lunedì 18 febbraio 2013

Tra terra e cielo: la poesia di Antonietta Gnerre

 
Restauri di solitudine. Un aspetto umano, troppo umano che si completa poi nell’afflato con la natura
di Enzo Rega - Lun, 28/01/2013 - 11:32
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Raffaele Della Fera
 
Fiori di vetro. Restauri di solitudine è il titolo di una precedente raccolta di Antonietta Gnerre (Fara Editore, Sant’Arcangelo di Romagna, Rimini 2007), ma è un’utile cifra per introdurre alla sua più recente plaquette intitolata Pigmenti (Edizioni L’Arca Felice, Salerno 2010).
Il titolo precedente dà l’idea infatti di una “fragilità” che non è debolezza ma “delicatezza” (quello che alcuni dizionari danno come infatti primo sinonimo), che è la caratteristica e del contenuto e della scrittura di questa poesia. Alessandro Ramberti, introducendo quella precedente raccolta, parlava infatti di haiku. E si può aggiungere che haiku erano “nascosti” anche in testi lunghi, nel senso che se ne potevano estrarre lacerti che avessero queste caratteristiche, e il testo stesso nell’insieme appariva come una collana di haiku.
 
Aspetti che senza dubbio ritroviamo anche in Pigmenti, ma con un irrobustimento nel dettato pur nella delicatezza (delicatezza ribadita anche nel comunicato che accompagna questa plaquette, comunicato anonimo ma attribuibile a Mario Fresa che dirige la collana de L’Arca Felice), una densità ulteriore che si fa icasticità. Citiamo, per ridare anche questo soffio delicato d’oriente: “la tua lacrima / avvolge gli ikebana / che dormono”.
  
Anche il sottotitolo del volume precedente può essere utile come sottotraccia per la lettura di questi nuovi versi: restauri di solitudine, ricordiamo. Cioè un’atmosfera intimista e di auto-interrogazione. Leggiamo infatti in Pigmenti: “Nel camminare mi guardo / dentro”. Ma il viaggio della vita, questo cammino pur personale, non è autoreferenziale. Il “restauro di solitudine” può anche intendersi, ambiguamente, come “restauro dalla solitudine” e quindi come apertura, ri-apertura all’altro: “Dall’aria di un sogno / viaggio in treno / sulla ferrovia / delle tue mani”. Il riferimento al sogno dà poi anche l’idea del carattere talvolta visionario di questa poesia. Un carattere visionario che non è astrazione (nel senso anche concettuale, filosofico) da questo mondo: “Eppure, sento, che non hanno riparo / queste mie pene. Nascono dalla / tua materia, per restare sul rigo / di un grande motore umano. / La mia carne”.
  
Un aspetto umano, troppo umano che si completa poi nell’afflato con la natura. Già la Poesia viene qui definita come “Un pensiero / che unisce / la mia voce / sul colore di una / foglia”, in una sintetica dichiarazione di poetica.
  
Natura intesa cosmicamente come universo, in una mistica unione con Dio (“c’era Dio nella goccia che accarezzava il tuo viso”): laddove il Dio del monoteismo del quale Antonietta si è occupata anche come studiosa, oltre che come credente, non è in contrasto con una qualche forma di panteismo, se poi anche per il cristianesimo Dio è in ogni luogo. Ma natura anche come luogo e luoghi geograficamente determinati, laddove però micro e macrocosmo pure si fondono: “Irpinia, mia sventura e mia sopravvivenza / terra del mio sangue, verde e cosmica / infinita fino a schiacciarmi”; così come nella raccolta precedente una poesia era dedicata a Prata, cioè a Prata di Principato Ultra, per l’appunto in Irpinia: “Prata ti porto nel cuore nel grano delle danze / future col diadema della mia alba percorro / i perimetri le cupole dei tuoi rami con l’illusione / d’amarti solo io”.
  
La terra è dunque la madre-terra, e alla madre è dedicata l’ultima poesia qui raccolta, un recupero memoriale del Natale da sottrarre alle “cianfrusaglie dell’apparenza”, e in Fiori di vetro, a suggellare più in profondità, e più a ritroso nei tempi, il legame con questa terra, compare anche la nonna, la Grande Madre come si direbbe in altre lingue, alla quale dice: “Oggi sei la sentinella che ci accompagna / nella terra della fede con i piedi fasciati / dalle tue preghiere ascoltiamo i messaggi dell’amore”. Le poesie dedicate più direttamente alla propria terra, alla natura nella sua concretezza, e alle madri da cui ventri si discende, si dilatano oltre le forme dell’haiku, espandendosi in versi più lunghi e numerosi, come se lo spirito volesse poi farsi carne e in essa, attraverso essa, riconoscersi. Che è il mistero cristiano nel quale profondamente Antonietta crede senza chiusure confessionali ma nella tensione di un discorso interreligioso e interculturale. Che significa poi sentirsi tutti rami di un unico albero, immagine fondamentale in questa poesia: e la riproduzione di un olio di Raffaele Della Fera, raffigurante un nodoso albero che sorge da un mosso mare d’erbe (che ha qualcosa – pur spoglio e diverso per realizzazione, del Pino nei pressi di Aix di Cezanne), accompagna questa plaquette coloristicamente, e essenzialmente, intitolata Pigmenti.
  
Ma qui mi taccio per non incrinare, con le parole spurie della critica, il nitore cristallino di questi versi di vetro.

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