giovedì 23 agosto 2012

Su Il verbo infinito di Giuseppe Carracchia

Prova d’Autore, 2010
recensione di Vincenzo D'Alessio

La raccolta poetica che reca il titolo Il verbo infinito, del giovane Giuseppe Caracchia, siciliano per nascita cercatore di luoghi oltre, per ispirazione, è una tangibile prova di quanto la poesia solleciti l’autore a provare ostinatamente una strada, o forse inesistenti strade, del viaggio nel mondo interiore. Il conflitto tra il vissuto e l’imprevisto del vivere, quasi “un gioco” , su sette strade interminabili, avviate alla ricerca della completezza: “È che ai gatti si dovrebbe / un po’ più assomigliare / che attraversano la strada / con l’indifferenza di chi sa / o sembra sapere che la morte / è un soffio di vento / e ti porta solo più in là” (pag. 13).

Versi meravigliosi e puliti. Versi decisi e vigorosi. La parola che incarna l’armonia di una lingua carica di energia solare, insulare, mediterranea, tesa in quegli spasmi di tempo che fanno somigliare la morte al bagliore improvviso di una luce: “alla luce / uno spasmo / di terra / ti riconduce”(pag. 13). All’apparenza questa raccolta sembra dotata di versi gnomici, a tratti narrativi, moraleggianti. Questo per la leggerezza che la penna ha nelle mani del tempo giovane. Ma quando si contano i passi già fatti dall’età mitica a quella della ragione, se volete di una prima filosofia esistenziale, si scoprono le profondità della ricerca, le risposte mancati: “ Se chiedi a me perché / amore, ti rispondo non so / e se so non capisco. / Ma c’è un fiore sulla mia scrivania / un fiore di carta, amore mio” (pag. 26). Vengono alla mente i versi di un altro grande poeta siciliano: “La stagione finisce in questo suono / di eriche e di vento. Va’ amore / o macchia della mente, rosa triste / desisti dal dominio” (Bartolo Cattafi: Brughiera, Mondadori, 1978).

Sette parti nella raccolta per coniugare l’infinito dei verbi: fiorire, esistere, amare, riposare, sbendare, condividere e vivere. Sette capitoli di un romanzo già scritto nell’infanzia. Sette giorni e sette notti d’attesa affinché il verso assuma le sembianze della poesia che cerca, che ha sete di attese, di albe e di tramonti, di cadute e resurrezioni. Sette note di un unico pentagramma: musica della memoria. Ed è nelle vedute di questo paesaggio dell’anima che affiorano le più sincere emozioni: “Ricordo storie di bimbe contadine / che passavano giorni di giugno / a nuotare nel fienile / (…) È lo spagliare la filosofia / di quel tempo, buttare in aria il marcio / perché il meglio tende a restare” (pag. 12). Versi, questi, dedicati alla madre. Mentre la sezione sbendare è dedicata al padre: “E giocare voglio. Vedi, pure le pecore / ci provo a germogliare con le mani” (canto II); “La perfezione è la quotidiana cura dell’imperfetto” (canto III, entrambi a pag. 40).

Dunque tutta la raccolta è un gioco di versi per purificarsi dalla “imperfezione” (parola e significante che troviamo sovente nelle composizioni) e adire la strada della “libertà” del pensiero nel tempo: “Ho scelto la vita: il fuoco del fabbro / che batte e ribatte alle porte del mondo, / l’aria del falco, la terra del vagabondo” (pag. 64). Il fare, il comporre. Quasi la mitica figura di Vulcano che dalle profondità del suo magma lancia colpi di fuoco sul mondo esterno.

La rima è sempre presente, sia alternata che interna. L’anafora incalza il lettore a seguire il poeta. Le assonanze suonano la melodia del verso libero. L’uso del verbo al vocativo invita all’enjambment in diverse occasioni. L’immaginazione è forte quanto la giovinezza del poeta. Le tensioni sono altrettanto forti: “Amo chi pretende ma sa fare a meno / che ritorna ma sa cercare altrove / e ha il coraggio di non sapere dove:” (pag. 66). Una raccolta che va letta almeno sette volte.

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