sabato 21 luglio 2012

SECONDI LUCE di ANNA RUOTOLO (LietoColle) - Recensione di Federica Volpe




 La raccolta poetica Secondi luce di Anna Ruotolo è un viaggio a doppio senso di navigazione.
Direi quasi un viaggio interno ed un viaggio esterno, che non sono, però, opposti e non ricongiungibili. Tendono, piuttosto, l'uno verso l'altro, come se fossero simbiotici ed interdipendenti, come ad intrecciarsi ad elica formando il DNA del testo, abbracciandosi nel dare forma e vita ad un lavoro a dir poco riuscito.
 Il primo viaggio è quello di Anna, il viaggio della parola, della ricostruzione delle cose,  della ricomposizione di una galassia che le vive attorno e che acquista senso attraverso la ricerca stessa del senso.  Attraverso questo processo di mondo ricostruito, l'autrice riesce a possedere il mondo che la contiene, contenendolo a sua volta, come un piccolo innocuo dio minore che rinomina le cose per sé, per conoscerle. Il processo conoscitivo parte dal corpo, dove organi di senso come bocca e mani sono fondamentali ("Quantomeno -pressappoco- potrei / conoscere lo spazio delle tue mani / saperti a sapere amare la cicatrice / invisibile delle mie labbra"), e nel corpo, perché esso stesso sembra diventare un mondo, sembra adattarsi ad esso ("All'infinito so che ti affacci sul lato occaso della bocca / e svegli il tempo / so che scosti due rive, si ritira l'acqua dal mio petto / e sono tutte stelle"). L'io poetico, immerso del mondo, parte dal piccolo, da parti del corpo e poi dal corpo (proprio o altrui), per poi ridisegnare il mondo, e solo allora poterne parlare. Solo proseguendo il discorso poetico sembra farsi più rispondente alla vita "vera", concrezione di un mondo esterno con il quale si può avere contatto anche fuori di se stessi, toccare le cose col racconto di sé più che con il corpo e i suoi sentori.
 Il secondo viaggio, è quello del soggetto (o dei soggetti, chissà), di quel tu che pervade il testo e lo dirige, facendosi inseguire. E' un viaggio alla rovescia, in cui prima compaiono i ritorni ("Quando ritorni c'è questo sapore / immacolato di meraviglie"), e solo dopo le partenze ("Quel che può va via" e ancora "Mi dicono coi visi di luna / occhi profondi e gialli di sonno / di prepararmi a vederti partire / silenziosa come una bolla / un flash lungo nella memoria."),  come se in fondo i ritorni non le abbiano risolte, come se, pensando al ritorno, non possa essere esclusa la partenza, e il dolore che essa provoca. E' una partenza d'altri, di fronte alla quale l'impotenza si fa solida, e sottilmente dolente, direi: dolente in modo educato, ma non senza pienezza. Ed infatti le mancanze, plurali o singolari che siano (la poesia permette sempre questi gialli), sono forse il tema, o a ben vedere l'ossessione del testo. E tutto un aspettare, un vedere andare o tornare, e soprattutto un ricordare affinché le mancanze possano essere esorcizzate o avvicinate, addirittura, a tratti, sentite meglio.
 Ma, come dicevo, i due viaggi non sono poi altro che un unico affascinante percorso, un tessuto unitario che ha dei nodi fondamentali, attorno ai quali il discorso poetico si articola. E allora è un continuo ritorno di case come a volerne trovare una propria, di porte socchiuse e di scale da salire, di luci che sono squarci, aperture luminose e dolorose al contempo, di fuochi e fumi, di nebbie che rendono più sfocato il testo mostrando quanto sia sfocato lo stesso io poetico,   e la neve, la neve che torna ciclica, come ciclici sono gli inverni, che torna e ritorna a raccontare, forse, una nostalgia tutta invernale che è sopravvissuta all'inverno ma che ha lasciato i geloni.
 E perché Secondi luce? Perché anche il tempo è un tema fondante della raccolta, un tempo che è "...una luce di lampi / breve come un guizzo della terra / e manca, manca il cono d'ombra / dove si nasce, dove un po' si vive". Eppure, il tempo umano, così breve, è abbastanza lungo da contenere la (ri)creazione dell'universo: una creazione faticosa e lunga, appunto, secondi luce.

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