mercoledì 22 agosto 2012

Mario Fresa su Fortini






 Mario Fresa

 Attraverso lo specchio.

A proposito de La partenza di Franco Fortini



F. Fortini



La partenza



Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.


Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.

Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.



1.
L’inizio fa pensare, davvero, allo schiudersi improvviso di una ferita che si profila terribile, perché sempre temuta e sempre attesa.
Solo due versi, inchiodati al dolore di un strappo, visivamente espresso dalla sua posizione tutta staccata e «altra» rispetto al corpo seguente della poesia:



Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.



La strofa, dunque, colpita dalla dura luce di uno stupìto isolamento, sùbito spegne, con drastica e desolata fermezza, ogni speranza di eventuale soluzione, ogni ipotesi di finale riparazione.
Le parole agiscono come rilevazione di un avvenimento che è avvertito come affatto irredimibile; è un evento, certo, che non si è ancora verificato, ma che è già presente, già inciso nella carne viva dell’essere.

L’antico morso, cioè il destino mortale, è, insieme, sconosciuto (perché ancora - ma per poco -  assente) e familiare: è «antico», poiché la sua estrema e violenta puntura è inconsciamente impressa nell’uomo, sempre inseguito e tormentato da quell’ossessivo, rigermogliante pensiero; ed è un tempo di natura «mitica» più che storica, giacché l’«antichità» non ne indica una posizione di remota distanza o di «inattualità».
In quell’antico, però, si avverte l’eco di qualcosa di impreciso, di vago, di rimosso: eppure non possiamo non sentire la vibrazione di un suo ineluttabile catapultarsi nell’ora e nel qui.

Perciò il poeta avvista, come nel mezzo di un acuto baluginare, il proprio vicino, incontrastabile tramontare, registrando l’eco di una sua tragica familiarità. Leggiamo, infatti, che l’antico morso è «riconosciuto»: ed è come se l’aspro combattimento con lo spettro della morte e della fine fosse stato già vissuto e sofferto; perché se quella battaglia è stata già affrontata da un solo uomo, è come se tutti gli uomini l’avessero vissuta.

La poesia agisce, allora, come istante assoluto che fa coincidere il presente e l’eterno, riorganizzando il tempo dell’uomo nella direzione di un ciclo tutto fondato su di un regolare, fatale ritorno dell’Uguale. Qui, come registra Lavagetto, «l’opera d’arte si configura come una sorta di ripetizione; il rimosso viene risvegliato dall’esperienza estetica perché in essa prende corpo e rivive qualcosa di nascosto e occultato nel passato sia individuale che filogenetico».



La morte, allora, è già qui.
Antica e vicina, altra e immanente. Il suo procedere ha un che di geometrico e di infallibile: il suo eterno ritornare, «tante volte», (sotto l’aspetto della morte altrui; oppure con il segnale di un primo, di un secondo, di un terzo avviso), «e poi l’ultima», spinge il poeta a una constatazione che vive di una lucida e quasi rassegnata compostezza: nessun lamento accompagna tale rilevazione, perché il riconoscere la presenza dell’esperienza universale della morte tende a configurarsi come l’oggettivo accoglimento di un destino che supera e cancella qualsiasi tentazione di individuale commozione, qualsiasi ipotesi di confessione personale.



Si notino, ora, le non certo casuali paronomasie che, posizionate all’interno dei primi due versi, suggeriscono, evidenziandole, le immagini della ripetizione, dell’immanenza e del ritorno circolare della morte: Ti riconosco, antico; tante volte; e si osservi, poi, lo stesso accostamento fonologico tra «morso» e «morte».
Le interne, segrete concordanze dei fonemi ci fanno comprendere che è già nello stesso suono degli eventi narrati che si rivela potentemente inciso il destino di una eterna ripetizione della realtà.
Impossibile, dunque, è sfuggire all’immensa, terrifica màcina del tempo che distrugge e ricrea, in modo sempre uguale, il mondo; tutto è già stato, e ogni evento riemergerà con le medesime modalità, con gli stessi colori, e con le stesse incalcolabili sorprese.


I primi due versi sembrerebbero, si diceva prima, già concludere l’intero discorso prima che sia sviluppato.
La morte è in noi: non ci resta che riconoscerla e affrontarla, sùbito, adesso, senza ricorrere a inutili preterizioni.
La strofa ha, dunque, il sapore di una sentenza inoppugnabile: e termina, poi, con un accento scarno, incontestabile, segnato da una rude, inflessibile rigidezza, espressa dalla brusca parola sdrucciola finale: ultima.



2.
Pure, potremmo intendere tale inizio come una falsa apertura, come una finta partenza.
Il poeta riprende i versi successivi come se riaprissero una riflessione nuova:



Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella degli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.



Si apprestano, dunque, i preparativi.
Si raccoglie il fascio di fogli (ancora una paronomasia di tipo quasi onomatopeico: il gruppo di suoni fascio di fogli ci ricorda, infatti, la stessa malinconica, vana caducità del rumore degli oggetti della vita: un rumore oscuro e sordo, labile e provvisorio come il fruscìo di una foglia abbandonata al vento).
Si riflette sul bilancio delle azioni compiute e incompiute, sulla galleria dei desideri realizzati o soltanto progettati: e adesso il tono sembra forse alleggerirsi, sfumarsi, cristallizzarsi in una specie di incantato stupore che stordisce e intorpidisce il «viaggiatore» in attesa.
Si inserisce, poi, un sotterraneo tono di paradossale e straniante ironia che ora descrive fenomeni insoliti e nuovi, di surreale e stupefatta incongruenza (è il caso del «ricordare» ciò che non si è); fenomeni che, beffardi, convivono con citazioni, più o meno volontarie, di matrice gozzaniana («lo schema del lavoro che non farò» sembra, infatti, un omaggio dedicato all’indolente e mestissimo verso: «e vedo un quatrifoglio / che non raccoglierò»).

Le azioni si riferiscono all’ossessione di un’iterazione, di una ripresa, di un ritorno continuo, impossibile da completare, da concludere, da soddisfare.
Il poeta è condannato alla ripetizione convulsa e cieca di una serie di progetti che mai prenderanno forma, o che scompariranno presto, riposizionandolo sul punto di partenza. Il suo andare avanti corrisponde a un falso movimento, a una corsa immobile.
Si riuniscono le carte con l’intenzione di studiarle: eppure il foglio è vuoto, la pagina bianca, il pensiero svanito.
Si prepara la cartella con gli appunti: ma l’inchiostro sembra quasi evaporato, facendo sciogliere e dileguare ogni traccia di parola e di pensiero.

Più avanti, ecco un’immagine di misteriosa e malinconica pre-morte:



Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.


È una visione gonfia di mestizia e di inquietudine: la moglie, pur immersa nel ristoro del sonno, non fa che ripercorrere, nella sospensione onirica, alcuni eventi del proprio passato (e non sogna, dunque, un avvenire: il che significa, infine, che non lo spera nemmeno più).
Il poeta, impietosito di lei e di se stesso, non può che destinarle un dolce saluto: una specie di laica, delicatissima benedizione che ha tuttavia qualcosa, in sé, di cupamente irrisolto, di oscuro e di disarmonico. Si noti il dolente affanno provocato dalle allitterazioni delle parole «imperfetta», «atterrita tenerezza»: e si noti, poi, come queste interne, spesso celate concordanze di suono e di immagine siano capaci di farci intendere le azioni descritte come se fossero ansiosamente imprigionate, bloccate, ingabbiate in una rete di successioni già decise e stabilite: ed è come se ogni gesto fosse nevroticamente legato e costretto a muoversi nella trappola inesorabile di una tragica, costante coazione a ripetere.



3.
Continua, allora, il gioco tormentoso delle azioni vane e tuttavia necessarie.
Leggiamo questo passaggio curioso e disperato insieme:

Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.


La scrittura, qui, non rincorre la comunicazione, né, tantomeno, la riconciliazione. Non si scrive per accomodare, per medicare, per sistemare.
No: si scrive per rimettere ogni cosa in discussione; si scrive per opporsi e per combattere, per demolire e per contraddire, per dubitare e per dissentire.

Non c’è liberazione, né protezione, né rifugio, né grazia, né protezione. Chi scrive non ricerca vie di uscita. Non teme per la propria incolumità: il ritorno dell’uguale ripetersi delle vicende del mondo lo spinge quasi disperatamente a voler contrastare l’incontrastabile.
Follia e felicità di chi scrive: non voler perdonare e non voler essere mai perdonati.

Si potrebbe, a questo punto, aggiungere: come difendere ancora l’insostituibilità della lingua poetica? Come assegnare ad essa il compito di un’altra strada (non certo definitiva, né «privilegiata») per l’analisi e la comprensione della realtà? Insomma la poesia riesce ancora a depotenziare e a deporre «l’immagine mistificata, ossia la forma illusoria, che la classe oppressa ha di se stessa?» (sono parole dello stesso Fortini, in Verifica dei poteri,1965).

Il dubbio, in merito ai limiti e alle difficoltà della scrittura poetica, ci sono sempre, e continuano, persistono, ossessionano il poeta stesso.
Ha osservato Alberto Asor Rosa: «far poesia non è dunque, oggi, quando i termini del contrasto di classe hanno raggiunto la loro nudità estrema ed essenziale, niente di più che cedere all’invito suggestivo di una tradizione, anzi d’una consuetudine cristallizzata. Non so come, a chi tratta parole in forma letteraria, non si geli la lingua in bocca, ogni qualvolta arriva ad essere capace di intendere la condizione nella quale il mondo si trova. Mai la necessità ha raggiunto un livello così estremo, mai le parole sono state così inadeguate allo scopo».

Tuttavia, l’esemplare compostezza tragica di un testo come La partenza può fornirci, in vero, un piccolo conforto e una risposta provvisoria: la poesia che è intesa, appunto, come espressione di una «formalità che è solo esperibile nell’opera come tale» e che «non è imitabile o riproducibile o imitabile nella vita del singolo, ma solo nel contesto di una società umana e del suo cospirare» (F. Fortini) potrà continuare a difendere la propria insostituibilità e la sua necessità, in virtù, appunto, del suo porsi come oggettiva e comune risorsa di pensiero e di riflessione.



4.
Abbiamo parlato, dunque, di strane, incongrue, incomprensibili azioni (incomprensibili sia dal lettore, sia dal poeta stesso): ed ecco, chi è pronto alla partenza (anzi: chi è costretto alla partenza?) si dedica a un cerimoniale fitto di gesti inconcludenti e labili: ricordare, riordinare; preparare gli appunti; scrivere lettere ad amici (o a nemici?); salutare; non perdonare.
Ora il persistere in tali azioni «impotenti» ci fa pensare, in realtà, a una purgatoriale dimensione, entro la quale i movimenti risultano perennemente monchi, difettosi, quasi privi di intelligenza: la loro sorda, ottusa insensibilità ci ricorda quei sogni nei quali si cerca di parlare o di gridare e poi non si è capaci di emettere alcun suono; o quegli stessi sogni in cui si tenta di camminare, o addirittura di correre, di saltare, e le gambe restano lì, ferme, crudelmente inchiodate al dolore e al silenzio di un’improvvisa paralisi.

C’è un notevole peso «psicologico», o meglio «psicanalitico», (e, dunque, in senso lato, «patologico») che grava su tale ambigua serie di azioni (e di pensieri) che dà l’idea di una curiosa danza ferma e che ci fa sospettare, poi, che questi stessi gesti deboli e improduttivi siano, in vero, l’espressione di una segreta propensione a muoversi, da parte dell’io narrante, dietro la spinta di atti mancati, sempre tendenti all’inconscia confutazione e all’interdizione, alla decostruzione e alla cancellazione di ogni ipotesi di ideale, finale sogno di ricostruzione o di palingenesi: se tutto è in rovina, c’è solo da lasciare, c’è solo da partire.



5.
È proprio l’assenza di un’idea di rigenerazione, non vogliamo dire «metafisica», ma almeno «spirituale», a convincere il poeta della necessità di una sparizione, di una resa, di una sospensione.
Nessuna salvazione resta a confortare gli occhi privi di illusione dell’uomo.
E poi vi è un tarlo, una ossessione che affanna e attacca e scuote colui che, malgrado la confusione e l’offuscamento del proprio continuo, insanabile sbandamento, si appresta a lasciare la riva della vita per accedere a qualcosa che non conosce.
Quel tarlo si chiama Dio: lo straziante risuonare del suo silenzio dilatato è un colpo insostenibile, è il segno di una lacerazione che non troverà mai pace, mai soluzione, mai consolazione.
Il pauroso dolore torna di nuovo a mordere.
E il tempo già ritorna ad assillare; è lì a percuotere la vigile tensione del viaggiatore stanco e pronto a tutto:



E ora sul punto di dormire
un terribile dolore mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.


Egli chiamava quel dolore, da bambino, Iddio; e quel nome – quel nome impronunciabile e inconsistente, così vivo e plastico e fisico; e al contempo così remoto, così impensabile, così astratto – continua a essere, dopo mille anni, ancora e sempre avvertito; ora Dio non lo si cerca più nelle preghiere del mondo altro: ma si registra la scura vibrazione della sua insopportabile assenza nell’angoscioso volto del mondo stesso, che insegue e ferisce il poeta con la minima e tuttavia insistente, e lucida, e precisa crudeltà di un ago.



Si noti l’uso del termine Iddio. Il poeta avrebbe potuto scegliere qualche altro sinonimo. Si rivolge, invece, a un nome che ci fa sussultare per la sua inquieta carica di sottile violenza: Iddio è parola più aguzza, più forte, più decisa, più tagliente, più penetrante di un termine come, ad esempio, Dio. Vi è quasi un che di perforante, di acuminato, di tagliente: ed è così che la sua assenza si fa ancora più disperante e inaccettabile. Si osservi ancora che la lancinante durezza di quell’ago-Iddio è, inoltre, sottolineata e rafforzata dal vertiginoso enjambement («e Iddio è questo / ago del mondo in me») che aggiunge una potente frattura, un’amara ferita, una dolente, fatale separazione tra il penultimo e l’ultimo verso: il quale ci pare, così, ancor più duro, più spietato, più inevitabile.



6.
Non si avverte una centralità lirica dell’io perché l’io stesso, qui, si sente quasi braccato, inseguito, perseguitato.
Vorrebbe forse, quest’io, in verità, farsi da parte, cessare di continuare a essere il centro continuo dell’interrogazione, del dolore, della ricerca.
Vorrebbe, anzi, quest’io, forse per sempre, consegnarsi alla definitiva partenza per ricuperare l’istantanea immersione nella regione del nulla, sua suprema e inconfessata aspirazione.
Sergio Givone osserva che la parola d’arte «lavora a custodire il valore e il significato dei contenuti dell’esperienza umana nello splendore della loro nullità. E mentre li riporta, tutti, all’orizzonte d un naufragare necessario, proprio così li consegna all’essere e li custodisce, li salva: singolare forma di fedeltà alla terra attraverso esaltazione del negativo».

Il viaggiatore desidera essere lasciato dal persistente, crudo pungolare dell’ago-mondo, dell’ago-iddio.
Vuole uscire di casa, abbandonare la terribile rete imprigionante della sua coazione a ripetere.
E ciò potrebbe avvenire tra poco, sussurra a se stesso il poeta (e che cosa è mai, questo pensiero? Un timore o un augurio? Una constatazione o un presentimento?).
L’atmosfera, adesso, si tinge di un impreveduto colore che diremmo, per un istante, quasi pacificato. Cala una specie di morbida, indifferente, insperata dolcezza che rende ancor più determinato il passaggio dal fuoco della vita all’accoglimento del proprio tramonto.



Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.


Soffermiamoci, ora, per un momento, sul senso di questa immagine, che si direbbe un poco assurda, contraddittoria e straniante:


e sulla città
la brezza capovolge i platani


Ebbene, come può mai una brezza capovolgere un platano?
È, forse, una visione paradossale che tende a esorcizzare, parodiandolo, il pericolo del «poetico»? Perché, lo si ricordi, è proprio dal poetico o dal letterario che Fortini cerca sempre di fuggire.
Perciò, la narrazione di questo viaggiatore in procinto di superare i confini del mondo per diventare nulla si snoda seguendo percorsi fondati sulla non consequenzialità, sull’illogicità razionalmente organizzata, sullo sfasamento interno delle contraddizioni e sulla inesauribile interdizione del concetto di progresso nel movimento della vita dell’uomo: le azioni sono inconcluse, si scrive senza sperare risposta, si organizza un lavoro che non si svolgerà; e l’ordine delle cose non ha senso, tutto si perde e si rinnova, risplende e finisce, appare e si distrugge: Dio è un ago, e s’incarna nel mondo incomprensibile e ostile delle forme, anch’esse ferocemente affilate, sorde, ineffabili; la brezza docile e sottile capovolge i platani; e non si percorre una via, ma si scende per essa, come se si fosse risucchiati, annullati, polverizzati.



7.
E il gruppo degli operai avanza (si trascina, forse?) come un fiume triste.
Se lo intendessimo come un grande corpo che stenta e soffre e lacrima, allora l’aggettivo triste ci parrebbe pleonastico.
Ma quel fiume è anche di più: è l’essenza transeunte della vita medesima; è il suo essere-per-svanire, il crescere e morire contemporaneamente.



Osserviamo, ancora, nell’apparizione di questo già remotissimo, «limbico» gruppo di lavoratori una nuova, sorprendente contraddizione interna: esso è un fiume triste (dunque già prossimo a scomparire, a disciogliersi, a perire), ma è anche, inaspettatamente, «di petti vivo». Che cosa si vuol intendere, dunque? L’espressione – che diresti quasi enfatica, eccessiva – ci fa scoprire, con meraviglia, il disperato vitalismo di quell’uomo che ancora desidera «completare» le proprie azioni (e che vuole ricordare soltanto ciò che è – o che pensa di essere – e non ciò che non è).


Nell’uomo vinto dalla speranza e dall’illusione della possibilità di costruire e di assegnare un valore e un senso al proprio operato succede, infatti, che malgrado il suo inevitabile precipitare verso l’essere-per-la-morte si scopre fiducioso e ardente: e lo spinge «una mobile speranza / che si ignora e resiste», perché diventata quasi un’automatica risorsa, o un bene intoccabile, benché sempre incerto, provvisorio, mortale.



Il poeta va «contro» quel fiume triste.
Il sogno metafisico si è infranto, in lui, da molto tempo. Lo stesso «giuoco» della scrittura poetica (di certo un giuoco estremo, perché inciso nella vertigine di un corpo-a-corpo con l’esistenza) sembra, adesso, non soddisfarlo più: ne avverte un grado troppo alto di distanza dall’auspicato uso formale della vita.
Il dialogo con il Tutto si è ammutolito. Si scende soltanto, adesso, per la via dell’annullamento, della confutazione, del silenzio volontario.
Si smetta di cercare possibili ricuciture, soluzioni, salvazioni, consolazioni.
Qui la partenza non aspira al raggiungimento di una meta, o al ricupero di un epistème.
Qui la partenza è solo allontanamento e polverizzazione: è un auto-congelamento che impone l’abbandono di tutte le forme già comodamente costituite, e di tutte le maschere e le invenzioni e le illusioni che permettono all’uomo l’aprirsi della sua mobile speranza e di resistere.


Di tutto ciò, il poeta-viaggiatore appare tragicamente stanco, e promette a se stesso, alla fine:


andrò verso il mio treno.


Di certo, non si allude a un traguardo, né a un risultato raggiunto, né a una speranza ricomposta.
Ora bisogna immergersi in quello splendore della nullità già citato da Givone: un atto necessario, oggettivo, che non può essere più ritardato con l’impiego di qualche illusivo strumento patetico-ricompositivo.
Non si dimentichino, poi, le segrete (inconsce?) polivalenze di certi termini usati nel testo poetico: treno va inteso anche, naturalmente, nel suo più recondito significato etimologico di lamento, di pianto.
Ma non c’è commozione, né auto-commiserazione, né sconcerto.


Si giunge al termine del cammino. Ed ecco: attraverso lo specchio bruciante della poesia noi già riconosciamo l’aspro dono della stessa verità.
Perché poco prima che tutto sia finito, si profila l’immagine di uno spettro, la proiezione di un implorante fantasma.


Quello spettro mostra il volto di chi parte senza più ritornare: è il volto di ogni uomo che si interroga e stupisce, e che si aggrappa alla parola, all’azione, alla scrittura per creare e per distruggere, per costruire e per dimenticare, per sognare e per cancellare.

La partenza è cominciata, in vero, dal nostro primo sguardo: non siamo mai tornati indietro in nessun luogo, né siamo andati avanti, verso qualcosa.
Siamo stati trafitti da un ago oscuro, insistente, inestirpabile: non ci è sopraggiunta nessuna nostalgia, perché abbiamo affidato all’amore la possibile speranza di una lotta, l’ipotesi di una necessaria, dolorosa resistenza.

Qui siamo giunti, ci ricorda la voce ansiosa del poeta; e qui dovremo riconoscere l’antico morso, e stupirne di nuovo, ancora e sempre: e si dovrà tentare, infine, la strategia dei nostri movimenti assurdi e inconcludenti, antichi e rinnovati, misteriosi e familiari, e senza aver capito chi siamo, chi non siamo, noi premeremo l’ultima soglia, fissando la sua larga meraviglia infinita. 












Il presente studio è uno dei tre vincitori del Premio Franco Fortini per la saggistica  2011.














1 commento:

Giuseppe Barreca ha detto...

"La scrittura, qui, non rincorre la comunicazione, né, tantomeno, la riconciliazione. Non si scrive per accomodare, per medicare, per sistemare.
No: si scrive per rimettere ogni cosa in discussione; si scrive per opporsi e per combattere, per demolire e per contraddire, per dubitare e per dissentire".

Queste frasi del commento le sento molto mie, e la poesia di Fortini mi colpisce sempre: rileggerla è come leggerla la prima volta.