domenica 24 febbraio 2013

Su Il fico sulla fortezza di Claudio Damiani

FaziEditore, 2012 

recensione di Dante Maffia
 
Enzo Siciliano, parlando della poesia di Claudio Damiani, ha usato la parola “solfeggio” e credo che abbia colto in pienezza il fare di questo poeta che incentra il suo dettato sulla leggerezza, sui minimi sussulti del senso, sulle annotazioni che sembrano marginali e che spesso, invece, risultano essenziali se non capitali nell’economia del discorso poetico. Mi verrebbe da dire che il solfeggiare di Damiani ha la magia di saper cogliere le valenze nascoste della realtà.
Il libro è diviso in otto sezioni ognuna delle quali affronta specificamente un argomento, ma mi pare che il tutto si riannodi costantemente al camminare pacato e dolce, a un viaggio in qualche modo che vuole essere tragitto che porta verso le origini, dove poi vita e morte si ricongiungono.
Damiani comunque non si affanna a raccogliere i cocci rimasti per strada, va avanti serenamente e trova l’accento preciso e deciso che lo arresta, che lo corteggia, che gli ricorda d’esserci stato e d’esserci ancora, e proprio grazie alla immediatezza degli incontri, a quell’assaggio che si fa toccata e fuga. Così ogni immagine, di paesaggio, di persone, di animali, viene colta in una essenza quasi stilizzata che resta un bianco e nero deciso e comunque non privo di carezzevoli e mutevoli risonanze. C’è in lui una forza strana e quasi inavvertita, quella della semplicità assoluta, che riesce a fermare le concatenazioni degli eventi per un attimo in modo che la “fotografia” si possa stagliare in un dimensione che possa vivere di se stessa.
Certo, questo modo di procedere annotando ciò che si dipana dinanzi ai suoi occhi e al suo cuore presuppone la saggezza, ma non quella irritante e sussiegosa, piuttosto quella che invita, quella che apre il ventaglio della scelta. Così Damiani diventa proprio quel tappeto verde di cui parla nel libro, quel prato brucato dai cavalli e da lui stesso in modo che poi altra erba si rigeneri e cresca fresca e odorosa.
A volte un lettore sprovveduto può restare sorpreso dalla “ingenuità” di questa poesia che sembra scivolare rettilinea e graziosa come dentro una giostra per bambini, ma se poi si sofferma su ciò che Damiani offre si rende conto che si tratta di guizzi di luce colti nel fulgore più dolce e ammaliante, nel concepimento di incontri essenziali per la conservazione della dignità umana. Il poeta non forza nulla e non fa rincorse affannose, non accende falsi lumi e non carica di significati densi i versi neppure quando parla della morte, affida i suoi messaggi alle cose in sé ed è perciò che il fico sulla fortezza, i cavalli, i pappagalli, la “Cara Luna” e la “Cara poesia”, il Grìgolo, lo Schiopparello, Paprika e tutto ciò che ruota nel fiato del poeta diventano emblemi di una castità sognata e vissuta  come gaudio e come esempio da trasmettere per non coprire il mondo di stracci e farlo invece restare indenne, solare, aperto al sorriso.
Poesia dunque intrisa di grazia umana, di cielo sereno, di lingua che sa dire ancora pane al pane e vino al vino. Poesia, come scrive Emanuele Trevi nel risvolto di copertina, che “oltre il piacere del testo… offre una terapia sottile ed efficace come solo sanno essere i consigli di chi è capace di curare se stesso, e non smette mai di farlo”.


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