venerdì 28 novembre 2014

Su Sotto il sole (sopra il cielo) di Alessandro Ramberti

Fara Editore, Rimini, 2012, € 11,00

recensione di Elio Andriuoli


Una poesia illuminata dalla Fede è quella di Alessandro Ramberti, quale appare da questo libro Sotto il sole (sopra il cielo), apparso nel 2012 presso la Fara Editrice di Rimini. La raccolta, che reca la postfazione di Anna Ruotolo e i disegni di Francesco Ramberti (v. a lato il profeta Elia), si contraddistingue infatti per la sete del divino che tutta la permea, perseguito, attraverso un’assidua ricerca, con acutezza di sguardo.
Nella prima parte del libro, “Firmamento”, troviamo ad apertura di libro alcune brevi poesie che recano sovente la traduzione in lingua cinese, fatta dal reverendo don Pietro Cui Xingang, coordinatore nazionale della Comunità Cattolica Cinese.
Sono, queste, poesie di carattere gnomico, frutto di assidue meditazioni, che illuminano la mente con le loro improvvise scoperte, quali: “L’ecologia dell’umano / ha il fascino del chiedere” (Avventura); “Ogni sguardo fomenta la memoria” (Abbà); “La forza ha il fascino del tempo / come la bellezza” (Tensioni terrestri); “I nostri impulsi / promulgano arcobaleni” (Vespri); ecc.
Talvolta il testo di Ramberti insegue un più complesso pensiero, come avviene in Umanità 2012, sicché il periodo assume più ampie dimensioni: “Se la geometria del mondo non / fa quadrato sulla linea della speranza / né ricerca la diagonale della carità / decade e annichilisce”. Ci sono inoltre in questo libro dei veri e propri Haiku, come questo che riportiamo: “La freccia arriva / l’agosto è terminato / c’è un’ombra a filo”.
Colpiscono poi certe poesie per l’intima carica di umanità che le pervade, come Esposta, nella quale in pochi versi è espresso il dramma di una trovatella: “L’hanno trovata fra le pecore / poche ore di vita e un biglietto // una scrittura incerta / l’affidava – un belato diverso / nel prato – a un futuro per sempre”. Si legga anche la poesia 8 dicembre 1937, che rievoca la figura di un dissidente, Pavel Aleksandrovič Florenskij: “I fucilieri ti hanno silenziato – / adesso sei nel vento che non soffia”.
Ciò che però trova qui maggiore spazio è l’assidua ricerca del divino, che compare in poesie quali L’effetto del giglio, che così inizia: “Chi posso riconoscere / se non Te di cui mi è giunto / il parabolico racconto / di come hai scelto di dietro al gregge / i tuoi increduli profeti?” o Betlemme, dove troviamo questi versi: “Accompagnaci col tuo braccio potente / lungo questo esodo ululante: / un tuo soffio e il mare / si prosciuga, un gesto / e le onde affoganti si placano”.
Frequentemente compaiono poi in questo libro dei personaggi biblici, evocati con immediatezza e verità, come Elia, in un testo che inizia: “Sei il soffio che manca / Quello che si insinua / impercettibile” (Nei panni di Elia) o Giacobbe, in una poesia, Conversione, che così termina: “Va’ sulla scala di Giacobbe / anche se ne resterai sciancato: / vedrai che nervi e muscoli / li anima / uno spirito più grande”.
Vivo s’incontra in Purgatorio il sentimento della brevità della vita: “I nomi qui sono sordi / i sogni nuovi / trasparenti // ti trovi e già non sei / più sotto / la corte improvvisa delle stelle”; come viva è la deprecazione dell’egoismo e della follia umane in Mangiati: “La quadratura sfuoca / gli abiti riposano / le guerre allignano / labbra avide / i potenti gonfiano / flaccide bolle finanziarie”; e ancora: “Siamo individui / precari con mete ad alzo zero / senza fibbia a chiudere / ma solo a consumare”.
Si veda anche, a questo proposito, Notte senza fine, che fa leva sulla nostra precarietà: “Siamo strumenti che a fatica risuonano / dov’è il riflesso? dove il fondale / e la bellissima rada senza sirene? // Nei computer depositiamo / il filo cedevole del cuore”.
C’è pure in queste poesie la parola sommessa, detta a chi ci vive accanto: “Mi affido a voi sorelle / che sapete accorrere ai sepolcri, / a voi fratelli / che potete aprirli” (Ai margini del sacro); così come ci sono le visioni pacificate e rasserenanti del mondo esterno: “La cima dell’E Mei sul verde numinoso / è tempio abbacinato dalle nubi // Istanbul al tramonto è magnifica / se navighi lento sul Bosforo: / due continenti e una fessura di mare” (Istantanee).

Notevoli, per ampiezza di respiro e per la profondità del pensiero appaiono poi poesie come Al pozzo di Sicar e Aut aut, dedicata a Søren Kierkegaard.

Il libro termina con “Rabbunì”, un Oratorio per voci sole (Maria Maddalena e il Narratore) cui si aggiunge il Coro di voci miste, maschili e femminili, che si alternano nella recita.
Apre la scena il Coro, che fa alcune considerazioni sulla precarietà del nostro essere al mondo (“Crediamo di esser qui – anzi di esistere… / bagliori trattenuti…”). Si fa successivamente avanti il Narratore, che evoca la Figura di Cristo (“Hai accecato il buio e ci hai aperto / la via che è porta e vita”), cui fa seguito Maria Maddalena, che ricorda, quasi parlando a Giuda, l’orto degli ulivi e la solitudine di Gesù, prima della cattura (“Giuda, hai voltato le spalle alla Pasqua”).
Vivace diviene qui l’alternarsi delle voci e drammatico si fa il racconto del Narratore e quello di Maria, nelle cui parole è rivissuto l’evento della cattura di Gesù, cui fanno seguito la condanna, la morte e la Resurrezione.
L’intensa partecipazione al dramma della Passione, efficacemente rivissuto nelle sue varie fasi, caratterizza questo Oratorio, che si sviluppa con coerenza e sapienza tecnica, le quali degnamente concludono un libro che molto fa meditare.

giovedì 27 novembre 2014

Rosana Crispim da Costa nel “Podio del critico” di Daniela Mena nel Corriere della Sera


http://www.faraeditore.it/html/collane/terremerse/il_mio_corpo_traduce.html

Nel supplemento La Lettura del Corriere della Sera in data 23-11-14 è stato pubblicato il “Podio del titolo” a cura di Daniela Mena che ha assegnato la medaglia di bronzo alla raccolta poetica con portoghese a fronte Il mio corpo traduce molte lingue di Rosana Crispim da Costa. Vivissimi complimenti all'Autrice!



martedì 25 novembre 2014

Su Legni di Paolo Pistoletti

Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2014 


recensione di Germana Duca Ruggeri


http://www.ladolfieditore.it/index.php/it/perle/perle-poesia/legni.htmlDell’incontro con Paolo Pistoletti, avvenuto a Fonte Avellana nel solstizio d’estate 2014 (nell’ambito di Dove sta andando il mio italiano?, tema di una kermesse promossa da Alessandro Ramberti) mi è rimasto il ricordo di un giovane profondo, mite, sommesso, che introduce e legge alcune poesie tratte da Legni, sua raccolta di esordio. E mi è rimasto il libro – elegante, sobrio, prefato da Marco Beck – ricevuto in dono al congedo: una cinquantina di testi, coinvolgenti come il titolo che li lega. Nella sua asciuttezza, esso nasconde un albero semantico, da cui diramano memorie, immagini, meditazioni, verità. Legni-mobili, certo; ma anche legni a pezzi su una catena di montaggio, simile a quella che trasporta noi umani nella selva, fino alla sortita. Quasi una visione anticipata del testo eponimo che racconta il ricovero del poeta a Careggi, reparto rianimazione: «dove a un certo punto uno non è più niente / tutto lì nel mentre, tanto che a sorpresa / non avendo più materia, si smette di tremare / senza cassa senza risonanza / la mancanza ricompone tutto / porta a zero la distanza […] e allora si esce. / In corsia si dice che un giro / moltiplicato per sempre sia l’eternità.»
Parole semplici, immagini minime. Per Paolo uscire significa mettersi in guardia, iniziare un rapporto costantemente aperto con il giorno e la notte, gli umori del cielo, lo stato delle persone vicine e lontane (rom e migranti compresi), l’evidenza delle cose, il vuoto delle strade. Ecco allora lo spazio, una stanza dietro la soglia della silloge: «la luce accesa / di là dietro il bancone della cucina»; con il poeta vivono Silvia, la sposa, e Maria, la loro bimba «sguardo da lupo». A seguire, altre stanze: quelle dei propri genitori, l’appartamento sfitto al piano di sotto, il pub, l’ufficio, la rete… Pochi passi e c’è il tempo che vola via svelto dal polso, c’è un asciugarsi di legni che ci somiglia; c’è il padre Boris, scomparso all’improvviso, cresciuto come un bosco.
Da lui scaturiscono immagini e pensieri, i quali, intrecciati alla forza delle cose che lo evocano, danno il ritmo a una lingua essenziale, benché prosastica, con versi spesso ipermetri, tratta dalla vita vissuta: «Di sera stavamo dentro al focolare io e mio padre / a guardare il fuoco come due api il loro alveare. […] Per la nuova stagione che arriva sempre / con la legna verde, di fumo eravamo / nel fumo siamo tornati con la cera / buona lasciata sui legni di casa». Interni domestici, ma anche visioni aperte; come questa, marina: «E laggiù oltre il blu mio padre / che con la schiuma sui capelli / è l’onda più grande che c’è». Il tempo in Pistoletti è il come e il quando (si noti la frequenza di tali espressioni nei testi), l’inquadratura del reale che si fa immagine da tramutare in poesia: “un esercizio - egli ha affermato a Fonte Avellana - da riprendere di continuo, una ascesi”. Tale esercizio - che, pari al libro, si direbbe dedicato “al ritorno a casa già iniziato “ - ora sfoglia la vita come un calendario, ora la rovescia come una clessidra, per una durata che, nonostante le apparenze, è uguale per tutti; e molto più della legge ci accomuna.
L’autore, nel montaggio di Legni, ha alternato vuoti e pieni, dentro e fuori, statica e dinamica, quasi stanze e finestre, vetri e vetrine, ascensore, garage e automobile fossero protesi del suo corpo e dei suoi sensi, tra il già e il non ancora. In questo mi sembra di ravvisare un quid montaliano che, mentre rinvia al “varco”, chiama in causa il “consueto inganno” di certe nostre percezioni, come accade in Forse un mattino andando. Paolo Pistoletti attualizza l’intuizione di Montale e la sviluppa in tre poesie – Pensare, Campagna, Campo – collegate da ordinari spostamenti in automobile e dall’osservazione del reale mediata dallo specchietto retrovisore, nella varianza degli approdi. Da Pensare: «Ecco è tutto qui il mio pensare, / come in auto quando dallo specchietto / alle spalle vedi che passa dietro / la strada, e allora senti che a reggerti sulla schiena / è tutto quello scorrere / quel grande fiume di asfalto / e mondo che ti porta / dritto a casa / fin dentro al garage.»
In Campagna cambia lo sfondo, si rovescia la scena: «sul vetro s’affollano gocce / che salgono su dalla strada / come una mandria fosca che poi passa / nello specchietto proprio dove due curve fa / stava più storto un ulivo / come un crampo che non molla / la presa poco diversa dalla nostra storia / che dentro ci afferra come quando / dallo sportello ci tirano fuori per la giacca / e ci tengono in pugno per il bavero. E allora / appoggiati alle fiancate stiamo sempre ad aspettare / poi chissà quali urti chissà quali risarcimenti.»
Ancora più ampie e analitiche le dinamiche cognitive delineate in Campo: «quando manca un gesto / che scosti l’abbaglio del mondo / dallo specchietto quel grande scorrere / che non torna fino a qua. […] mentre adesso che siamo in marcia / c’è sempre questo suono che sale / dal serbatoio quasi vuoto che si direbbe un amen /una eco capovolta del nostro frinire di cicale.» 

Ma è nella poesia per il vecchio maestro M.S. che il pensiero di Pistoletti si articola fino a superare la dualità con il mondo, per identificarsi con «il rovescio della polvere», il mistero di luce che con pazienza ci attende: «Fino a quando tu, / tu ti senti dal sistema elettrico / del mondo non più attratto / finalmente senti in te / come il rovescio della polvere». L’espressione richiama i ritmi ben differenti cercati da Luigi Socci ne Il rovescio del dolore; un rovescio che non attiene alla gioia, né all’attesa, piuttosto a un sorridere a denti stretti dinanzi al tracimare del negativo. Da Legni viene fuori un’altra storia: «Ma poi quando mi volto allora non mi bastano più gli occhi / come in una pagina quando con l’ultima riga non è finita / adesso con te in questa stanza / pare tutto una notte bianca una sete di luce che non passa». Così in Fuori: «Ma a volte qualcosa / si accende dentro davvero / e allora come torce / si esce fuori dal cono delle nostre ombre, / come un drago dal naso / come quando ero bambino». Fino all’explicit: «come da bambino lassù sulla cima delle scale / quando esplodevo di rabbia come un matto / e poi a metà della scena sentivo / con chiarezza che ero felice / – alle spalle la soffitta accesa – / e allora facevo voto di stare lì per sempre / dentro a tutto quel niente di polvere alzata.»
Dell’esordio poetico di Paolo Pistoletti ancora molto si potrebbe scrivere, ma preferisco concludere richiamando uno dei nuclei più elementari intravisti fra le pagine; in una certa misura, la cellula ritmica fondamentale della silloge: in bianco e nero o a colori, con tutte le sue ombre, luminescenze, tonalità, illusioni, la vita non è solo uno stato in luogo ma qualcosa che trascorre mentre la abitiamo. Qualcosa che somiglia all’esistenza di un albero, al cuore del legno, al cuore dei legni.

Urbino, 19 novembre 2014

sabato 22 novembre 2014

Maria Pina Ciancio vince il premio ATTRAverso L’Italia 2014: vivissimi complimenti

ATTRAverso L’Italia
II edizione - 2014


I vincitori della seconda edizione del
Concorso Internazionale di Poesia della Migrazione
"Attraverso l'Italia 2014"

La giuria del Concorso Internazionale di Poesia della Migrazione denominato “Attraverso l’Italia” ha selezionato i vincitori della seconda edizione. Per la sezione riservata alle opere edite il primo premio è stato assegnato alle Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro (Rimini, Fara, 2009) di Maria Pina Ciancio. Il secondo premio è stato attribuito ad Alfonso Guida con L'acqua al cervello è una foglia. Madrigali dedicati (Varese, LietoColle, 2014) e il terzo a Anna Belozorovitch con Qualcosa mi attende (Varese, LietoColle, 2013). Tra i finalisti la giuria ha individuato anche Giacomo Signore con Corpus metapoetico (Varese, LietoColle, 2014) e Nadezhda Georgieva Slavova con Destini in versi (Parma, Rupe Mutevole, 2014).
Il vincitore del primo premio della sezione riservata alla Poesia inedita è Arianna Luci con la poesia Una cosa minima. Mohamed Malih con Profughi si aggiudica il secondo premio e Mimoza Sali con La mia vita il terzo. Tra le liriche degne di menzione la giuria ha segnalato Il risveglio di Enrico Mina, Un cane di legno e Presso il pegno di Fatime Kulli, Tempo di Rina Xhihani, Erano splendidi i bottoni e La luna dello scoglio di Benito Galilea, Vibra di Vasily Biserov e Dal silenzio che fu solitudine di Rita Minniti. Inoltre, la giuria ha deciso di conferire un premio speciale all’autrice italo-albanese Klara Kodra. Un’altra menzione va a Lulzim Gjini con la poesia intitolata Un testo non scritto.
La serata conclusiva dell’evento, organizzato insieme all'Associazione ONLUS “Passaggi” di Trebisacce e patrocinato dal Comune di Cosenza e dal Dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione dell’Università della Calabria, si terrà il 7 dicembre 2014 alle ore 17 e 30 presso il Ridotto del Teatro Rendano di Cosenza.
Si ricorda che il concorso, a tema libero, si rivolge a immigrati o migranti maggiorenni di qualsiasi nazionalità che scrivono in lingua italiana, ai migranti italiani all’estero e ai cosiddetti italiani della diaspora.
Il premio riservato al vincitore della sezione Poesia inedita consiste nella pubblicazione di una silloge. Il secondo premio in un'opera d’arte e il terzo in una targa di merito. All'autore dell'opera edita vincitrice sarà assegnato un premio in denaro pari a 300 euro. Il secondo premio consiste in un'opera d’arte e il terzo in una targa di merito. La giuria di "Attraverso l'Italia, 2014, seconda edizione" è composta da Mario Benvenuto (Ricercatore di Lingua e Traduzione Spagnola), Fiorella De Rosa (Ricercatrice di Lingua e Traduzione Albanese), Alessandro Gaudio (Docente di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea), Rossella Pugliese (Docente di Lingua e Traduzione Tedesca) e Griselda Doka (Dottoranda in Studi letterari e linguistici).

Rende, 21 novembre 2014

mercoledì 19 novembre 2014

Su Il mio Delta e dintorni di Colomba Di Pasquale

recensione di Vincenzo D'Alessio


La raccolta poetica di Colomba Di Pasquale che reca come titolo Il mio Delta e dintorni  (Fara 2014) è stata collocata dall’editore nella Collana: “Il filo dei versi”. Divisa in due tempi armonici si avvale della prefazione della poetessa Vivian Lamarque. L’epigrafe “A Lilia” richiama l’ultima composizione a pagina 64 compresa nel secondo tempo “Dintorni” dove l’anafora posta nei capoversi ripete “Sei” per allontanare il dolore dellallontanamento della persona cara.
La prima parte della raccolta, dedicata interamente all’armonia che regna tra chi scrive e l’esistenza quotidiana delle creature nel “Delta” del fiume più grande della nostra penisola “Il Po”, ha la partitura completa della poetica della Nostra racchiusa nella poesia eponima Il mio Delta a pag. 16. Nei versi la poeta avvalendosi dell’anafora “sono”, con la complicità del verso lungo privo di rima, imbarca il lettore sulle onde dell’immenso corso d’acqua alla ricerca incessante dell’ Infinito.
Quest’Ode è una vera e propria Ode alla Natura, Madre benefica e terrificante, con la quale la Nostra si confronta. Tornano alla mente del lettore i bellissimi versi del poeta latino Tito Lucrezio Caro nel Poema De Rerum Natura che: “con la sensibilità e deliziosa intimità della sua contemplazione della natura per assurgere poi subito dopo a una solennità e impetuosità quasi biblica” (L’Infinito, I , 968-983; 998-1007). La composizione alterna i nomi degli abitatori del Delta nei quali la poeta si immedesima e riconosce. La ricerca di una vita leggera, di una quotidianità che si affida alla superficie delle acque e non al suo fondo melmoso: “
(…) uno svasso, / cullo il mio piccolo nel nido di erbe palustri / che alimento ora dopo ora / nella mia lenta navigazione” (pag. 16).
Vibra in tutta la raccolta l’invocazione al lettore ad amare i luoghi, gli esseri viventi lasciandoli nel ciclo naturale delle stagioni, negli istinti che da millenni governano il loro migrare perché breve è l’esistenza tra il sorgere degli astri: “(…) sono la farfalla con le ore contate / che si gode l’ultimo e il primo sole della mia / rapida vita” (pag. 18). La metafora combacia bene con il mosaico dell’Officina Coriariorum di Pompei dove nel mosaico addossato ad una parete compariva un teschio umano in campo azzurro, sormontato da una squadra con archipendolo, una farfalla (l’anima) e una ruota (Nemesis) simbolo dell’instabilità dell’esistenza e del destino mutevole degli uomini.
In questa calma ancestrale del suo Delta, Colomba Di Pasquale, è alla ricerca dell’Infinito, proprio come Lucrezio, e nella sua metempsicosi faunistica scrive: “(…) e sono la garzetta stanca lungo la palizzata / del fosso; / riprendo fiato, / il volo che mi attende non so quanto lungo sarà / attraverso il canneto di palude che c’è in me / fino ad arrivare al mare aperto che sono sempre io” (pag.0 18). Tema tanto caro alla poeta che si ritrova in quasi tutte le poesie: “(…) La vita alfine è una corsa / più o meno lenta verso la fine” (pag. 27).

La seconda parte della raccolta denominata “Dintorni” racconta dei viaggi, delle emozioni, delle piccole gioie, delle perdite e anela alla serenità di questi argini del suo Delta che formano un limite e un porto alla sovranità di una Natura che in ogni istante pone fine ed inizio all’armonia del creato: “(…) Temo sempre perdere per sempre / questi ricordi misti a piccoli morti. / Perché non tornano quei giorni splendenti, / così innamorati della vita. / non tornano ?” (pag. 60). L’enjambement porta il lettore per mano all’interrogativo che l’Umanità insegue dal momento in cui ha preso consapevolezza della sua Storia.
 

La prima parte della raccolta resta saldamente legata ai luoghi che il grande fiume Po attraversa e dei quali ha segnato la storia nel bene e nella distruzione: risaie, campi arati, orti, piccole città, grandi megalopoli. Viene alla mente il poeta Mario Luzi che nella stupenda plaquette Dal fondo delle campagne armonicamente indica la vita che questa nostra terra dovrebbe avere, proprio come lo desidera Colomba Di Pasquale: “(…) È tutto il mio viaggio / per questa terra lavorata palmo / a palmo, di padre in figlio, perché fosse un orto”. Purtroppo questo invito è rimasto inascoltato da millenni e l’armonia che regna nel Delta è stata dilaniata dalle opere dell’uomo che fa pagare il prezzo della vita ai propri simili.

martedì 18 novembre 2014

È uscita la nuova raccolta poetica di Adelaide Ricci

Adelaide Ricci
E la vita che viene

€ 10,00 pp. 80 (Il filo dei versi 2)
ISBN 978 97441 56 4




http://www.faraeditore.it/html/filoversi/vitacheviene.html“(…) se tu / riposi / io non chiedo / perché / mi dai del / niente / da portare.”

Questa raccolta ci porta in un mondo sospeso nell’incanto della natura (umanità compresa) con le sue meraviglie che rimandano a un “oltre” sublime e imperscrutabile (e a volte tremendo): “quanto è bianco / acceca / così / bestie / smembrate / anche le nubi / nel battito / dell’acqua / che non cede”. La voce poetica di Adelaide Ricci si esprime con un ritmo franto, ricco di echi, dal suono avvolgente che rimanda a sensi suggestivi, molteplici e magari sibillini. Siamo invitati ad immergerci profondamente nella realtà visibile e invisibile, concreta e mistica: “si vola / a mezzo cielo / puri segni / gabbiani / silenziosi / sopra terra”; “Vado / come la goccia / nella roccia / così / come / la foglia / sul torrente / e poi / la pausa / fra le litanie.”
«Ora il suo essere andata più-in-là è indubitabile. In quale chiave? Forse mistica…» afferma nella perspicua Postfazione Vittorio Cozzoli





Adelaide Ricci, medievista e docente di Storia medievale (Università di Pavia, sede di Cremona), è autrice di numerosi saggi e di alcuni volumi. È direttore artistico dell’ensemble musico-teatrale PerIncantamento, da lei fondato nel 2003. In poesia ha pubblicato la raccolta Nenie dell’aria (Cremona 2006) e Di terra e di luogo (sei testi, in «Strenna dell’ADAFA per l’anno 2006», XLVI, Cremona 2007).

Su La neve di Francesco Filia

recensione di Marcello Tosi


kairosAllarme meteo (così frequente in quest’epoca): Neve a Napoli! Quella della nuova intensa e dolente raccolta poetica di Francesco Filia (Fara Editore), opera vincitrice del Premio Faraexcelsior 2012, che avvolge la città dell’autore, in genere considerata ben poco toccata da questo fenomeno atmosferico. Quindi a suo “poema dell’assurdo”, sottolinea nella sua prefazione Sebastiano Adernò, che “attraversa la città, la storia del proprio vissuto e della città stessa… quasi prosa poetica… Quasi un evento, un segno benigno, quella promessa bianca che ha la forma della manna… che induce a guardarla come un incanto, come un disegno appena abbozzato, che contiene, come ha scritto Anna Ruotolo, ogni gesto e il suo contrario “come / un mai e un sempre” (XXIII frammento), in cui convivono il bianco e il nero. La neve contiene la sua caducità, aggiunge Adernò. La differenza capace di trasformare la vita in ricordo.
Nel teso respiro di questa città dove la luce fatica ad uscire tra i palazzi, quale speranze di cambiamento sopravvivono, quale dolente attesa di vivere e amare? Forse la stesso dolente senso di sterile, vana speranza che fu di Pavese, citata in esergo alla raccolta: “Qualcuno ci ha promesso qualcosa? / E allora perché attendiamo?”

L’autore, che vive e insegna a Napoli, è stato vincitore della sezione inediti del premio Dario Bellezza (edizione 2001) e finalista di altri premi, tra cui il premio Città di Tortona 2008). Con La neve si è aggiudicato anche il concorso nazionale editi Civetta di Minerva 2013 ed è stato finalista del premo nazionale di poesia Ponte di Legno 2013. Ha fatto parte anche dell’antologia Subway. Poeti italiani Underground, a cura di Davide Rondoni con introduzione di Milo De Angelis (Net, 2006), e pubblicato il poema in frammenti Il margine di una città, con prefazione di Raffaele Piazza e dieci tavole di Pasquale Coppola (Il Laboratorio, 2008).

Frammenti i suoi, “di dialoghi affamati di bocche e cuori e allora, tra vestiti / gettati e l’odore di arance cadute, saremo veri e senza età / come chi dovrà morire sul serio…” (I frammento) e “per saggiare il fondo delle nostre vite, per sapere / se siamo pronti per questa città che ci assale alle spalle / che non lascia prigionieri se non l’offerta dei nostri sguardi tagliati…” (III frammento).

La neve, dice l’autore, quella vera, non l’abbiamo mai vista “se non nella bocca a nord del vulcano / nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia / che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza / ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa / e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa / fino al midollo…”
Neve che si scioglie “tra lava e cenere ammassate… l’alito della terra che rinasce / Rimarremo tra calcina e cemento armato tra crepe / e radici…” una Napoli fatta di terra, cenere e fango, metafisicamente, disperatamente silente, che tra vocio e magma di piazze sembra disfarsi attimo per attimo davanti agli occhi dell’autore: Il corpo di Napoli è pioggia che gronda “portando con sé omissis di parole e pupille graffiate dall’aria… ogni gesto conduce a questo gelo di piazze senza nome / a un orrore di statue erette da millenni…”.
Un malessere profondo che ha radici antiche là dove “Cocci di bottiglie sui muri azzannano, come denti / la carne viva della nostra adolescenza… / (…) / Rimaniamo per sempre nell’attimo tra lo slancio e lo stacco / del corpo tra gli scogli (12 anni). Dolore e disperazione tra le pieghe del tempo che hanno anche una data precisa: 23 novembre 1980, quando “Non avevamo capito che il terremoto era appena / iniziato, che avremmo dovuto aggirarci in un fragore / di tubi innocenti e siringhe di cemento armato / di lavori in corso e doppi turni…”.
Il brusio di tempo di antiche perdute Discendenze, rimandano ad una Napoli tra passato e “futuro remoto di grida e strati sepolto” (XI frammento), gettata tra il mare “e un incubo / appena iniziato, il cerchio spezzato di queste colline” (XII frammento).
Quali restano ancora le Cose da fare lungo le strade di questa città ormai non più tale, ma “gioia / perduta, destino”? “Costruire sillaba dopo sillaba / le strade che hai amato, vico della fate a foria /(…) / … la terra che brucia la pelle / trattenere il fiato chiudere gli occhi, riaprirli. / Rientrare nell’incubo” (XV frammento).
Lacrime come la pioggia, l’incubo di una città smarrita, dove le ombre dei palazzi si allungano e “I morti ci entrano / dentro… / (…) /… ci reclamano con un conto / da saldare, una consegna da rispettare” (XVII frammento). Geografie come quelle del Centro direzionale, della Direzione Capodichino-Autostrade disegnano un enigma, che ancora divora per capire come siamo… l’enigma di una città “che ci ha voltato le spalle” (XX frammento), lungo il suo perimetro assediato, che imprigiona “nel carcere di questi vicoli”, nella strettoia di “un destino sbagliato, come la risacca dopo la marea, / come un mare, come una madre” (XXI frammento).

Francesca Luzzio su "Neoplasie civili", silloge poetica d'esordio di Lorenzo Spurio


Lorenzo Spurio, Neoplasie civili
Edizioni Agemina- Firenze, 2014

RECENSIONE DI FRANCESCA LUZZIO

Leggere le poesie di Lorenzo Spurio è come leggere le pagine di un quotidiano. Certo un quotidiano speciale, perché non si tratta di scarne pagine di prosa che descrivono e commentano gli eventi e la realtà, ma di poesia che con immagini potenti ci fa riflettere su tanti drammatici eventi nazionali ed internazionali che in quest’ultimo periodo hanno rattristato la nostra “globale” società. Non a caso il titolo della silloge è Neoplasie civili”, infatti l’autore è come se già attraverso il titolo volesse denunciare i cancri delle ingiustizie, degli imbrogli, delle guerre e delle immoralità  che caratterizzano i nostri giorni e a causa dei quali ”Gea si occulta la vista/ e corre ad occhi serrati/ verso rovi e sterpi  acuminati/ per accecarsi”. ( A una madre, pag.15) Ma il poeta di fronte a  “verità talmente vere da non credere realmente”(pag.31), nell’accorata ed amara denuncia sente la sua solitudine, la sua impotenza e serra “i pugni con sovrumana forza/ con la speranza di  polverizzar(si)”( Polvere e sangue, pag.35), anche se in fondo non cessa di sperare e, come il fiore giallo che riesce a crescere “al  margine di un marciapiede”, rompendo il duro cemento che vuole impedirgli la vita, anch’egli rompe il silenzio, si immerge nel mondo ed agogna elevazione, ma  la ricerca, il desiderio non trovano sbocco, non bastano a dirimere, ad annullare il substrato di tristezza, di angoscia che il poeta ed ogni animo sensibile nutrono in fondo al proprio cuore, così il fiore giallo che nel suo sbocciare pur esprime anelito di vita, raccolto e posto “all’occhiello della giacca”, (Il fiore giallo, pag.33) sembra esprimere la comune tristezza, il comune bisogno d’amore, di serenità che nessuno sembra in grado di soddisfare. In genere l’eccessivo egotismo, il prevalere degli interessi economici sull’uomo e sulla natura stanno annullando ogni sensibilità, ogni alito di spiritualità, ogni voglia di volare oltre l’hic et nunc.
 Così non  serve la corsa furiosa per evitare “Quei mostri tentacolari” che “s’avvicinavano minacciosi/ come un’atroce pena da espiare ( Corsa furiosa per evitare....,pag.51).  Per chi ha visto “ un bambino/ con strani lividi al volto” (Ho compreso perché, pag.30), o “impavidi cecchini” sparare “uccidendo soldati amici”(Polvere e sangue, pag.31), o porporati cadere”di fronte a spietate accuse incontrovertibili/ su angoscianti verità taciute (Fumo bianco,fumo nero, pag.32),  di fronte ad una umanità che non guarda più l’uomo, che distrugge la natura-madre, la poesia diventa possibilità di salvezza, diventa pioggia lustrale,  “occasione”per dirla con Montale, per denunziare la condizione franante della nostra attuale realtà.                                                                                                                      
L. Spurio, affinché la poesia assolva appieno tale funzione e il verso non risuoni di monotonia, adopera una scrittura polimorfa, come sostiene il critico Ninnj Stefano Busà, e al lessico forte, realistico (arrugginito, ferro, cemento....) affianca quello etereo, sognante (aere, rinverdire, beato...), creando un chiaro-scuro verbale che diviene correlativo formale del chiaro-scuro storico-sociale, ulteriormente ribadito dall’alternanza ritmica dei versi, ora musicali, ora aspri e duri, vibranti dell’amarezza emozionale che l’ispirazione ha dettato.


                                                                           FRANCESCA LUZZIO


Palermo, 04.11.2014

lunedì 17 novembre 2014

Il mio Delta e dintorni di Colomba Di Pasquale a Recanati 28 nov

Carissimi,
 

poche righe per invitarvi alla presentazione della mia ultima silloge con la preziosa prefazione di Vivian Lamarque.





Venerdì 28 novembre ore 18.00 presso la Biblioteca


Ringrazio la Dirigente della Biblioteca di Recanati la dott.ssa Manuela Benedettucci e il Sindaco di Recanati Francesco Fiordomo
La presentazione de Il mio Delta e dintorni ha il patrocinio del Comune di Recanati.

Ringrazio altresì chi dialogherà con me per l'occasione: Mauro Coppa, psicologo, psicoterapeuta e Direttore di Settore dei Servizi Educativo-Riabilitativi dell’Unità Speciale della Lega del Filo d’Oro di Osimo.


 


Grazie sempre per l'attenzione costante verso la mia scrittura.

Colomba alias Columbit

P.S. Passate parola!
E per chi volesse ordinare il mio libro il link dell'editore è: www.faraeditore.it/html/filoversi/mioDelta.html

lunedì 10 novembre 2014

Concorso “La Gorgone d'oro” (sc. 31-12-14)


Colomba Di Pasquale nella rubrica “Una poesia per te”

poesia tratta dalla raccolta Il mio delta e dintorni, scelta da Vivian Lamarque, pubblicata alla p. 98 della rivista Confidenze n. 45, novembre 2014



Su La mia casa di Gabriele Oselini

recensione di Marcello Tosi



http://www.faraeditore.it/html/siacosache/miacasaoselini.html


Storie, sensazioni di smarrimento, sorprese che colgono trasalimenti dell’animo, ne La mia casa di Gabriele Oselini (Fara 2014). La nuova raccolta del poeta viadanese si apre in maniera significativa con l’omaggio posto in esergo, ai versi di poeti della sua terra, come Pier Luigi Bacchini e Afro Semenzari. E “la contemplazione delle torri e delle querce, scriveva Bacchini, mi ha fatto amare il vento – strisce cupe e lucentezze.”

Osellini, con una sensibilità che si direbbe quasi virgilianamente mantovana, apre questa raccolta con l’apparire della “Casta luce dell’alba” sulla terra “madre dolcissima”. Ѐ il primo chiarore di un 13 dicembre quando “a questo nuovo freddo sole / la brina / illumina i campi / sorrido / ai volti amici”. La luce sommessa dell’autunno (“difeso dalla foschia / seguo / morbide movenze”), le foglie gialle e il senso della caducità delle cose, rimandano a “pensieri fuggenti / come ragazzi insieme / senza passato”).
Versi in cui è possibile individuare una molteplicità di riferimenti poetici, come sottolineato nella prefazione da Gino Ruozzi: “in queste poesie di Oselini si avverte la rigorosa ed energica misura espressiva di Giuseppe Ungaretti” (come nel richiamo esplicito dei versi di Isonzo).
“È singolare – scrive Ruozzi – a quasi un secolo dalla composizione del Porto sepolto, trovare una voce così in sintonia. Le immagini, il lessico, la struttura dei versi, l’assenza di punteggiatura e il respiro corto e frammentario ricordano quel modo di raccontare e illuminare per versi. Un tema ricorrente è quello della passeggiata. Anche in questo caso il primo pensiero va alla natura dei luoghi, alle strade, agli argini e alle golene di Po, a quel mondo piccolo e immenso descritto da Zavattini, Guareschi e, in una prossimità decisiva, dall’amico e maestro Daniele Ponchiroli. Non può tuttavia mancare la traccia delle nodali Myricae di Pascoli, dai quadri poetici dell’Ultima passeggiata all’epilogo di In cammino e Ultimo sogno.

Viadanese, insegnante, Oselini ha ricoperto l’incarico di assessore alla cultura. Appassionato di letteratura e di poesia, con particolare attenzione per quella latinoamericana del Novecento, ha partecipato a diversi concorsi locali e nazionali: è stato segnalato alla terza edizione del concorso “Pubblica con noi” di Fara Editore, con cui ha pubblicato nel 2005 una selezione di poesie all’interno di Antologia Pubblica e, successivamente, le sillogi Specchio (2006), Finito (2008) e Piove (2011). Una voce poetica, ha scritto Fabrizio Azzali nella prefazione a
Piove, che “si condensa nella scansione scarna e secca di versi frantumati, essenziali, nei quali le parole, che vibrano isolate nel silenzio imposto dalle pause, paiono incise in una materia viva, palpitante, tesa a restituire l’immagine nella sua immediata assolutezza e in cui si concentra quasi il respiro delle cose e dell’uomo che vi è immerso”.

“… Felicità immanente / color trifoglio / fra platani genuflessi / al vento di luglio”.

Così la terra amata, la terra che si apre, si spacca come una “Creta” di Burri (“arse di creta / sabbie dorate / a specchio nel mare”), ritorna il luogo dove “concedersi la lentezza / con rari movimenti di pioppi sfumati”… Dove poter gustare il sapore delle tradizioni agresti, di un’epoca in cui la famiglia aveva un diverso significato, in cui le ricorrenze assumevano quasi una sacralità smarrita, come in Gnolini:  “sulla bianca tovaglia / in fila / sinfonia / di forme rotonde / giallo caldo / pieno…”).

Richiami e figure quasi pascoliane (“quale sia / il tuo pensiero / seduta / sulla sedia di paglia / vicino ai girasoli / assetati d’agosto / non so / donna dei ricami…”) rimandano all’immagine di un tempo lento del ricordo che torna a farsi visione con il senso bucolico e virgiliano della realtà, uscendo su “cancelli aperti / su filari / di mele cotogne / pesche / e ciliegie / per il rito / sacro a mia madre / della mostarda / di Natale” (La mia casa). E così rinvenire il respiro delle stagioni, che tornano a rincorrersi nei titoli dei versi: Autunno, Bimbi d’estate, Campagna…
“Quella strada”, abbandonata sull’argine “invasa da erba alta… indica il percorso più amato”, quello che infine sorprende il viandante in cammino, mentre ritrova la strada “in cerca di stelle… morbida piuma / leggera novella”. Ed è “divino immergersi nella pioggia… Blasfemo / è il richiamo / al capobranco / come i lupi / affamati / nella notte” (Theos).

domenica 9 novembre 2014

La premiazione del Premio Naz.le di Poesia "L'arte in versi" sab. 15 nov. a Firenze

PREMIAZIONE III PREMIO NAZIONALE DI POESIA

“L’ARTE IN VERSI” – Edizione 2014

Sabato 15-11-2014, ore 17:30

FIRENZE

Sede provinciale ARCI – Piazza de’ Ciompi 11

Info:  arteinversi@gmail.com 


COMUNICATO STAMPA
Sabato 15 novembre ci ritroveremo a Firenze presso la Sede Provinciale dell’Arci sita in Piazza de’ Ciompi 11 per l’attesa premiazione del III Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” organizzato da Euterpe Rivista Di LetteraturaDeliri Progressivi e dalla AssociazionePoetikanten onlus, quest’anno con il Patrocinio Morale dei Comuni di Roma, Brescia, Jesi (AN) e Dronero (CN).
Vincitori
Sezione A – Poesia in italiano
1° – Anna Barzaghi 
2° – Luisa Bolleri
3° ex aequo – Lorenzo Poggi
3° ex aequo – Nunzio Buono
Sezione B – Poesia in dialetto
1° – Luciano Gentiletti 
2° – Nino Pedone 
3° ex aequo – Katia Debora Melis 
3° ex aequo – Nicolina Ros
Premio alla carriera poetica
Sandra Carresi
Verranno conferiti inoltre medaglie e diplomi alle Menzioni d’Onore e ai Segnalati le cui poesie saranno pubblicate nella antologia del premio.
I proventi derivanti dalla antologia del Premio saranno donati alla Associazione Italiana Sclerosi Multipla (AISM).


giovedì 6 novembre 2014

Mario Fresa interpreta Catullo






Catullo vestito di nuovo

Quattordici imitazioni 
di Mario Fresa

Disegni 
di Prisco De Vivo


Edizioni Galleria d'arte 
Lucis di Quadrelle








mercoledì 5 novembre 2014

Su Quaderno di frontiera di Gabriella Bianchi

FaraEditore, 2014

recensione di Vincenzo D'Alessio




http://www.faraeditore.it/html/siacosache/quadernofrontiera.html

Quanti anni occorrono per comporre, elaborare e produrre una raccolta di poesie? La risposta la lascio al lettore (quelli che riescono a leggere poesie: pochi, purtroppo!) che avrà l’opportunità di avere nelle proprie mani Quaderno di frontiera di Gabriella Bianchi, uscito presso l’Editore Fara di Rimini quale migliore produzione poetica presentata al concorso Faraexcelsior 2014 che prevede come Premio la pubblicazione dell’opera. Una vera fortuna, in tempi difficilissimi come quelli che viviamo, dove l’economia scarseggia anche alle “Fonti del Clitunno”.
Il dualismo esistenziale è il binario dove scorre, lentamente, la locomotiva della memoria singola, e collettiva, dell’Autrice: “Nella mia infanzia c’era solo il treno / e qualche bicicletta arrugginita” (pag. 29). All’apparenza un viaggio negli Inferi: “Rilke è il mio cuscino, sostiene / le ore pesanti del tardo pomeriggio / quando è socchiusa la porta degli inferi” (pag. 35). Chi vuole riportare dagli Inferi? Quali persone amate vorrebbe riavere accanto nella quotidianità? Basterà la voce suadente dei versi della Nostra a ingannare i custodi dell’Aldilà?
Vorrei avere tante certezze per sconfiggere il dolore che attanaglia dall’inizio questa raccolta e che dipanandosi dalla singola anima della poeta raccoglie la Speranza ancella dell’Umanità da millenni: “(…) Sento il battito del cosmo / mentre respiro l’aria marezzata, / prima che il traghetto torni” (pag. 32). Caro lettore, germoglia in noi la sostanza della Divina Commedia dantesca dove Caronte trasporta il vivo nella terra dei defunti e nel contempo il profondo credo della religione Cristiana: Cristo unico uomo a resuscitare dai morti e salire al Cielo. Cosa ci sostiene mentre aspettiamo in questa durissima quotidianità il nostro God (Dio)? : “(…) Le suore anziane dalle spesse lenti / lavorano d’aguglia e di pazienza, / le novizie scrutano la neve / sui valichi dell’orizzonte / e si inarcano al sole come gatte. / La notte beve il giorno / fino all’ultima goccia / e accende l’inquietudine” (En attendant Godot, pag. 28).
Caro lettore comprendi che la poeta non ha realizzato soltanto un quaderno di versi, costato fatica, che sia orpello ai suoi giorni: no! Ha voluto raccontarci, ed è una favola antica bellissima, l’inquietudine che spesso definiamo angoscia, che vigila nell’animo di ogni essere vivente. La madre, il padre, la periferia dove si nasce, la città che minaccia, gli oggetti, i profumi (delle mele cotogne), il camino che parla, i piedi scalzi della sua gente, ripresa anche dai grandi maestri del Novecento come: Pierpaolo Pasolini, Ermanno Olmi, Davide Maria Turoldo, appartengono forse solo a Gabriella Bianchi? La mia risposta è no! Il lungo viaggio nel tempo al quale la poeta ci chiama è sincero, difficile, doloroso, carico delle memorie colettive, in un vagone letto dove i compagni di viaggio sono i libri (tesoro inestimabile), il poeta Rainer Maria Rilke come cuscino, e i poeti Sandro Penna e Jorge Luis Borges come testimoni del matrimonio dell’anima della Nostra con il conduttore del treno: il Tempo. Tornano alla mente i versi di un grande poeta del Novecento, appena trascorso, che ben si agganciano a quelli della Nostra: “Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai” (Giorgio Caproni, Biglietto). I maestri della critica insegnano che diverse sono le interpretazioni condotte sui testi poetici a seconda della sensibilità di chi si accinge a compiere questa analisi. L’empatia è una delle bisacce delle quali si munisce chi nel percorso della poetica di un Autore si incammina. Alla fine del viaggio l’incertezza, su quanto si è scritto, somiglia alle dune del deserto che cancella con l’aiuto del vento le tracce.
La raccolta della Bianchi è carica di infiniti stimoli e richiami all’attualità. In modo particolare alla profonda crisi spirituale alla quale è giunta la cristianità dopo due millenni di distanza dalla morte del suo fondatore. Le certezze iniziali sulla vita ultraterrena sono sparite, poiché l’organismo partito dai Dodici è stato lacerato dal suo peggiore nemico: il Potere! La poeta affronta con forza d’animo il dualismo che attanaglia da allora il cristiano, cogliendo l’occasione della morte della madre nell’ospedale accostando l’evento al racconto di André Gide della ragazza cieca che riacquista la vista: “(…) I medici prendono il posto / di Dio, / addormentano i pensieri / e saccheggiano senza pietà / i piccolo tesori dei pazienti. / Nel corridoio vagano / particelle d’anima, / quanto resta dei "numeri" / che hanno abitato lo stretto recinto / dei letti bianchi” (Sinfonia pastorale all’ospedale Silvestrini, pag. 37).
Lo stesso confine (rotaia del viaggio) compare in un’altra splendida poesia a pag. 22 : “Il refettorio ha grandi finestre / sul giardino / e profuma di pane. / (…) Fuori dal portone serrato, / i fagotti di stracci / gettati al suolo / dagli extracomunitari affamati, / intralciano i passi ai religiosi. / (…) I laceri siedono a terra / appoggiati al portone chiuso / da catenacci.” 

Caro lettore ho affrontato solo alcuni dei temi che la poeta ha trattato nel suo quaderno di frontiera. Ce ne sono tanti altri, tante emozioni, tante gioie e tanti dolori narrati alla perfezione, cantati con voce limpida in versi. Un canto che si arrende quando si volge al passato. Quando cerca in ogni modo di guadagnare la stabilità che quel mondo vero le ha insegnato. Comunicare oggi a noi questi insegnamenti: chi ascolta, chi è in grado di abbracciare “la materia dei sogni”?
Il viaggio in compagnia di Gabriella, per noi, termina qui. Come tutti i visionari, coloro che nella bisaccia del viaggio portano la dignità, anche per la nostra poeta l’artificio che si sviluppa dai versi farà compagnia ai viaggiatori nel tempo che verrà in mezzo agli uomini.

È uscito Il mio Delta e dintorni di Colomba Di Pasquale


Il libro viene presentato in anteprima 

assieme ad altre novità fariane

Sabato 8 novembre ore 11.00 a Chiari (BS)

alla mostra della MicroEditoria 

Colomba Di Pasquale
Il mio Delta e dintorni

€ 10,00 pp. 72 (Il filo dei versi 1)
ISBN 978 97441 52 6 

http://www.faraeditore.it/html/filoversi/mioDelta.html

«Noi, homo sapiens, quando stiamo male ci chiudiamo per un certo tempo a chiave o, al contrario, fuggiamo, e per uscire dalla palude del male partiamo, ci mettiamo in viaggio alla nostra ricerca. O, se per caso siamo poeti, prendiamo carta e penna, scriviamo.
Colomba Di Pasquale fa questo e quello. Per uscire dalla palude si incammina con stivali da palude verso una “palude” ancora più grande, ma sono stivali dalle sette leghe e la palude è incantata, è il Delta, il meraviglioso mai abbastanza amato delta del Po. (…)
Lo sguardo dell’esploratore-poeta Colomba è calamitato da tutto quell’incessante silenzioso operare per la vita, quell’inarrestabile nuotare cacciare nidificare, “costruire case su case / come le case popolari”, fatica a staccarsi da quel paesaggio sospeso stralunato che non assomiglia a nessun altro.» (dalla Prefazione) 


Colomba Di Pasquale è nata nel 1968 a Lilla in Francia. Di origini abruzzesi, insegna diritto ed economia in due istituti tecnici di Ravenna. Risiede a Recanati. Con Del Monte Editore ha pubblicato Viaggio tra le parole nel 2006 e con Nicola Calabria Editore Una vita altrove nel 2007. Nel 2008 pubblica con Fara Il resto a voce e viene inserita nell’antologia fariana Il silenzio della poesia con la silloge Dei Silenzi (e degli ascolti). Nel 2010 presso Genesi Editore ha pubblicato Dulcamara con prefazione di Vivian Lamarque. È presente in diverse antologie letterarie e ha conseguito numerosi riconoscimenti sia per la poesia edita che inedita.