giovedì 23 maggio 2013

Sulla nuova raccolta di Angela Caccia

Nel fruscio feroce degli ulivi, FaraEditore, 2013 


recensione di Vincenzo D'Alessio


La raccolta di poesie di Angela Caccia reca il titolo Nel fruscio feroce degli ulivi e costituisce la novantanovesima prova contenuta nel ciclo evolutivo della collana Sia cosa che presso la Casa Editrice Fara di Rimini.  
L’ossimoro “fruscio feroce” utilizzato dalla poetessa richiama immediatamente il difficile percorso che l’Uomo Gesù, nell’orto del Getsemani, affrontò nell’ora più cupa della prova: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice, però non la mia ma la tua volontà sia fatta!” Il suo sudore divenne come gocce di sangue che cadevano in terra.» (Luca 22,18-52)
La similitudine che annuncia il prodigio del sudore divenuto sangue, nell’evangelista Luca, prende corpo nella poesia della Nostra Atto d
accusa nei versi che seguono: “racconto / e mi racconto / quasi pregassi un dio / che non si commuove” (pag. 26). L’intera raccolta poetica, in modi diversi, vibra di tanatologia: incontro inevitabile, al quale neanche la parola, la Poesia, riesce a fornire “il centro”: “(…) ma ogni geometria / rapina il sogno / e un nuovo scritto / è l’ennesima farfalla / infilzata al foglio” (ivi, pag. 26).
L’Orto degli ulivi accoglie nel momento del massimo dolore terreno, per chi ha Fede, il Salvatore del genere umano, l’Agnello che indicherà la strada verso “lo spicchio di cielo” (pag. 83). Intanto la radice “da questa terra amara” (ivi) lega ognuno di noi, nel corpo, al dolore possente del passaggio “la chiamano sorella / di fatto è linea di confine” (pag. 87). Un paradosso veramente feroce, tanto che nella poesia Autobiografia implode forte la voce poetica a chiedere risposte: “È campo di battaglia il foglio / se cerco di dare il nome a un dolore / implode / s’appanna la parola / dalla gola sputo il verso (pag. 22).
Meditazione, accelerazione dalla periferia al centro, contraddizioni nella normalità caduca raccontata a se stessi, nell’inquietudine naturale della continua ricerca: “ (…) dentro, una terra apolide e / ventosa come tante / s’azzuffano / incertezze.” (pag. 22). Si scrive per superare “il magnete” che attira al passato e al paesello natio. Ritorni che fermano momentaneamente il tempo (kairós) alla ricerca di un centro stabile nella solitudine che permetta di superare la macina del pensiero che strugge: “Nel tempo ti riconoscerò / tenerezza / vissuta e poi perduta / per anni sofferta / invano cercata / e forse ritrovata / quando ormai non sanguini più” (pag. 68). 

Le poesie di questa raccolta seguono un dettato ritmico alterno. Utilizzano l’enjambement per dare vigore al racconto poetico. Non interrompono il dialogo interiore che chiede con forza all’albero della Pace, per antonomasia, di staccarsi dalle radici terrene e piantarsi in quello spicchio infinito di cielo: capovolgere la realtà. Vengono alla mente durante la lettura, per analogia, i versi della poesia X Agosto di Giovanni Pascoli: “E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, / oh! d’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del Male!”. Ma mentre in questa composizione il poeta dice: “io lo so ” nel primo verso, alimentando la sua fede nella Giustizia celeste, nei versi della poesia Incipit  Angela Caccia scrive: “Muore, e fino all’ultimo è spazio e tempo e sogno / muore perché non è più racconto. / Resta una traccia, forse un sentiero / è solo un dubbio!” (pag. 13). “Il fodero”, come difesa dalla lama ineluttabile della Morte, è nella nascita: l’incipit di altre storie, vittoria come nel sepolcro vuoto dove era deposto Gesù, l’unico risorto nella storia della Fede cristiana.
“Nasciamo nella penombra di una grotta”, così inizia il racconto poetico della Nostra srotolando gli episodi personali, i drammi, le esperienze, gli affetti, lungo la linea diseguale di un mare profondo e invitante all’abbandono. Sono versi che invitano il lettore a calcare i passi lungo la battigia, le orme che si sottraggono all’egemonia distruttiva dell’onda. Lo indicano le parole introduttive del poeta Davide Rondoni: “Lei sa anche per esperienza di impegno personale che la poesia non è un bene privato. E di certo il mettere in comune la poesia non ha come scopo la fornitura di sogni o di tavor. La poesia non è un tranquillizzante. E dunque pensare e ripensare poeticamente significa accettare di abitare la fertile inquietudine” (pag. 9).

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