domenica 30 dicembre 2012

Fonte Avellana: eventi



CONCERTO DI CAPODANNO
Lunedì 31 dicembre 2012 - ore 22,30
Basilica della Santa Croce
Orchestra Mishkalé - Musica Klezmer

 
  CONCERTO DELL'EPIFANIA
Sabato 5 gennaio 2013 - Ore 21,00
Basilica della Santa Croce
Coro polifonico Jubilate - "Orientis partibus"


giovedì 27 dicembre 2012

Solidarietà per Giacomo Scotti

Casa della Poesia di Salerno segnala un articolo apparso su IL PICCOLO, riguardo il poeta, scrittore, intellettuale, Giacomo Scotti, minacciato dai fascisti.
Tutta la solidarietà e l’affetto per Giacomo, uomo coraggioso e vero combattente per la libertà.
Come scrive la persona che ci ha segnalato l’articolo “I fascisti non muoiono mai, qualunque lingua parlino…”
IL PICCOLO
GIOVEDÌ, 27 DICEMBRE 2012
Pagina 11 – Attualità
Denunciò i crimini croati, teme per la vita
Lo scrittore Scotti, “colpevole” di aver condannato l’operazione in Krajina, nuovamente minacciato.
TRIESTE Ci risiamo. Lo scrittore e intellettuale di frontiera Giacomo Scotti è di nuovo minacciato di morte. Drammatica la sua mail al nostro giornale: «La mia vita è in pericolo – scrive – il sito internet dell’estrema destra neoustascia croata-il hkv hr/hrvatski ha diffuso il 24 dicembre un articolo del periodico zagabrese Hrvatsko Slovo (Verbum Croaticum) nel quale vengo seppellito sotto una valanga di odio e mi si minaccia di “eliminazione”». La “colpa” di Scotti risale addirittura al 1996 quando pubblicò a Roma il libro-diario “Croazia-Operazione tempesta” in cui denunciò i crimini compiuti nella Krajina dall’esercito croato di Tudjman quali uccisioni di persone anziane e incendi di case abitate dai serbi, il tutto all’indomani della cosiddetta liberazione di quella regione abitata dai serbi. «Finalmente – scrive l’autore del testo di minacce, Josko Celan – gli ultimi generali croati accusati di crimini nella Krajina sono stati liberati e sono tornati a casa (i generali Ante Gotovina e Mladen Marka› ndr.). Ora devono pagare coloro i quali li hanno accusati, è giunta l’ora di punire i nemici della Croazia». Segue un elenco di nomi tra cui quello di Giacomo Scotti definito come «un traditore dei croati» e «un bastardo italo-serbo». Scotti è comunque in “buona” compagnia visto che nell’elenco dei punibili ci sono anche l’ex capo dello Stato croato Stipe Mesi„ e l’attuale presidente Ivo Josipovi„, entrambi definiti «filocomunisti». L’autore del testo è lo stesso che puntò il dito contro Scotti, incitando i patrioti croati a «farlo fuori» se avesse messo piede in Croazia, in due velenosissimi articoli contro di lui e il suo libro usciti il 14 maggio e il 14 luglio 1997 sempre su Hrvatsko Slovo. Quella volta per un pelo Scotti sfuggì alla morte quando trovandosi a Fiume fu aggredito da un gruppo di sei-sette uomini in uniforme mimetica della milizia tudjmaniana che cercarono di strangolarlo. Giacomo Scotti è nato a Saviano, nei pressi di Napoli, nel 1928. Nel 1947, fervente antifascista e comunista, emigrò in Istria, appena ceduta dall’Italia all’allora Jugoslavia, dove dapprima visse a Pola, quindi a Fiume. Cominciò a occuparsi professionalmente di giornalismo nel 1948, dedicandosi contemporaneamente anche alla letteratura e alla poesia. Dal 1986 vive e lavora tra Italia e Croazia. Per la sua ricca produzione letteraria ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi in Croazia, in Italia e in vari altri paesi. Nel 2006 il comune di Monfalcone gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Scotti è stato subito considerato un “cliente” scomodo dall’ipernazionalismo tudjmaniano visto che professava la tolleranza, la multiculturalità e la multietnicità, un peccato mortale ai tempi di quel regime, ma, a quanto sembra, anche oggi in una Croazia che sta per entrare nell’Unione europea. (m. man.)

mercoledì 26 dicembre 2012

Sotto il sole (sopra il cielo)


Recensioni e segnalazioni




Alessandro Ramberti

Sotto il sole (sopra il cielo)

€ 11,00 pp. 88 (Ruach 3)
ISBN 978 88 97441 19 9
copertina e disegni di Francesco Ramberti 
postfazione di Anna Ruotolo

alcune poesie hanno la versione cinese a cura di don Pietro Cui Xingan ed Alessandro Centanni

«Non sono un poeta. Non sono uno scrittore. Ma amo la Scrittura santa, la Parola che Dio ha rivolto agli uomini, così come l’abbiamo saputa accogliere e trasmettere; mi piace leggerla, studiarla, meditarla; e la ritrovo nelle righe di queste poesie. Non solo nell’oratorio conclusivo; non solo nei titoli che chiamano in causa l’uno o l’altro passo della Bibbia. Trovo in queste pagine la stessa anima che attraversa la Scrittura, quel fare spazio a tutto ciò che è vita, al suono e allo sguardo, a quella “ecologia dell’umano / [che] ha il fascino del chiedere”, a quella “via calcata con tenacia / assorbendo nelle fibre // il profilo tagliente degli ostacoli”. Ma non si tratta solo di questo; è qualcosa di più, è capacità di sentire tutto il gusto della vita eppure andare oltre, perché “il volto è superficie, // in noi l’eternità”. Penso che questo sia il senso di ogni poesia (e che cos’altro è la sacra Scrittura, se non poesia?). Sono lieto di trovarlo in queste pagine. Auguro la stessa esperienza ad ogni lettore, perché “pronti ad accogliere l’estraneo / ci si ritrova / illuminati”.» (Carlo Broccardo, biblista)

Alessandro Ramberti è nato a Santarcangelo di R. nel 1960. Laureato in Lingue Orientali a Venezia, vince una borsa (1984-85) per l’Università Fudan di Shanghai. Nel 1988 consegue il Master in Linguistica presso l’Università di California Los Angeles. Conclude gli studi con il dottorato in Linguistica presso l’Università Roma Tre (1993). Da allora lavora in ambito editoriale. Ha vinto il premio “l’Astrolabio” con pubblicazione dei suoi Racconti su un chicco di riso (Tacchi Editore 1991). Come Johan Thor Johansson edita La simmetria imperfetta (Fara 1996). Con In cerca (Fara 2004) vince il premio “Alfonso Gatto” 2005 opera prima e, nel 2006, i premi “Città di Solofra”, “Voce dal Ponte” (Monopoli) e il premio speciale “Città degli Acaja” (Fossano). Con Pietrisco (Fara 2006) “Poesi@ & Rete” (Trapani-Palermo) e il premio biennale “Cluvium”. Con L’Arca Felice di Salerno nel 2009 pubblica la plaquette Inoltramenti e nel 2011 Paese in pezzi? I monti e i fiumi reggono (4 poesie di Du Fu), entrambi illustrati da Francesco Ramberti. In «Italian Poetry Review» V, 2010 esce “Rabbunì”, qui ampiamente riscritto. Gli è stata dedicata la «Lettera in versi» n. 32 a cura di Rosa Elisa Giangoia: bombacarta.com/le-attivita/lettera-in-versi










grafica Kaleidon


mercoledì 19 dicembre 2012

Una poesia inedita di Luca Ariano

La foschia cela campi…
conurbazioni… terra arata a neve.
Lì, accanto a meleti – piantati dai Sanniti –
code di camion a scaricare percolato:
se n’è andato tuo padre,
forse per non morire di brutti mali...
di lunghe malattie,
come pecore che brucano diossina…
da abbattere.
Lupi scesi a valle non le sbranerebbero.
Teresa tra la folla… file per gli ultimi
pacchi natalizi, stili affastellati
che pare uno sbuffo di vento a sgretolarli.
Fiulìn davanti a sugheri, terracotte,
ripensa a quella domenica:
«Te piace ‘o presepe?»
Dal treno la nebbia confonde case
ma intravedi aceri spolverati di galaverna.


Luca Ariano

martedì 18 dicembre 2012

“La neve” di Francesco Filia in Poetarum Silva


Pubblicato il 18 dicembre 2012 di


La neve
[Parlare di "raccolta" per il libro di Francesco Filia,  La neve, sarebbe un  errore. Siamo davanti a un poema strutturato in frammenti, trenta di preciso, che danno uno spaccato della quotidianità di Napoli, vista dall'interno: piazze insanguinate, voglie di fuga, e sbalordimento per le luci che si vedono in fondo alle piccole strade cittadine. Trenta frammenti, con dei richiami strutturali all' Inferno dantesco, ma con lievi modifiche perché la letteratura contemporanea, quella dell'ultimo decennio, non può che tentare un avvicinamento alle "chiusure" dei grandi modelli, poi astenendosi, per scelta antimanierista, dalla piena mimesis. Ci era riuscito H.M. Enzensberger, nel suo poema sulla "decadenza" della civiltà occidentale, La fine del Titanic, precisamente ripartito in trentatré cantiche. Ma erano anni di "fondazione" di "nuovi classici". Ora la "chiusura" è solo tentata. La dialettica, analizzata da Luciano Anceschi, tra "poesia come arte anacoreta" di cui parlava Benn e la  leopardiana poesia come "accrescimento di vitalità" si ritrova in questo poemetto, sia nel linguaggio crudo che non nega nulla alle aperture liriche, sia nel verso lungo che ricorda l'endecasillabo falecio di Lavorare Stanca di Cesare Pavese. Il libro è imperniato su una negazione, su un "non-essere" e sulla distanza, già, perché la neve a Napoli non c'è se non colta nella distanza del Vesuvio. Negazione dell'esserci innevata dall'apertura alla fuga, la fuga nel paesaggio che sfuma di cui parlava il grande geografo dell'Ottocento, Alexander von Humboldt. Qui la neve è sogno purificatore ed è tensione, repressa, a ricercare - o sognare - uno spiraglio di freschezza nel degrado afoso e claustrofobico della città d'origine. Napoli, colta nel Novecento nelle sue sfumature "fiabesche" ed al contempo "reali" dalla romana Anna Maria Ortese, in questi anni torna al centro di scritture di successo e di scritture di respiro filosofico. La neve è tra questi ultimi. Per concludere: ho capito molto più su Napoli in Futuro semplice di Gianni Montieri - e nei suoi inediti da (Sud) in caso di morte - e in La neve di Francesco Filia che in tutti gli studi, i bestseller, i film e i reportage su questa città. Come avrebbe detto Sanguineti a proposito di Pavese e Pagliarani, Montieri e Filia "sognano la realtà". Ed è proprio grazie a questo sognare la realtà e il linguaggio che la poesia riesce ad arrivare dove il reportage "realista" non può.
L. M.]

di Francesco Filia
(I frammento, Napoli 2007)
…noi siamo già quel che voi
sarete domani.
La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista
se non nella bocca a nord del vulcano
nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia
che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza
ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa
e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa
fino al midollo. Ce ne accorgiamo dai sorrisi tirati
dei passanti, dai gesti circospetti di chi vive per strada
dalle urla dei ragazzi impresse nell’aria, dal nostro esitare.
E non ci sono di confroto i nostri sogni agitati in piena estate
lo scambiare la notte per il giorno o il ricordo di una madre
il tempore della sua ombra. E se anche qualcuno di noi
si chiede qual è il respiro di queste strade, del loro teso
vibrare, della luce che apre spazio tra palazzi e i nostri
incerti passi affrettati rimarrà come un brusio di fondo tra
risate e un copo di clason. Tra misericordia
e cielo non c’è più tempo per esitare. L’assedio
è dentro le case. È tra la mano e il buio di stanze abbandonate
e non serve ritrarsi di scatto, anche le mura sapranno chi siamo
scrutando la paura nei nostri occhi e allora potremo solo obbedire
ascoltando il silenzio che si insinua tra il vocio e il magma di piazze
e strade, che invade portoni e giardini a mezzacosta, che copre
frammenti di dialoghi affamati di bocche e cuori e allora, tra vestiti
gettati e l’odore di arance cadute, saremo veri e senza età
come chi dovrà morire sul serio.
-
(VI frammento, Napoli 2007)
Il corpo di Napoli
-
-
La pioggia gronda dai palazzi lungo le strade, fino a valle
portando con sé un omissis di parole e pupille graffiate dall’aria.
Ci aggiriamo per trovare quel che abbiamo perso…un centesimo
caduto da tasca o il più remoto dei nostri ricordi, il luogo
dove batte il cuore di ogni cosa dove si riflettono
i nostri volti nell’acqua, immobile, di questa pozzanghera.
Gli occhi si sgranano falcata dopo falcata e il vento
entra dentro, fino alle alcrime e allora saprò che in questa notte
non avrò fratelli nell’ultima fuga d’amore e panico ma solo
l’allungarsi dei passi su gradoni bagnati, tra siringhe
e i due desideri impigliati nell’ultimo respiro del giorno.
Ogni gesto conduce a questo gelo di piazze senza nome
a un orrore di statue erette da millenni
alle nostre sagome impresse sul selciato a queste braccia
che ti chiedono di non abbandonare una terra di colline
e radici, marce, di non aspettare che sia troppo tardi
per dire: “Sì!”
Di ascoltare il rumore sordo di questi vicoli, il sottofondo
d’imprecazioni e vite ostinate, di fissare il niente e il suo contrario
negli occhi del ragazzo che ti punta la pistola al petto e
solo allora potremo dire di esser pronti a rinascere, quando
non ci guarderemo più alle spalle o quando finalmente
non avremo paura di dire: “addio!”
-
(XX frammento, Napoli 2007)
-
-
A volte si ritorna per capire se qualcuno o qualcosa
riconoscerà i nostri lineamenti ispessiti, la fosforescenza
che attraverò la nostra adolescenza, l’ardore
che avvampa le notti e le albe che ci ha reso
vivi, per specchiarsi nei vetri infranti del passato
nelle voci imprigionate tra marciapiedi e mura
per risolvere l’enigma che ancora ci divera per
capire che siamo, sempre, quel che non abbiamo
voluto, tra macerie che seguono i nostri passi
e una città che ci ha voltato le spalle.
-
(Ultimo frammento, Napoli 2010)
-
-
Quando sarò, veramente, disperato non parlerò più in
prima persona per dire…Aspetto il mio turno, che so
Non verrà mai!
Quante, quali parole mi serviranno per dire di nuovo
Nascita, morte, ancora…per sempre?
Quando la polvere si dirada restano
macerie e detriti, mura sberciate e la certezza che non è
rimasto nessuno per raccontarlo, ma solo silenzio e radici
rinate sotto l’ultima neve che cade…nera…Accecante.

venerdì 14 dicembre 2012

Gabriele Rossetti e il Tempo



Pubblicata, a cura di Mario Fresa, 
l'edizione critica del poema  
Il Tempo, ovvero Dio e l'Uomo 
di Gabriele Rossetti



 
Con il patrocinio del Centro Europeo di Studi Rossettiani è stata pubblicata per i tipi della casa editrice Rocco Carabba l'edizione critica di Il Tempo, ovvero Dio e l'Uomo, opera di Gabriele Rossetti edita a Londra nel 1843 e curata da Mario Fresa.
La grande profondità nella ricerca filologica ha ridonato al testo la compattezza e la freschezza di un tempo. La critica ha accolto infatti positivamente questo lavoro:
«Preziosa appare […] questa pubblicazione di Carabba che restituisce al lettore contemporaneo un capolavoro della poesia abruzzese e non solo, visto l'apprezzamento che Gabriele Rossetti vanta anche dal punto di vista della storia letteraria nazionale. Un plauso dunque alla casa editrice lancianese e al curatore Fresa per aver ridato al lettore questo capolavoro, destinato altrimenti ad essere dimenticato». (Il Centro).
L'opera di Rossetti presenta una storia critica abbastanza controversa. Dopo una prima stesura dell'archetipo risalente al 1831, il volume venne completato con l'aggiunta del testo del salterio Iddio e l'Uomo. Successivamente il testo venne messo all'indice e le copie distrutte, nonostante la continua diffusione clandestina di alcuni esemplari. Dieci anni dopo venne presentata una seconda edizione, che però non fu presa in considerazione dagli editori.
Ecco, quindi, che acquista importanza la riedizione di Mario Fresa, la quale presenta un'introduzione che costituisce un excursus sulla vita e le opere di Rossetti e nella quale l'opera viene contestualizzata storicamente e criticamente. Di seguito viene proposta una nota al testo in cui viene presenta la storia critica dell'opera e si precisano gli interventi filologici operati.
La ripresentazione da parte di Fresa del testo del Rossetti costituisce un compendio della poesia del “Tirteo d'Italia”. Dall'opera emerge l'ansia di libertà, la volontà di rinnovamento e viene prospettata un'era luminosa di civile ed operosa concordia.
I versi di Rossetti si assolutizzano rispetto al tempo storico durante il quale prendono forma: da essi non si evince alcunché di rivoluzionario. Si vagheggia, bensì, un nuovo futuro, un'epoca di totale palingenesi per l'intera umanità. L'opera, dunque, porta avanti una visione del mondo e del tempo che non è politica, bensì metafisica, sciolta dal reale, quasi totalmente irrelata rispetto alle congiunture storico-politiche. Il verso, un senario organizzato in ottave, ma anche le frequenti metafore e le citazioni bibliche danno forma alla dimensione sacrale dell'opera e le conferiscono uno stile che si allinea perfettamente al resto della produzione rossettiana e che si configura come combattivo, energico, vibrante, tragico.

Maria Petrella


Mario Fresa ha scoperto il manoscritto autografo
del Poema di Gabriele Rossetti
recentemente pubblicato
dall'editrice Rocco Carabba


Arturo Graf: una guida verso la ricorrenza

di Fabio Cecchi

Nell’ombra che attende. Passata la ricorrenza legata al cantore sammaurese, i suoi ben noti versi ci introducono quella oramai prossima dell’altrettanto illustre (all’epoca, s’intende) Arturo Graf (1848-1913). Il padre, di provenienza teutonica, poté fornirgli il cognome che, anomalo nel panorama di casa nostra, è ed è stato d’aiuto alla folla nel consolidarsi in mente. Se sembrava prerogativa di molte voci romantiche e dei personaggi loro una giovinezza nomade, anche a Graf toccò un biculturalismo, lui che si insedierà a ponte tra le esperienze letterarie dei secoli XIX e XX. La biblioteca della facoltà di Lettere di Torino ne reca oggi il nome, e ivi risiede inoltre, come da volontà, il patrimonio culturale della sua persona:

«Gode lo studio mio, se nol sapete, di più comodità, di varii pregi:
quattro migliaia di volumi egregi veston dall’alto al basso la parete.

C’è la bibbia in tedesco ed in latino, con le Mille e una Notte e il Pecorone;
c’è con l’Emilio l’Imitazione; ci sono l’opre di Pietro Aretino.» (da Notte di Natale, 1893)

Nel capoluogo torinese Graf esercitò per un largo ventennio l’insegnamento della letteratura italiana, formando tra i molti Attilio Momigliano, Francesco Pastonchi e Giovanni Cena. Prima di ciò riuscì ad apporre la firma su pagine di giornali letterari sempre con base a Torino; lo sappiamo accanto a un redattore quale Rodolfo Renier e già definito “di ingegno squisito e coltura molta” da parte di Antonio Labriola.

Nelle aule accademiche il suo nome circola oggi nella veste di storico della letteratura e dei costumi, rendendo onore agli sforzi di lui ricercatore ma eludendo quella produzione in versi che per le scuole secondarie è assolutamente nulla cosa (discorso estensibile a molteplici altri casi).
Forte del sodalizio con Hermann Loescher egli produsse una buona lista di scritti, alcuni mai tramontati, come Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, altri noti a pochi come La poesia popolare rumena; molte lezioni sulla Commedia sono poi confluite in libelli dati prontamente alle stampe. Questo metterà il nostro in contatto epistolare con un professore in erba che al vate fiorentino e nazionale riservava uno dei tavoli di studi nella dimora di Castelvecchio, e troveremo Zvanì citarlo con devozione nelle postille ai Poemi Conviviali. Per finire, elenchiamo un romanzo ben accolto, Il riscatto, ed un libro, Ecce Homo, piuttosto cospicuo considerando che raccoglie aforismi e brevi detti, scaturiti sia dall’ingegno che dalla coscienza.


STILE E MATERIA POETICA

Cosa abbiamo sott’occhio? Sonetti, innanzitutto, regolari ma anche minimi. Gli endecasillabi, affiancati talvolta ai più capienti alessandrini, prevalgono nella prima fase, fin che il poeta sposa il verso breve (settenari, ottonari) prima in Morgana poi nelle Rime della Selva per l’intero canzoniere.

«Semplice, chiaro, preciso   è, pur nel verso, il mio dire.
     Non so, non voglio mentire,   né la parola, né il viso.»    (Rime della Selva, Prologo)

Vorrei ora riportare un passaggio da una mia sortita in un dizionario degli autori. «Il Graf – vi è scritto – è tra i pochissimi a uscire indenne dalla lezione carducciana […]». Del tutto vero: nessuna trattazione politico-patriottica, con la materia storica che cede la scena a quella mitologica (Tantalo, Invocazione a Venere, Flora Nivalis, la Fenice). Neppure troveremo, netta distinzione dallo Zanella (per il quale, si ricorda, il nostro stilò una sentita prefazione allegata alle uscite postume per Le Monnier) carmi celebrativi con dedica a esponenti delle alte classi.
Invece, al pari del corrispondente romano Domenico Gnoli, e rispondendo ad un nascente astro d’origine romagnola, Graf tratteggia molto abilmente squarci naturali e paesaggi, spendendo senza riserbo lodi e paragoni per il fonte e l’invitta cima, la tea e gli arguti e festanti augelli.
Dove Graf può accostarsi al nostro primo vincitor del Nobel e, senza tralasciare numerosi passaggi appartenenti a Psiche, per molti vetta della poesia di Giovanni Prati, è evidente l'intento d’innalzare la posizione dell’intellettuale. Questi detiene il sacro compito di diffondere la ragione, di fronte un volgo reticente e dalla minima volontà di accogliere precetti ed inviti. Di seguito si allega una selezione certamente indicativa al riguardo: “diffida della garrula plebe”; “addio, pestifera proda”; “vive nell’ora presente, nell’ora corta e declive, senza saper come vive, per la più parte la gente…” e ci par lecito aggiungere:  “O martire cruento, sai tu di che genìa / pieno ed infetto sia, il mondo ch’hai redento?” (da Ad un Crocifisso lungo la Via).
La questione pare aver coinvolto pure il Rapisardi, il quale assai di rado ebbe ad astenersi dall’emetter voce a nome della collettività. A dimostrazione, ne le ammirevoli Poesie religiose (1887, Catania) si alternano espressioni quali “gagliarda invitta stirpe” ed altre del tipo “turba rea” e “vili objetti del volgo”.

Con Medusa in molti cominciarono e chiusero con l’autore. Egli salta difatti alle cronache come poeta del male di vivere, e non nel senso tanto caro e fruttuoso ai poetucoli d’oggi. Ivi s’apprende che all’affermazione dello studioso corrisponde una sfera sociale scarna tutt’altro che esaltante.
La terzina che segue, impostata in prima persona, lo vede esporre con scarsa ritrosia la negatività del momento.

«Così vivo e mi sfaccio e mi consumo,
La notte il bujo, il dì guardo la polve,
Piego le braccia neghittose e aspetto» (Terrore)

Una soggettività non celata quindi, che riesce ad adombrare i cauti tinteggiamenti leopardiani, così riecheggianti di Petrarca ed altri nomi della classicità. Una valutazione sarà certamente soggetta ai punti di vista, e per chi “impegnato” anche alla corrente d’appartenenza. Ancora:

«Quand’io contemplo la funesta arena
ove men perde chi più presto muore

[…]

sento stringermi il cor, sento piu scura
farsi la notte dello stanco ingegno.
Ed un pensiero immobile m’assedia
e prorompo in un grido: Empia Natura,
quanto ha mai da durar questa tragedia?» (Umana tragedia)


Inevitabile per i viventi l’incontro con oppressione e dolore, vengono innalzati temibili appelli nichilisti:

«Taciam noi pur! regni il silenzio dove
regna destino forsennato, e immenso
empia di sé l’inesorabil etra.» (Omnia ruunt)

Il poeta, parte attiva in parecchi dibattiti del suo tempo anche di genere filosofico-epistemologico, giunge – dopo spasmodiche deviazioni di percorso – a proclamarsi cattolico di confessione. Per una Fede, opuscolo dato alle stampe nel 1906, espone le motivazioni dietro la scelta. È insieme curioso e lodevole constatare però come nella produzione lirica ciò non provochi stravolgimenti o un modo differente di porsi nei confronti dell’Ordine delle Cose o di Sé. Ne Le Rime della Selva, con cui Graf sceglie preventivamente di congedarsi dal vasto pubblico lasciando gli ultimissimi esercizi alle pagine della «Nuova Antologia», l’ardore iniziale s’ammorza sfociando ripetutamente in un distacco nostalgico ma coscienzioso.

«Il benvenuto non posso, non posso dartelo come
fanno, per dir qualche nome, lo sgricciolo e il pettirosso.

[…]

Vecchio e finito. Dio buono! Chi è che sa dirmi al vero
ov’abbian lor cimitero i giorni che più non sono?» (Al novo giorno)

Non possiamo tuttavia attestare la sommessa invocazione degli ultimi passaggi come forzata e dissonante. In linea col sentimento espresso notiamo meglio calzare tutt’altra esclamazione, se non che teniamo in conto il codice etico dei letterati del tempo.

Ci serviamo ad ogni modo dei precedenti stralci al fine di una sintesi: un linguaggio calibrato e spesso steso con originalità, una certa tensione emotiva e di pensiero, un’atmosfera complessiva che risente di molta esplorazione, dunque delle cadute e degli slanci di questa.



CAMMINO POETICO

Lungo il Novecento parecchi poeti di valore e risonanza riuscirono a vedere le loro fatiche riunite in volume unico (in altri casi, come per Carducci e Cena, si optò per gli scritti completi).
Il primo omaggio postumo sfornato dalla patria torinese consiste nel volume piuttosto sgangherato che è POESIE 1893-1906, apparso nel 1915. Si conta un certo numero di errori di stampa ed oltre alle Danaidi, uscite all’incirca a mezzo del periodo indicato, sono poi omesse le aggiunte apportate ai libri dall’autore in un secondo tempo. In bene, oltre ad un ritratto fotografico quel giusto lugubre, rileviamo l’inclusione di Fiori, poesia inedita in copia da fac-simile.
Ogni opera appare in edizione definitiva nel più moderno e corposo LE POESIE dato alle stampe nel 1922 da Giovanni Chiantore (chiamato a succedere dalla vedova di Graf, la quale già fu vedova Loescher). Vistato dall’allievo poi francesista Ferdinando Neri, esso si avvale della prefazione del membro del Senato Vittorio Cian, che del professore sapeva molto più di quanto abbia voluto presentarci (uno dei tanti carteggi a cura di Clara Allasia).
Nelle note preposte all’Indice si fa doverosamente presente come piuttosto che selezionare si è optato per escludere POESIE E NOVELLE (Roma, 1876), primissima apparizione – per l’Italia – del nostro. Se può esser stata mossa ragionevole l’aggirare un eccessivo ingombro, non possiamo tuttavia in questa sede segnalare una maggiore coincidenza dei canti sopra accennati rispetto ai Poemetti (vedi sotto).
Il viaggio a ritroso nel tempo continua con il piuttosto raro VERSI che nel 1874 il nostro diede alle stampe nella città di Braila, Romania, dove la madre gestiva una attività dall’alterna fortuna. I più arditi collezionisti potrebbero infine mettersi sulle tracce di Versi di Filarete Franchi (riportato come Bianchi in altre fonti) fatica primissima di un Graf appena quattordicenne e celato da pseudonimo.

MEDUSA (1880, poi 1890): Graf dà avvio alla sua produzione di rilievo con un libro non meno sinistro del titolo affibiatogli. La lettura viene per così dire alleviata dal centinaio di disegni realizzati da Carlo Chessa (anch’egli con studio a Torino) che inframezzano i componimenti. L’edizione terza, sempre affidata all’esimio compare Loescher, accresce notevolmente l’opera di una terza sezione in linea con le antecedenti. La critica, come da previsione, è spaccata: si contano opinioni a favore ineggianti al vivido simbolismo e al linguaggio sofisticato (in buon numero i dantismi) ed altre meno accondiscenti che rilevano un “gelido leopardismo” e “il difetto di un’ansiosa morale”.

DOPO IL TRAMONTO (1893): sono qui raccolti nuovi spunti, molti di materia autobiografica. Il pessimismo che contraddistingue Medusa da cima a fondamenta va attenuandosi lasciando il posto ad un più artistico intento che apre una fase di discreto equilibrio. Una certa divulgazione è stata favorita dalla larga antologizzazione di Breve la Vita? componimento esemplare per il pensiero dell’autore.

LE DANAIDI
(1897, poi 1905): in prima apparizione non ripagano le attese, nonostante, attingendo dall’Alighieri sulla scia di Tennyson, Graf produca Ultimo Viaggio di Ulisse, poema di buona caratura e lunghezza. Il riesumato Loescher provvederà, dopo una certa attesa, a rieditare la presente raccolta in veste definitiva; un valore aggiunto sarà dato da liriche come Sic transit e la collana di sonetti “Consigli a un Poeta Giovane”.


MORGANA (1901): ritorno alle edizioni milanesi, che propongono un volume alquanto ingombrante al paragone con gli esili cartoncini dei rivali. L’autore fa scelta di declinare eventuali spasmi filosofici virando su brani impressionistici e rischiando il plagio argomentativo di quanto fatto vedere ne Le Danaidi. Da segnalare sono Venezia e Napoli, catture dei rispettivi ambienti e atmosfere rese in capitoletti di quartine brevi. Qui contenuta è inoltre quella perla occulta degli annali letterari che risponde al titolo Il Canto della Vecchia Cattedrale, susseguirsi di più voci, chiaro preludio ai Poemetti che sappiamo esser già in stesura. Il successo è molto modesto e pure la seconda edizione non porterà maggiori clamori.


POEMETTI DRAMATICI (1905): In carta a mano, stampato in rosso e in nero, illustrato da composizioni a intero formato e fregiato di testate e finali squisitamente stilizzati, legato in pergamena. Questa la presentazione che Treves allega alle sue uscite, soffermandosi con lecito orgoglio sul prezioso ricamo che contorna i testi. Graf può ora dar frutto letterario alle letture sacre di cui si è sempre accompagnato, chiamando a raccolta le figurue del Messia, dei profeti e molti altri soggetti. I modelli sono svariati: le Operette del beneamato Leopardi, i libretti di Pietro Trapassi, e l’opera magna del Rapisardi, Lucifero (1880) dove possiam discernere somiglianze nel tono e nell’impostazione (canto XII, per la precisione).
Ad ogni modo, sia per materia sia per i ricercati accostamenti di versi, trattasi d’un lavoro adatto a palati fini mentre indigesto ha modo di presentarsi al lettore occasionale.


LE RIME DELLA SELVA (1906) è l’opera che  garantisce al professore una certa fama postuma: in essa si condensa l’essenza delle sua poetica. Alla prima versione, rivisitata per il soddisfatissimo Treves, non si aggiungeranno che un pugno di liriche, alcune però assai estese.
Graf anticipa quelli che saranno a breve i cavalli di punta della “penna del Wessex” Thomas Hardy: l’invettiva ad un Tempo impietoso ed implacabile (Al Novo Giorno, L’Oriuolo a Cùculo) nonché il commento steso su un Allora rievocato (Quella Sera, Voce dal Passato).

Dove più, dove meno riuscita, molti passaggi dell'opera di Graf non hanno perso il loro lustro, e hanno ispirato a suo tempo non poche voci di lato rinnovatore oltre che crepuscolare. Non era comunque possibile che il Graf superasse anche quest’ultimo orizzonte, preda precoce, come aveva a definirsi, d’una “incresciosa vecchiezza”.
Non importa: un sincero desiro di ascolto risulta sufficiente per accoglierlo, ripagati, sugli scaffali di casa nostra. E in fondo, il professore, per come sappiamo ebbero a evolversi molti avanguardisti, sull’esempio di Mario Rapisardi suo idolo (il quale prese nel nuovo secolo a firmarsi classicista per rimarcare un’opposizione), avrebbe forse gradito non ispirarli.


Bibliografia minima

Arturo Graf, Le Poesie (Chiantore, Torino 1922)
Luigi Baldacci, Poeti Minori del’800



Fabio Cecchi è nato a Cesena nel 1991. Risiede a Igea Marina ed è studente universitario di ramo umanistico. Nella variegata sfera delle “attività in seconda” si alternano la composizione pianistica, il volontariato, il calcetto amatoriale, lettura e scrittura. Ignoto e convinto hardiologo (seguace della poetica di Thomas Hardy), nel vasto mar letterario si è sospinto in particolare sull’ottocento meno considerato (Guerrini, Prati, Graf, Cena…). Da questi e non solo attinge nella lenta formazione, tra slanci sociali e squarci intimisti, di un corpus poetico di - sempre relativo - valore.










Bando Inedito 2013



giovedì 13 dicembre 2012

Voci della poesia italiana, antologia (Sentieri Meridiani 2012)


Le antologie poetiche non dovrebbero mai avere la pretesa di fare scuola, o creare nuovi canoni, o "nuove generazioni". La poesia non si può inscatolare come un prodotto d'origine controllata, tentando di manipolare il suo "processo produttivo e di diffusione". Si vorrebbe piegare la poesia a piccoli interessi clientelari, al management di tristissimi direttori artistici, alle vanità di questo o quel critico, al baronato di questo o quel editore. Ma la verità è che la poesia vive di vita propria, libera, e non tollera di essere inscatolata, di essere gestita e monopolizzata. Come i cervi, fieri padroni dei boschi, la poesia muore appena viene “recintata”, “allevata”.
La poesia vive di vita propria, nei pensieri e nelle azioni quotidiane di chi la porta nel cuore.
Con queste premesse mi sento di dire che, a mio modesto parere, le uniche antologie poetiche valide sono quelle che non hanno pretese definitorie, ma che riescono con schiettezza e umiltà a parlare di nient'altro che di sé stesse. Le uniche valide sono quelle propongono, non im-pongono. Non è una questione semplicistica, come può sembrare. Perché dietro ogni rigida definizione, dietro ogni selezione (apparentemente) di merito, si cela sempre una ragione clientelare.
Sentieri Meridiani propone con umiltà una scelta (non la scelta) di autori contemporanei. Propone ai lettori la sua esperienza di vita culturale ed editoriale. Il titolo dell'antologia, dal tono generico e affatto definitorio (Voci della poesia italiana), introduce alcune esperienze poetiche di autori diversissimi per età e formazione. Sentieri Meridiani propone così una tavolozza di colori - i colori del suo mondo - senza pretesa di fare-mondo, fare-scena, fare-canone, fare-combriccola, ma con il solo proposito di fare poesia.
Riccardo Raimondo


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Dodici voci poetiche che provengono da due generazioni contigue (quelle dei nati negli anni Settanta e negli anni Ottanta) a cui è toccato in sorte di soffrire e testimoniare un tempo di delusioni e precarietà. Dodici voci molto diverse, che trascorrono dalla preghiera all’indagine psichica, dalla sentenziosità alla teoresi, dalla tenerezza alla lirica, dalla politica al postmodernismo, dal realismo al mito, dalla corporalità allo sperimentalismo. Dodici voci che parlano da diverse contrade italiane, quelle di nascita oppure quelle raggiunte cercando lavoro o cercando se stesse. Dopo cinque anni di vita, la collana “Le diomedee” propone una sorta di bilancio (quasi tutti gli autori, infatti, hanno pubblicato le loro raccolte in questa collezione, altri forse lo faranno), un ventaglio delle mille strade che la scrittura in versi può ancora percorrere nella quotidiana e sciatta prosa della vita. In un tempo in cui i poeti cedono all’individualismo e si ripiegano sul piccolo rettangolo di una tastiera, è un buon segno che si cerchi ancora di uscire dal guscio, di mettere la testa fuori per vedere che tempo fa. È così che, nonostante la varietà dei temi e degli stili, il lettore troverà fra le pagine di questa silloge la magia di un incontro di cuori e intelligenze che si ritrovano a scambiarsi le scoperte, le parole, le ragioni. Le irragionevoli ragioni della poesia.
Daniele Maria Pegorari
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