venerdì 22 maggio 2015

Andrea Rompianesi su Canti Digitali di Alberto Mori

A. Mori Canti Digitali (Fara Editore,2015)

recensione di Andrea Rompianesi


Dove sei uomo nell’assolo del tuo dire? Dove la voce tra i pixel rinnova l’arabesco e il fascino? Come canti la tua “digitalità” avulsa dalla carne e ancora detieni quella luminosità artificiale che ci fa rimpiangere con struggente malinconia l’ora gaia delle mattine aperte d’estate? Un senso inquieto ci prende leggendo Canti Digitali (Fara Editore, 2015) di Alberto Mori. La sua tecnica di scrittura qui conferma una esattezza d’effe
tto quasi liturgica, alla quale il poeta ci ha abituati in anni d’intensissimo lavoro sempre stilisticamente rilevante. Ci aggiriamo ora nel suono-fono di action and products, phone and sounds, web light, techno vision, set spot, digital embodies; tutto è digitalmente definito, compattato in equilibri d’incorporazioni, fuoriesce dal database telematico, in windows microsoft aperte, come fosse un itinerario conoscitivo attraverso i sintagmi del virtuale, il canto notturno di un performer errante del web. L’effetto è coinvolgente e, nello stesso tempo, straziante. Si percepisce un mondo al di fuori del mondo, l’insidia dell’apparente sul reale, l’assenza angosciante della presenza fisica. Urge un consolatore… ed ecco che però, in una qualche forma, si coglie traccia d’altro… quasi un desiderio di concreto… un vento, i rivoli, le gocce, i grilli, la duna della spiaggia, il tremito delle gambe, le finestre aperte, il gabbiano al volo… ma tutto questo come fosse un insieme di icone costituenti la comunicazione tecnologica e asettica di carni immateriche. Siamo perduti in google, ci dice un’altra sezione del testo che sviluppa una trama quasi a vocazione cyberpunk in versi narrativi, dove l’estrema ratio della congettura ipericonica concede una affabulazione contenente i caratteri della relazione: “ma il mio cuore ancora palpitava / perché sapevo che tu Proxy eri ancora connessa”. Non si sfugge da una rete pervasiva e inclusiva, però il desiderio ultimo la poesia, anche nelle sue estreme coniugazioni foniche e metaletterarie, ce lo indica nella presenza di qualcosa per il quale vivere e scrivere.

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