martedì 14 ottobre 2014

Su Quaderno di frontiera di Gabriella Bianchi

recensione di Renzo Montagnoli pubblicata in Arteinsieme.net


Quando la Poesia è Arte 

Quaderno di frontiera è l’opera vincitrice assoluta del Concorso Faraexcelsior 2014 organizzato dalla casa editrice Fara di Rimini che si occupa prevalentemente della pubblicazione di opere di poesia. Premetto che spesso sono scettico sulla validità dei testi premiati in questi concorsi, perché troppe volte mi sono trovato in deciso contrasto con le valutazione della giuria, ma in questo caso, pur non conoscendo i lavori degli altri partecipanti, sono rimasto piacevolmente colpito dalla qualità complessiva di questa silloge. In verità le qualità sono più d’una e, prima fra tutte, fatto inconsueto, la straordinaria comprensibilità, frutto di una capacità non comune di tradurre in versi stati emozionali o riflessioni non certo facili. Secondo me questa è la strada che dovrebbe percorrere oggi la poesia, per poter essere apprezzata dai più e infine anche per perpetuarne l’autentica e originaria natura, che nel tempo e soprattutto negli ultimi anni si è svilita in composizioni prosastiche, sovente incomprensibili e che comunque rendono difficoltoso, se non addirittura impossibile, l’approccio del lettore. Che c’è di meglio di versi piani e scorrevoli in una struttura equilibrata e armonica per invogliare chi legge a fare proprio il messaggio del testo? Direi che in questo Gabriella Bianchi ci è riuscita (da Alla madre scomparsa: (Al di là degli elementi consueti / in quale treno sei / in quale traghetto o transatlantico / in quale aereo diretto dove? /…). L’eterna ricerca di un “dopo” è ben espressa, in un senso di solitudine che è proprio di chi ha perso un proprio caro, e nel caso specifico la mamma, che fra tutte e tutti è la più cara.
Le tematiche affrontate sono molteplici e spesso possono celarsi sotto versi che magari introducono a una stagione, come in Cerimoniale d’autunno (…/ L’aria profuma di mele rosse, / ma sui panni stesi ad asciugare / il vento lascia lacrime / di genti lontane / sopraffatte dalla sete. / Di loro non resta traccia.) Poesia questa di impegno civile, sofferta e anche lancinante nella chiusa, dove è possibile intendere quel “Di loro non resta traccia” come un qualcosa di talmente lontano di cui la gente non si accorge. Vediamo il dolore che ci tocca da vicino, ma già un metro più in là non ce ne accorgiamo e quindi è ovvio immaginare che i derelitti del pianeta si consumino nel più grave dei nostri peccati: l’indifferenza.
È impossibile parlare di tutte queste belle poesie, ma di una, che rientra nel mio sentire in modo spiccato, ritengo sia giusto dire un po’ più di due parole;  è quella che è mi piaciuta di più, non voglio dire che è la più bella, perché, mi ripeto, sono tutte belle, ma il ricordo di un tempo più a misura d’uomo, contrapposto all’attuale frenesia, è troppo importante per licenziarla magari solo con una frasettina. Ed è per questo che intendo assaporarla, suggere come un nettare ogni verso.
Gabriella Bianchi scrive:

Nella mia infanzia c’era solo il treno 
e qualche bicicletta arrugginita.
In due soli versi il ritratto di un’epoca, di un’Italia martoriata dalla guerra che faticosamente cercava di tornare a vivere. 

Percorrevo sentieri tra gli arbusti
colmi di sputi d’insetti misteriosi. 
Per i bambini, per quelli poveri, ed erano quasi tutti poveri, i giocattoli erano spesso un miraggio, ma in cambio c’era una natura incontaminata da esplorare.

Le auto in città o sulla via maestra
erano poche. Intorno
era tutto selvatico,
poco o niente si era mosso nelle case
e nei meandri del pensiero umano.
C’era come un tempo fermo, ripetitivo, in un’atmosfera rallentata.

La levatrice interrompeva la quiete 
quando spuntava con la sua Lambretta
anche di notte. 
Il resto
era un’isola perduta nel folto 
dai cui spiragli si vedeva la città, 
ma la città non vedeva noi 
e questo ci salvava.
Sì, la nuova era cominciava dalla città, in cui la vita era diversa e non guardava mai alla campagna, considerata quasi un accessorio di poco conto; era ancora lontana l’epoca della folle cementificazione, dei centri urbani che con i loro tentacoli soffocheranno la campagna.

Restavamo innocenti a giocare 
sulla strada 
tra il fiato delle cantine 
e un forte odore di trinciato. 
L’aria pungeva lieve
di clorofilla.
L’innocenza non era solo dei bambini, ma di una civiltà, prossima a essere soppiantata, che non conosceva il mito del denaro per il denaro, che si accontentava di quel poco che c’era e poteva inspirare l’aria profumata dei prati, non quei gas venefici che oggi ammorbano e ammalano. Una volta si andava in campagna perché l’aria era più salubre; oggi non è più possibile, perché concimi e anticrittogamici hanno intossicato prima i polmoni e poi il cervello. Era un’epoca dell’innocenza, una sorta di Arcadia di cui ormai pochi possono serbare il ricordo.

Leggete questa silloge, perché così leggerete la Poesia, quella con la P maiuscola, quella che scende fino al cuore e rasserena, quella che, quando è così, è Arte.


Gabriella Bianchi è nata e vive a Perugia.
Ha pubblicato sei volumi di poesie: L’etrusca prigioniera 1984, Canzoniere 1990, Giardino d’inverno 2005, Cartoline da Itaca 2005, Il paradiso degli esuli 2009, Il cielo di Itaca 2011. È presente in varie antologie nazionali. Ha vinto alcuni primi premi. La sua silloge Il sogno breve è inserita nell’antologia Faraexcelsior 2013. Hanno parlato della sua poesia: Mario Luzi, Valerio Magrelli, Davide Rondoni, Maurizio Cucchi, Vincenzo D’Alessio (“L’intensità dell’esperienza vissuta trapela in ogni verso, segue una musicalità antica come il canto di Orfeo per Euridice.”).

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