla capacità di una continua auto-analisi stilistica e, quanto al Dialetto, il suo pezzo IL CAOS VERNACOLARE, pubblicato sul numero di Aprile 1990 del giornale di poesia siciliana, ce ne partecipa a chiare lettere il pensiero: “La poesia dialettale non può più essere improvvisatamente arcadica, compiaciuto riciclaggio di cadenze foniche, formulario di comodo gergale ricercato deliberatamente per varcare le soglie del Parnaso, ma impegno di strutture nuove e di prosodia rinnovata ab intus con valenze evocative e simboliche. Si sente il bisogno di un ordine di scrittura, di una convergenza di impiego di elementari monemi di collegamento. Non si vuole che si snaturi l’anima del vernacolo, né che si alterino le sue peculiarità gergali, né che si stabiliscano aree egemoni di asservimento; si vuole la fine di un’innocente anarchia, si vuole sollecitare la ricerca di una soluzione che porti ad una convivenza ortografica unitaria dei vernacoli e alla loro compresenza nella realizzazione della lingua siciliana.”

Numerosi sono stati, nel tempo, i premi, le gratificazioni, i riconoscimenti.
Nel 1987, è stato tra i ventisei autori, in Italiano e in Dialetto, inseriti nella antologia poeti contemporanei della provincia di ragusa, a cura di Emanuele Schembari, che di lui riferisce: “Carmelo Lauretta, uomo di notevole spessore culturale e di straordinario acume critico, riesce, in poesia, a diventare estremamente semplice e comunicativo, anche se, dalle sue liriche, traspare impegno etico e costante partecipazione alla vita, con adesione totale a propri motivi interiori. È esemplare la modernità del verso senza rime e l’accuratezza della trascrizione del dialetto, in componimenti che condensano significati profondi, dove la serenità del tono non riesce a nascondere una sorta di dolore ontologico, un’umanissima pena del vivere, che è la vera matrice dell’esperienza e della personalità del poeta.”
E ancora, Carmelo Lauretta è stato tra gli oltre venti poeti provenienti da tutte e nove le province dell’Isola presenti al Primo Convegno Regionale di Poesia Dialettale Siciliana svoltosi a Barcellona Pozzo di Gotto nei giorni 29 e 30 Ottobre 1988, organizzato dalla Corda Fratres, che ha visto tra i relatori Natale Tedesco, Lucrezia Lorenzini, Nicola Mineo, Salvatore Di Marco.
E per venire ai giorni nostri, Carmelo Lauretta è stato, assieme con Bernardino Giuliana, Angelo Rizzo, Ignazio Buttitta, Alessio Di Giovanni, Santi Calì e Ignazio Russo, uno tra i poeti presi in esame al Convegno celebrato il 30 Marzo 2007 a Canicattì, dal titolo la teologia della liberazione nella poesia dialettale siciliana. Domenico Pisana che ha svolto la relazione, tra l’altro, appunta: “L’opera poetica di Carmelo Lauretta presenta forti accentuazioni religiose, che evidenziano una teologia della fede fondata sul Testo Sacro e sulla sua stessa esperienza spirituale e umana. Le espressioni religiose più profonde dell’anima di Carmelo Lauretta trovano, infatti, il loro approdo in un dettato che affonda le radici nel tessuto della Sacra Bibbia, letta e rivisitata con la mente dello studioso, con il cuore del credente, con l’intelligenza, la sapienza e la saggezza suscitate da una ispirazione più divina che umana.”

Infine, il numero di Sicelides Musae, bimestrale d’Arte, Cultura e Poesia, fondato a Catania nel Settembre 2008 da Salvatore Camilleri e dal gruppo di intellettuali che egli ha riunito attorno a sé, nel n°1 di Settembre-Ottobre 2008 gli ha dedicato – primo tra i poeti nella Rivista trattati – quasi l’intera pagina 3, con una nota critica e la pubblicazione di alcuni testi.

POETHREE: Andrea Garbin, Luca Artioli e Fabio Barcellandi secondo Dave Lordan



Edito nel giugno 2011 dall’Associazione Culturale Thauma, Poethree: new italian voices, contiene una selezione di testi tradotti in inglese dal poeta irlandese Dave Lordan. I testi che Luca Artioli vede pubblicati su questo libro appartenente a un progetto di scambio e baratto culturale tra Italia e Irlanda, fammo parte di quel corpus poetico che poi è diventato Suture, l’ultima raccolta del poeta mantovano, pubblicata da Fara Editore. Diverso è per Andrea Garbin, le poesie qui tradotte sono estratte da Lattice, libro già edito da Fara nel 2009. Due di queste non sono tradotte da Dave Lordan, bensì dall’americano Jack Hirschman. Infine Fabio Barcellandi, poeta bresciano, non fariano, che vede inserire nel libro alcuni testi poi divenuti parte del libro Folle, di gente, pubblicato nel 2011 da Montag.

Il progetto mette le sue radici a Mantova, al Caffè Modì, come scrive Lordan nella sua prefazione, dove Andrea Garbin, Alessandro Assiri e Fabio Barcellandi si esibiscono con Alexandra Petrova e Jack Hirschman, serata a cui il poeta irlandese, al tempo residente nella città gonzaghesca, assiste. Da Mantova all’Irlanda il passo è breve. Lordan, dopo aver partecipato ad alcuni eventi, tra cui quelli del Movimento dal Sottosuolo presso il caffè Galeter di Montichiari,e quello che vede Chiara Daino presentare Barcellandi a Milano, sfida i nuovi amici a raggiungere l’isola verde con un libro tradotto e presentarlo davanti ai poeti irlandesi. Detto fatto. Il libro esce grazie all’interesse e all’intraprendeza di Serse Cardellini, viene presentato in una tournè che dura dieci giorni e che tocca le città di Dublino, Galway, Bray, Trim, Cork e Derry, tra Istituti di Poesia, Musei e Pub malfamati, ha un buon successo e ora diviene titolo stesso della collana Poethree, che vede Thauma impegnarsi per far conoscere i poeti italiani all’estero.



Doverosi dunque i ringraziamenti a: Dave Lordan; Dr.Kit Fryatt & Dr.Michael Hinds (Irish Centre For Poetry Studies Mater Dei, Dublin); Dr.Philip Coleman (Trinity College, Dublin); poet Nina Karakosta (Greece); poet Kei Miller (Jamaica, Scotland); Aoife Doyle, Kalle Ryan & friends of Garden Party Bray Head; MC Stephen James Smith (for The Glor Session - International Bar, Dublin); Michael Farry, Paddy Smith & others Boyne Writers poets (performance in Trim); poet Elaine Feeney (Galway); poet Kevin Higgins (performance at Sheridan Wine Bar, Galway); poet Connor Kelly (Castle Bar, Derry); poet Paul Casey (Ó Bhéal Poetry Event at Long Valley Pub, Cork); poet William Wall.



Prefazione di DAVE LORDAN

Non ci sono abbastanza lingue nel mondo per la poesia, non ci sono abbastanza voci, non abbastanza parole, non abbastanza linguaggi. Così come il vuoto-spazio in cui si espande costantemente e il vuoto-silenzio in cui incessantemente versa, la poesia è inesauribile. La poesia vuole essere in grado di comprendere ogni cosa, a dirla tutta, vuole e non vuole il mondo secondo il suo capriccio. Anela all’impossibile unione fra parola e carne, o, come suggerisce Barcellandi, all’inverso di questa possibile relazione. Forse questa magia non potrà mai accadere, ma volere che accada è l’unica cosa che potrà mai capitare a un poeta. Se la poesia non è magia, se non possiede poteri divini, non è nulla. Se non può fare accadere le cose, è solo una parte di quella montagna di merda che è tutto il resto. Noi poeti, non crediamo in nulla di umano. Tutto l’umano ci è alieno e noi vogliamo solo uscire da ciò che è umano e andarcene il più lontano possibile. Il linguaggio, ancora più alieno degli alieni, è il nostro assistente, il nostro collaboratore. Noi poeti, non crediamo in nulla, se non nella remota e sacra possibilità di diventare angeli e abbandonare così la nostra razza e il nostro pianeta. Guardateci. Guardate come ce ne andiamo. Essere un poeta significa condividere, o almeno provarci, l’insaziabilità della propria arte. Questo vuol dire essere sempre delusi da come stanno le cose, essere sempre disgustati da come le cose sono andate finora. Significa essere un attore con un infinito appetito per le novità, per le nuove immagini e i nuovi suoni, significa essere un attore dall’inesauribile energia per la ricerca e lo scarto, cercando e scartando sempre nuove forme e nuove sonorità. Significa anche saper riconoscere che ogni novità si esaurisce nella sua iterazione e deve essere immediatamente abbandonata in favore del successivo atto creativo, quello che ancora non si è verificato. La poesia è una pratica di totale distacco dal passato, di totale disprezzo per il presente, di totale orientamento verso il futuro e verso ciò che sarà. I poeti possono essere confusi come meschini, frustrati, cinici, distanti, distratti. E così sia. Se ci odiate è perché ve lo permettiamo, o perché non ci siamo nemmeno accorti di voi. «Non ci può essere alcuna poesia dopo Auschwitz». Chi conosce l’imprecisione poetica che attraversa gli spassosi scritti di Theodore Adorno avrà già sorriso all’ironia insita in questa assurda dichiarazione, soprattutto quando viene citata da quegli idioti che cercano di dimostrare come la poesia abbia a che fare con la morale o il suo affossamento, balle. La poesia è completamente disumana e amorale. È altrettanto citabile, cioè può perfettamente prestarsi, sia ai torturatori che alle vittime. Può fornire scuse ai presidenti. Può impedire ai rivoluzionari di vivere i momenti più bui della prigionia. È del tutto indifferente ai destini e alle fedi sia dei rivoluzionari che dei presidenti. La poesia ante- e post- data l’umanità. Nel lungo periodo non ha nulla a che vedere con noi e non ha alcuna responsabilità per i nostri orrori, che potrebbero altrettanto essere gli spasmi neonatali del prossimo stadio evolutivo quanto le mortifere convulsioni di gorilla mutanti. Ma la poesia riconosce e reagisce soprattutto alla terza possibilità, quella della stagnazione, che ci si possa aggrappare come muschi alla terza pietra dal sole, che la nostra cronica e impestata sacca di dolore e contaminazione sia qui per restare. Non sappiamo a cosa serva la poesia, ma sappiamo a cosa si oppone: stasi, inerzia, umanità. Così il poeta, per essere un poeta, deve essere antiumano. Non esiste qualcosa come un poetico umanista. Non fatevi ingannare da Barcellandi. È a sua volta un espansionista. Infatti, il minimalismo è la più astuta di tutte le tecniche poetico espansionistiche. Concentra il mondo e tutte le sue noiose correnti e storie nello spazio di poche righe che ci assalgono con la massima energia e potenza. Gli stupidi non ne verranno influenzati. Non ne saranno travolti. E questo è un altro aspetto della poesia: ci aiuta a dividere lo stupido gregge dal visionario eletto. Il visionario è colui che vede come l’umanità, nella sua forma attuale, non sia abbastanza buona, debba essere superata. Gli stupidi sono molto felici di come sono, e, inoltre, desiderano che il resto di noi li ammiri per questo. Quando qualcuno ti dice “non sento” la tua poesia, “mi è del tutto indifferente”, quella persona sta scrivendo la parola ignorante nella sua anima. E questo è vero soprattutto se questa persona è, o si definisce, un poeta. Bisogna ricordare sempre che la medesima percentuale di poeti conosce la poesia, come i sacerdoti conoscono davvero Gesù. Un sacco di idioti diventano poeti perché pensano che sia un modo facile per ottenere una posizione o un modo semplice per farsi notare, ma tutto quello che realmente fanno, anche e soprattutto quando una stanza piena di altrettanti idioti viene coinvolta in una rituale estasi di applausi alle loro parole-rifiuto, è affermare la loro grassa idiozia. Questo è tutto: un poeta che lo fa per l’applauso è un idiota-totale. Barcellandi è sottile e pericoloso. Lui non vuole piacerti o pendere dalle tue labbra. Non gli importa cosa pensi di lui. L’ha già fatta finita con questa merda tanto tempo fa. Noi poeti abbiamo molto per cui ringraziare i nostri primi bulli. Ci hanno purgati. Ci hanno detto la verità. Ci hanno reso intoccabili. Luca Artioli è un metafisico dell’ubriachezza e delle incontrollabili pulsioni del corpo, dell’estasi di uscirne per andare oltre. Egli ci ricorda che il sé deve essere munto di tutto ciò che valga davvero la pena per poi essere abbandonato il più velocemente e spietatamente possibile. Il corpo umano è una specie di capsula utile per breve tempo, per una forma esotica di evoluzione, una capsula che deve essere scambiata con urgenza per un’altra non appena la capacità e la possibilità di farlo ci si proporrà. Questa urgenza è quello che noi chiamiamo gioventù, spesso artificialmente aiutata
e prolungata da make-up e giocattoli, narcotici e medici. Erotismo, amore, infatuazione, sono la parte della reiterazione del mondo che possiamo meglio sopportare. Il tempo, così come ha fatto con scarafaggi e costellazioni, ci ha formati per sopportare la noia del sesso, facendocelo passare come qualcosa per cui eccitarsi. L’evoluzione non può assolutamente permetterci di annoiarci con il sesso, anche se, visto dalla luna o da un raggio di Sirio il sesso umano è la cosa più noiosa e prevedibile di qualunque altra. Non importa quante altre volte sia già successo in precedenza un giovane amore deve sempre sentirsi speciale, come fossimo i primi a cui sia mai capitato. Ma l’amore è una truffa perpetuata dal DNA per motivi impossibili da indovinare. Queste poesie di Artioli documentano, ed esprimono in maniera totalmente nuova, queste antiche, sovra- e disumane pulsioni che associamo con il termine di amore. Per garantire la sua sopravvivenza il sesso imita la novità, e Artioli, ebbro di desiderio, traboccante di esso, imita questa imitazione, con stimolanti novità. Come nel lavoro dei grandi maestri Rumi e Baudelaire, ubriachezza e sesso, chiamati vino e amore, sono molto di più dei simboli di una mera intossicazione carnale.
Sono la via d’uscita, la via attraverso, la via oltre. Essi sono il mezzo con cui trasformare un flirt in un amplesso, l’autodistruzione in un’arte vanagloriosa. Elevarci e fare sesso sono gli stessi mezzi con cui liberarci da noi stessi, da quegli orribili grovigli di tabù e di memorie, mentre avvertiamo la sensazione / che tutto possa ricominciare / sulle labbra rosse del vino. Per rinascere è necessario essere terribilmente ubriachi, nudi e ricoperti di sangue. È difficile poter dire di essere davvero rinati senza essere risacrificati. Un vero erotista, come Artioli, sa che lo scopo dell’orgia è proprio quello di diventare insensibili e indistinguibili, in un modo o nell’altro. Il corpo dell’amante tenta anche Andrea Garbin come l’unione fra oblio ed eterno ritorno.

È forse lì:
che si rifugia
è forse lì che si ricorda la
[sera.


Sono capelli che odorano
e che colorano la notte
come liane che portano di
sogno in sogno
cullando la flebile crocefissione
dei nostri cespugli vitali.


Ma non è sufficiente, non lo inganna, né tantomeno il suo pubblico:

half-man, half-beast mi dice Jack
non riusciamo a uscire
dai sentimenti del letto


Quando non crediamo più nei sentimenti del letto, quando non serviamo più i nostri cespugli vitali: ci resta solo la fine di ogni cosa? Leggendo Garbin si ha l’impressione di un grande volatile, o di un uomo volante, che passi sopra le città alla fine del tempo mentre bruciano e sprofondano, urlando l’elenco di quanto si stia perdendo mentre fuma e si eleva. Alla fine l’uomo volante sarà anch’esso
inghiottito dalla fiamma, scomparirà nel fumo su, su, su nell’alta atmosfera fino a disperdersi e diventare irrintracciabile nel nero e infinito oltre. Diverse forme di metamorfosi e scomparsa sono tropi importanti nella poesia di Garbin. Ed è qui che si rivela l’intuizione di un’ultimativa e fondamentale identità di trasformazione e scomparsa. È come se ogni porzione di un infinito e infinitamente diviso essere fosse costantemente alla ricerca di potersi allontanare dall’attuale forma decaduta in un’altra, futura, stabile e idealizzata. Cerchiamo il nostro riposo, senza posa. Alla fine della giornata, don Chisciotte cerca sempre una locanda in cui riposare, in cui dormire. La poesia ha organizzato il mio incontro con Fabio Barcellandi al caffè Modì (che fortuna per loro, a proposito, che luoghi di tale innata irrilevanza come i caffè della Lombardia e i pub del centro di Dublino siano stati miracolati dalla presenza di poesia, e poeti) poco lontano dalla terrificante Piazza Sordello, nel bel mezzo della fortificata città medioevale di Mantova, nel maggio del 2009. Fabio mi ha in seguito messo in contatto con la rapida evoluzione dell’attuale scena poetica
alternativa presente in Lombardia, e con alcuni dei suoi principali protagonisti, tra cui Andrea Garbin e Luca Artioli. Mi hanno portato ovunque fosse possibile performare i miei testi e sono entusiasta di poter restituire il favore. Nonostante la stasi, la corruzione, la decadenza e l’umanità da cui siamo tutti circondati, nella marcia e giovane Irlanda come nella marcia e vecchia Italia, tutti noi, con e tramite gli altri, preserviamo il vitale attaccamento alla nostra vitale e spietata arte. La seguiamo di comune in comune, di bar in bar, di paese in paese, di poesia in poesia, di corpo in corpo, ogni volta e ovunque ci possa condurre. Perché non cercate di unirvi a noi? Il fallimento è probabile, ma se sarete uno di noi sarete i benvenuti, e condivideremo con voi alcuni dei nostri segreti, alcune delle nostre magie.



Gli autori:

DAVEL LORDAN
LUCA ARTIOLI
FABIO BARCELLANDI
ANDREA GARBIN

mercoledì 21 dicembre 2011

Un inedito di Luca Ariano



Fiulìn tra camici bianchi e verdi,
corridoi fiochi di passi zoccolanti,
sospiri e preghiere sentendo 
la Bestia
che dorme come in letargo.
Ripensa a quei racconti…
sarà stato l’Anno Santo,
l’inverno non troppo freddo
e puzza di fame da dopoguerra:
È natu nu criaturo è nato Giggino!”
L’erede maschio dopo cinque parti,
in banca già un conto e un futuro
di scarpe lucide e suole forti.
Fuori c’è un vento di Guerra Fredda,
di Ricostruzione e treni già pronti verso nord.
Scioperano operai tra spari di polizia,
il manganello ancora nella testa
ma già un bambino sorride con Cenerentola,
sognando un altro Paese con Charlie Brown.

Alberto Mori su Sebastiano Adernò


La pietra è pronta da sgrezzare, ma senza scalpello. C’è il chiodo. Pietra è corpo che si inchioda e fa da perno, rigetta da sé con una torsione sofferente tutto il suo male e si sente trasformare.
Per Gli Anni A Venire è alchimia corporale della parola.
Essa si muove da sacrificio cristologico verso una autoesposizione della corporeità, perché la conoscenza del male, sembra indubitabile ed incrollabile all’autore. Talvolta vista come sortilegio da abbandonare, altrove come asporto a levare che per divenire tale attraversa le membra. Ci si inchioda per generare questa alterità presunta: Prendendo il via da una combinazione a cui non si arriva e spartendo le ragioni attorno a quell’unica fissazione che dicono essere d’amore (p. 23).

Antonin Artaud nelle sue Poesie della crudeltà, voleva scrivere piantando una penna viva nella carne così il suo corpo trasceso non obliasse più la sua metafisica completamente umana. Sebastiano Adernò cerca parimenti una espansione del corpo mistico.
Probabilmente un tempo disincarnato dopo incarno feroce:
Perso ogni legame di concatenazione (p. 35).
Per Gli Anni A Venire dispone anche di passaggi dove si estroflette questa unità [La Parabola # 11] mentre nella funambolia ben calibrata di [Al Circo] l’inganno si pesca due volte per trovare un centro d’equilibrio.
Chi assesterà dunque “il colpo” per questo tempo che verrà?
Il poeta confida nella malattia dell’incanto che porta ad una astrazione condivisibile per il meccanismo sociale che si è vivisezionato e mutilato dell’io ed ha espulso le sue “turbe”.
La prospettiva dell’autore sospinge la navigazione arrivando in tempo per mangiare prima di esserlo ed alla fine, ad autofagia conclusa ,tutto si smarrirà, ma questa plaquette, scritta con l’umoralità di poesia e le voglie voraci del ritmo prosodico, fa dell’incompiuto mistica di un sortilegio impetuoso ed oscuro in una magia nera notturna, con troppe nuvole, dove alla fine il dolore avrà un'altra empatia, captata da uomini con una diversa energia sviscerata dalla sensorialità: a questa umanità in ricomposizione viene affidata la sorte. Incrocio fra caso ed esperienza per comporre le nostre stesse vite al quale questo libro affida con dedizione il suo esperimento, la sua riposta ma ben viva speranza.

Dicembre 2011

lunedì 19 dicembre 2011

Performance “finanziaria” di Alberto Mori

articolo pubblicato su «La Cronaca» del 17-12-2011
scheda del libro: Financial


Sopra un inedito natalizio di Alessandro Ramberti

di Vincenzo D'Alessio

La gioia della Natività, intesa nel senso cristiano, da più di duemila anni accorda alla varia umanità un senso privilegiato di Pace. La festa della nascita è antica, quanto antico è il gesto, non solo per l’essere umano, di vedere nascere un figlio. Ma non è solo Pace, la forza che l’Umanità ricerca. L’essere “Uomo” in troppe occasioni cede alla violenza, alla distruzione, alla guerra. Tutte queste forze, opposte alla Pace, si muovono per un’unica condizione razionale: l’economia, il consumo/possesso  delle risorse che l’azzurro pianeta offre ancora.
Il luogo natale per eccellenza, per noi cristiani, resta Betlemme. La povertà l’essenza che nutre l’accoglienza. La memoria, come volle il fraticello di ritorno dalla Terra Santa, come spinta ad annientare il potere del “mostro / nutrito dal buio(…)” La poesia di Alessandro Ramberti, inedita, inviatami per accendere il lume della Speranza è quella che segue:

Betlemme è già salvezza
Vieni
crolla dentro questo minimo oceano
spalanca gli scomparti diabolici
le linee seghettate dall’usura,
sciogli gli schemi di ghiaccio
che covano il mostro
nutrito dal buio che ingoia ogni fiamma…
accompagnaci col tuo braccio potente
lungo questo esodo ululante:
un tuo soffio e anche il mare
si prosciuga, un gesto
e le onde abissali si placano.
Attraverso un sipario di fuoco
la meraviglia costringe le ombre
all’esilio, ci sorprende
di flusso lieto dei giusti
le labbra sono musica
incontro al mistero:
ognuno percependo
che il suo cammino è tenda
e il volto tuo
universo.


Il vocativo, utilizzato dal Nostro, è la traccia indelebile della preghiera. Ma l’umanità di questo XXI secolo non prega più con il fervore dell’abbandono nelle mani di una entità infinita. Prega costantemente per la propria individuale salvezza giornaliera. Non riesce a conoscere i nomi, delle migliaia di vite scomparse in fondo “a le onde abissali”, protese all’esodo, per scampare alla Fame, alla malvagità del Potere terreno, alla schiavitù delle Malattie. Continua il poeta “crolla dentro questo minimo oceano”, ma il dentro di un singolo non muove l’oceano mare dell’Umanità in declino. L’unica forza resta l’incontro, negli occhi che neanche hanno più forza per una lacrima, con i nostri malati negli ospedali, con i migranti, i rom, gli ultimi nella strada. Quante volte ci siamo interrogati e prodigati. Ma “il sipario di fuoco” del vivo Amore  non respinge “le ombre all’esilio”, né le divora. La “tenda” del buon samaritano è stata divelta. Il volto del Dio dei Cieli è scomparso nelle luci delle città e dei paesi. Anche il suono delle ciaramelle, che Giovanni Pascoli ricordava essere tema di rinnovata morale e dolore dell’esistere, si spegne lontano.
Vorrei accostare i versi di un altro grande poeta del Novecento che bene si intonano con la voce solista di Ramberti:

“(…) Oh, lava e scarnifica e spazza
Chi fra i bari del mondo non volle aver bazza:
Sgrumando la lugubre scoria
Che c’inviliva alla gente,
Snuderai l’oro e la gloria
Che non si vendon né recan piacere,
Ma splendono d’un baleno
Che irraggia invisibile sugli altri con Dio.

(Clemente Rebora)

Parole poetiche parole che curano a Rimini



domenica 18 dicembre 2011

Su Magari in un'ora del pomeriggio



Magari in un’ora del pomeriggio,
anche nel luogo dove sei adesso
sopra le pietre più esposte si posa
un annuncio della fine del giorno:
questa stessa aria di luce arancione
che colgo ritornando sui miei passi
procedendo in direzione contraria
al tuo sguardo.
 
I contorni di ogni cosa si accendono
di una grazia inesorabile e quieta
solo per qualche minuto di gloria
che forse non ti comprende nemmeno.
 
Davide Valecchi, Magari in un’ora del pomeriggio
Magari in un’ora del pomeriggio è l’evocazione attenta e precisa, profonda e costante di un tempo nel quale si dispiegano in ricordi a tratti limpidi a tratti distanti le immagini che ad una ad una riaffiorano. Ricordi che si trovano in quel “tu” più volte ripetuto, puntato sempre nel punto esatto, nel centro perfetto del vago sussurro, un “tu” che nell’assenza si fa presenza costante.
Un gioco di opposti forse, come un equilibrio di opposti è il cosmo, abitato di luci e suoni, abitatore di quel tempo indefinito che è il tempo della costante attesa ma anche della perfetta unione.
Unione limpida, chiara, surreale in una luce pomeridiana che è il luogo privilegiato del ricordo ma anche lo spazio indefinito del pensiero. Di quei pensieri che “[…] sono sufficienti/ a volte ad evocare simulacri/ di percorsi appena definiti/ che subito svaniscono posando/ lontano da altri sguardi/ i gusci morti dei desideri”.  Una luce che nel suo riflesso abbraccia il costante percorso dell’esserci, una luce che nel contempo è luce di confine tra la mattutina vitalità del giorno e il riposo serale d’un cielo che nel suo sfumare si fa sempre più evocatore di vaghe speranze.
Ed è nell’armonia del tutto che si dispiegano i frammenti di quell’essere stati, un tempo, unione terrena, perfetta, ad accogliere oggi tutti quei moti lasciati agli anni.
Terrena come solo può essere l’incontro di due anime, e poi ancora la solitudine di una sola  che ricorda, che riemerge che ritrova: “Immobile rimango ad osservare/ le astronavi che attraversano il cielo:/ un modo per ricordare a me stesso/ che ogni mio movimento appartiene/ alla terra e alla terra solamente”.
Divisa in tre sezioni (La convalida del tuo sguardo, I laconici giorni e Stagioni Irripetibili),  questa silloge rappresenta un autentico percorso personale e formativo, capace di riflettersi in ogni suo punto: dalla perfetta ripartizione delle poesie; alla costanza di un endecasillabo che da pura formalità tecnica si fa àncora nel costante divenire del verso; fino alla precisa cura del testo nel suo aspetto più diretto che è quello della forma, del tatto, dell’incontro visivo di una copertina che già dal titolo e dall’immagine è capace di rievocare tutto il contenuto di un’opera complessa e completa.
(G.M.)

Davide Valecchi è nato a Firenze nel 1974, laureato in Letteratura italiana coltiva da sempre una forte passione per la poesia del Novecento e contemporanea. Sue poesie sono apparse in numerose riviste cartacee e on-line. Magari in un’ora del pomeriggio, sua prima raccolta, rappresenta il frutto di un lavoro iniziato nel 1993 e terminato con la vittoria  nel 2011 della prima edizione del concorso “Faraexcelsior” e la relativa pubblicazione da parte di FaraEditore. Grande appassionato di musica, Davide Valecchi, ha fatto parte di numerose band, spaziando tra diversi generi: rock, metal, new wave sperimentale, elettronica. Intraprendendo poi, nel 2001, con lo pseudonimo di aal, un percorso di ricerca in campo elettronico acustico e pubblicando vari lavori per etichette nazionali ed internazionali.

venerdì 16 dicembre 2011

Su Famelica Farfalla di Silvia Zoico

puntoacapo Editrice, 2010, collana “Passi” n. 32, con CD

nota di lettura di AR

È dirompente ed epica la poesia di Silvia Zoico: ci fa scorrere sotto gli occhi la storia con immagini penetranti e un timbro sconvolgente. La raccolta si apre con un poemetto in ottave (metro che caratterizza il libro) dedicato al nonno (1914-2004) in cui si parla dei lager: “(…) / ed interprete divenni con bucce / di patate che una cuoca polacca / mi permise di raccogliere e zucchero / trovato abbandonato in una sacca / che sostenne le gambe come grucce / (…)” (pp. 9-10). E così viaggiamo per pagine intense dove con icastica sobrietà gli orrori della guerra, le lacerazioni famigliari, le “deviazioni” a cui povertà e indifferenza costringono, emergono col profumo poderoso di una voce che arriva al punctum: “… il tavolaccio / del carcere profuma di giacinto / azzurro, le manette sono ghiaccio / tintinnante, rincorrono falene / la lanterna cantata da Marlene” (p. 35). Nella Nota dell'Autore troviamo scritto: “Sono fameliche, le voci dei morti. Mi hanno assediata per anni e afferrata con prepotenza alle viscere, finché non ho ubbidito alla loro necessità di essere trascritte. L'«angelica farfalla» del Purgatorio dantesco e di Primo Levi si è trasformata in un risucchio all'indietro” (p. 37). Questo à rebours è sicuramente uno degli scandagli più sapienti e dolorosi, oscuri eppure lampeggianti della poesia italiana contemporanea, cercando, ma con estrema dicrezione, quel bagliore di eternità che la parola poetica, se bella, vera ed esatta, esprime in maniera indefettibile.

martedì 13 dicembre 2011

Andrea Temporelli su Magari in un'ora del pomeriggio

Caro Davide,

mi permetto di darti del tu perché siamo praticamente coetanei. Ho ricevuto da Giuseppe Carracchia il tuo libro. È stata una lettura molto piacevole, perché i tuoi versi conoscono la misura metrica e delle immagini. Non ci sono strappi, cadute, esibizioni, ma una compostezza dello sguardo e della voce che sono molto apprezzabili, considerata la qualità media di quello che si legge in poesia.
Forse però questo può rappresentare il limite attuale della tua scrittura. Il tuo discorso amabile e profondo forse non sfonda ancora l'orizzonte, non trova qualche soluzione e qualche immagine, e magari qualche tema, che garantiscano ai tuoi versi uno stigma peculiare.
Ma la lettura del tuo libro è stata troppo piacevole per non offrirti queste mie opinabili impressioni.
Un saluto,

Andrea T.

Su Il margine di una città di Francesco Filia


Il Laboratorio Edizioni, 2008
recensione di Vincenzo D’Alessio
Il poemetto Il margine di una città, scritto dal poeta Francesco Filia in anni dal 2004 al 2007, è un racconto dell’esistenza di Francesco all’interno della città natale, della città fantastica, della città cercata. Un viaggio che inizia dal gioco, ricerca la luce, la gioia, medita costantemente sulle “mura” che obbligano l’esistenza a frangersi in ombre, ricordi, “per saggiare l’alterno esistere di una vocazione / il sottrarsi dei morti alla parola” (frammento VII).
Il poemetto non è certo “esercizio”  facile per un poeta: epopea equivale a racconto poetico. Filia ha raccontato in cinquantacinque frammenti, tutta l’integrità e l’unità d’azione dell’esistenza di Francesco e della città che l’accoglie. Integrità dello sviluppo del racconto: dall’infanzia, all’allontanamento per lavorare, al ritorno come padre di una  nuova vita. Unità d’azione dove tutto si svolge tra memoria e dolore del presente, sempre con gli occhi attenti agli accadimenti, lo spirito proteso a migliorare l’esistenza per chi viene: “(…) Sarà la corsa mozzafiato / un brandello di cielo a difendere il respiro / da quest’assalto di spinte e polvere ingoiata / a restituire una misura alle occhiaie dei nostri volti” (frammento XII).
Il poeta è il profeta, ma nessuno gli dà ascolto: “(…) con il tempo che ci chiama a raccolta / consunti, consacrati” (frammento X); “Come una profezia che si compie” (frammento XXIX). La città nei suoi margini  è vera e indefinita. La città che si svela è imperfetta e incompiuta, vista dal mare o dalla sommità del terrazzo: “Città verticale nutrita dalle sue viscere vuote / (…) varco / dove sopravvivere” (frammento XXVIII)Qual è la città del poeta? La città non marginale, quella che idealmente vive di se stessa nella completa luce, nell’infinita gioia, nella gratuità della civiltà condivisa: “Dimoro nell’alba delle strade, nel primo / vagito di una piazza, sul filo di ombre / che salgono lungo questo muro, nel mattino dopo / di tutti i sogni” (frammento LII).
Anche noi vorremmo una città che fosse così! Anche noi abbiamo lottato, atteso, fatto germogliare i prodromi di cittadini nuovi, per delle città nuove!  Abbiamo, come scrive il Nostro, “Ricostruisco il passato negli occhi di mia figlia” (frammento LV). Ma la condanna delle città è quella dell’assenza delle voci vere, delle troppe ombre, delle pistole puntate alla testa per rubare anche l’anello nuziale al viandante. La gioia di vivere non è nelle città, non è nel loro margine. Tutta la città ruota su stessa, in questo poemetto, come una roulette russa: “(…) città vorace di figli e  notti / in un volto assente dopo un collasso / a fine corsa” (frammento II).
Come per Francesco, di questo poemetto, così anche per noi c’è stata l’emigrazione verso la parte alta dell’Italia, per altre città, per altri volti senza nome. Per tutta la vita un pendolo che oscilla tra la necessità del lavoro e il ritorno alla quotidianità delle mura costrittive del nostro Sud. Una gioia trattenuta nel petto, senza possibilità di realizzazione completa. La voce che grida, insieme ad altri, la necessità dei cambiamenti che tardano a venire, o non avvengono.
Amarezza e riscatto. Come per il Francesco del poemetto che leggiamo; il messaggio che viene reso stupendamente, nei versi lunghi, narranti, affidati all’enjambement per avere la forza di tradurre l’energia dell’epos; del personaggio che si svela nel cuore delle cose, degli altri esseri viventi:
  “Ogni cosa è accaduta e le gambe hanno messo radici /
    su questo muro. Ora non posso più scendere, posso
    solo spaccarmi.” (frammento III)