lunedì 19 maggio 2014

Su Il sogno breve di Gabriella Bianchi

silloge inserita in Faraexcelsior 2013, a cura di A. Ramberti 

recensione di Vincenzo D'Alessio
 

La raccolta poetica “Il sogno breve” di Gabriella Bianchi, vincitrice del concorso Faraexcelsior 2013 indetto dalla casa editrice Fara di Rimini e inclusa nella bella antologia uscita per gli stessi tipi a ottobre, aggiunge al racconto della vita una nuova tessera. L’amore desiderato, condiviso fisicamente, concluso con la perdita improvvisa dell’amato. Un sogno durato troppo poco. Il viaggio dall’oasi del conosciuto al deserto della solitudine interiore. L’arsura dell’incamminarsi in luoghi senza più l’identità che l’amore sapeva trasmettere. La quotidianità è la frequentazione dei Grandi Magazzini tempio della sopravvivenza, come scrive la Bianchi, dove gli uomini si affaticano a cercare una felicità delle cose, sovente dell’inutile.
Gli eventi naturali, invece, richiamano bruscamente il superstite a confrontarsi con l’assente, il gelo della sofferenza non condivisibile con la fretta delle immagini, dei suoni, del racconto quotidiano delle vicende del mondo. Il mondo degli uomini di oggi non avverte la sofferenza della scomparsa dei propri simili perché volutamente isolata dietro grandi finestre di vetro, dentro asettiche stanze bianche, dentro luoghi chiamati house hospital cancer. Formule irriducibili dell’egoismo umano per allontanare dallo sguardo comune il senso vero della sofferenza. Il tempo che viviamo è fatto soltanto per la ricerca della felicità:

“Un branco di avvoltoi / si divide le tue vesti e il denaro / le case e le macchine e gli ori / la tua collezione di quadri. / Si è alzato un vortice di vento / che tutto disperde.” (pag. 86)

La poeta invece rivive dall’inizio alla fine della raccolta quella fede nel sogno della vera felicità fatta di perfetto amore nascosto, di fedeltà nel sentimento vissuto, dell’immergersi nella Natura che circonda verificandone intensamente i segni nelle stagioni, nei cambiamenti:

“Ero un’aquilegia cerulea / quando ti conobbi / e ti donai l’anima, / quel mio gioiello di materia celeste / inciso al bulino di sconfitte / cruente.” (pag. 84)

L’intensità personale della raccolta evoca alla mente la triste sorte del poeta Catullo, dell’amore sofferto per Lesbia, dell’evoluzione ingannevole che l’esistenza prepara all’ anima sensibile rivolta alla fedeltà come pegno perenne. Un sogno breve che si stempera di fronte alla violenza degli eventi sociali. Nel caso della Bianchi il volo breve che si infrange con il buio del fine vita.

Anche la Nostra realizza una poesia in latino dove la paratassi lega i versi dedicati all’amato scomparso:

(…) Abige tristitiam atque / gravitatem mentis, / curas dimitte. / Tecum reputa me amantem.” (pag. 87)

La forza e l’originalità della presente raccolta poggia sul lungo dialogo con l’amato perduto, con il muro d’ombre invalicabile che neanche il canto della Poesia può infrangere ma può mitigare nell’attesa che quel sogno si riveli in altra dimensione:

“(…) ma sognami, angelo mio, / perché il sogno è l’unico ponte / tra i nostri mondi.” (pag. 87)

“Se è carnale anche il soprannaturale / perché non pensare d’incontrati, / perché non pensare di stringerti / fino a togliermi il respiro / fosse anche per un’ora?” (pag.92)

L’intensità dell’esperienza vissuta trapela in ogni verso, segue una musicalità antica come il canto di Orfeo per Euridice. Ma gli Inferi non permettono alle anime il ritorno tra i vivi se non in sogno. Il sogno che rende pazzi mentre viviamo e che asseconda il viaggio per sollevare dalla fatica, e dall’angoscia, della polvere che su di noi si posa piano :

“(…) Altro non ho che un’ustione dell’anima / e un corpo sofferente non più mio / che gira a vuoto senza mappe.” (pag. 93)

La poesia è consolatoria per il superstite ponendo il limite che è il visibile. Gli occhi ci ingannano, vorremmo vedere l’oltre, riavere quello che abbiamo perduto:

“Ho letto nello Zohar / che il visibile altro non è / che il riflesso dell’invisibile./ (…) Ma perché non ti vedo? / Perché non mi cerchi?” (pag. 93)

Il quotidiano si infrange. Gli oggetti carichi delle energie viventi diventano freddi. I fenomeni naturali divengono contrari ai desideri del superstite. Il verso aiuta la poeta e il racconto riprende fino all’estrema consolazione, sua e nostra, perché finito il sogno riacquistiamo la certezza del viaggio:

“(…) Quando sarà l’ora, ti aspetto qui / alla deriva dell’inverno. / Non mancare. / Ho necessità della tua mano / per oltrepassare il fiume oscuro / che mi ricondurrà da te / per sempre.” (pag. 96)

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