lunedì 26 ottobre 2015

“Lo spirito, la punta dell’anima”

anna dalle crete, A mio padre, Edizioni Helicon 2014

recensione di AR



Il verso che abbiamo citato nel titolo è tratto dalla poesia a p. 23 che inizia così: «La morte non è il sonno / non ha tratti familiari, ghermisce / le persone più care, è fuori da ogni / norma, da ogni misura / (…)». In effetti l’intera raccolta è una indagine di mente e viscere, in prosa e in versi, sul mistero della morte, nello specifico quella dell’amatissimo padre.
Abbiamo a che fare con un’opera di prose e versi dal tono sapienziale, impregnata di quel biblico soffio/rùach che ha dato vita alla creatura plasmata dalla terra/adamah che è l’uomo. I versi sono per lo più in corsivo, a volte in tondo quando il tono è, ci sembra, più filosofico-ermeneutico, interpretativo dei ricordi e degli avvenimenti personali in relazione alle Scritture (a p. 25, ad esempio, vengono riportarti diversi versetti di Isaia 40), al kèrigma cristiano, ma anche alla condizione umana tout court: «Sentivo davvero che era ormai troppo tardi. / (…) / Non mi restava che accompagnarti / per l’ultimo tratto, tropo breve.» (p. 26); «Volevi forse dirmi / (…) / che i morti stanno in modo non visibile / tra noi? / Sì, io lo so che ci sei, / anche se fa male non vederti, / non poter stringere la mano…» (p. 63); «E quando le labbra non si schiudono, / (…) / … tu, amato, accogli la voce / piccola della mia minuta / le sillabe storte che il sangue / suscita all’eco dell’alta tua voce» (p. 83, sono i versi che chiudono il libro già rivolti a un altro Padre, quello celeste del quale il padre terreno è figura).
Non a caso in Prefazione Neuro Bonifazi parla di «poesia “teologica”» (p. 5), di un’opera che «mostra un aspetto di unione trasfigurata, per la complicità della terra col cielo, del tempo con l’eternità, della vita con la morte» (p. 6). E nella Introduzione Loretta Iannascoli fa riferimento anche alla dimensione orante e partecipativa di questo libro che si apre alla «possibilità di andare oltre la sofferenza, di trascenderla, ed è comunicazione che ci pone al disopra del nostro dolore e, scrive Hölderlin, “Chi si pone al di sopra del proprio dolore si innalza”» (p. 16), è un testo che esprime l’amore «che nasce e permette la relazione interpersonale» (p. 17).
L’esergo scelto da anna dalle crete è il suggestivo versetto 20 del Salmo 76/77: Sul mare passava la tua via, / i tuoi sentieri sulle grandi acque / e le tue orme rimasero invisibili. Una implicita domanda/preghiera a Dio di cui si riconosce la presenza e al contempo l’intangibilità, l’invisibilità se non addirittura l’assenza. È un “nascondimento” ai sensi e alla ragione strettamente connesso con tutta la problematica della teodicea, che cerca di dare risposte alla vexata quaestio della presenza del male nell’uomo (il c.d. peccato originale) e nel mondo naturale, con i suo cataclismi (terremoti, inondazioni, ecc.) che non sembrano tener proprio conto degli uomini e di altre forme di vita.
La struttura metrica delle poesie (con l’eccezione di quella a p. 82, Mi convoca a cena, in senari) è libera, c’è un ritmo franto, spezzato, sorretto da assonanze e allitterazioni; la forma sintattica è particolarmente complessa, sia per un abile uso degli enjambement, sia per l’ambiguità funzionale di alcune parole focali e l’accostamento spiazzante (ad es. «l’upupa sbizzarrisce» a p. 75) – assolutamente poetico e ricco di suggestioni evocative – di aree semantiche lontane: «L’amore. – La terra non è che un grande / cimitero, e lo sarà da ultimo / a maggior ragione. Ma pullulante / scintille d’amorosi sensi.» (p. 23); «(…) si stacca con te / di noi ogni fibra. Si resta sospesi / e sotto è vuoto. Non ci resta / che l’alto. Null’altro. Nausea / da vuoto e lo spazio alto.» (p. 29); «Un silenzio si dilata / stamani che squarcia dentro» (p. 34).
Oltre ai molteplici riferimenti biblici, A mio padre è anche un omaggio a importanti figure del Novecento come Cristina Campo, Agostino Venanzio Reali, Margherita Guidacci, Montale, Luzi e tanti altri poeti e poetesse di cui anna dalle crete si è nutrita e che, nel caso di Reali, ha contribuito in modo essenziale a riscoprire e a far conoscere; abbiamo colto, ad esempio, un riferimento “all’umile radicchio” del poeta cappuccino nella poesia a p. 36: «(…) Solo del radicchio / il fiore affonda le radici, / l’azzurro accende più intenso il mattino, / più profondo lo sguardo – / di mio padre – nella miriade di occhi / di turchino sono occhi di padre». 
A p. 39 l’autrice affronta, in prosa, il tema della paternità/figliolanza anche con riferimento al sacrificio di Cristo che la tradizione teologica attribuisce alla volontà del Padre: «Un padre non tradisce il figlio. Il figlio può tradire il padre, come me quel giorno nel pensiero, perché ho raffrontato la sua età [di un defunto, giovane, per il quale si celebrava nell'episodio riportato alle pp. 37 e 39 che ha generato il testo di Affezione siderea] alla tua e altre strane idee mi sono affiorate alla mente che non si possono trascrivere (…) perché temo anche i pensieri producano effetti di irradiazione (…)». E a p. 42 si chiede: «Ma come può un padre volere sacrificare un figlio? Nulla di quanto la Scrittura tramanda accade a caso. (…) Con il sacrificio perfetto, quello che il Figlio porta a compimento condividendo la volontà del Padre, è Dio che prova all’uomo il proprio amore per l’umanità tutta». Riflettendo poi sul peccato originale, anna dalle crete afferma (p. 45): «il peccato non è che cedimento a un’illusione» e più avanti (p. 74) ci ricorda che siamo salvati per grazia, per amore gratuito, e non per gli sforzi della nostra mente o della nostra volontà: «L’amore si lascia intendere dai sapienti e dagli stolti ed è capace di invertire stoltezza e sapienza. La scienza può condurre a Dio ma solo se si lascia guidare dalla fede, perché la mente da sola non raggiunge il cielo». E un atto di fede è la poesia Proposito di mai dire “io” a p. 81 di cui proponiamo gli ultimi versi: «nell’Io Sono eterno / presente che suona “io” / sono la persona che sono // e nulla, io sola» – una dichiarazione splendida dove le figure retoriche si accumulano (ossimori come eterno/presente, sono/nulla; parole che si riecheggiano nel suono e nel senso sono/suono/persona; l’ambiguità sintattica di eterno che può fungere da solo da predicato oppure fungere da aggettivo di presente; e ancora l’io che è particola dell’Io Sono, del Dio che si rivela con questo nome a Mosè nel roveto, cfr. Es 3,14). Non possiamo non ricordare, chiudendo questa parziale lettura di un’opera così prorompente di una energia salmica, così attenta alle grandi domande dell’uomo, così ardimentosa da “chiedere conto” al Padre del sacrificio del Figlio e così fiduciosa nella possibilità di una ricomposizione in Lui di tutte le nostre fragilità e fratture, di tutti i nostri dubbi più angoscianti, perché Lui si fa eucaristia: «Mi dice ti amo / mi convoca a cena» (p. 82); non possiamo non ricordare queste parole di Romano Guardini: «Io non sono un “caso” fra tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono soltanto individuo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’essenza universale, ma un’essenza che ha l’impronta dell’unicità: porto un nome. Questo nome l’ho da Dio. Sono nel mondo ma non mi risolvo in esso. (…) Perciò io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là dove è custodito, cioè da Dio. (…) Ciò trova la sua piena espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio (…)» (cfr. Id., La coscienza, Morcelliana 1933, 20094, p. 47). Non è forse un caso che il nome dell’autrice, Anna, significhi in ebraico Grazia, cioè nata per grazia di Dio.

Nessun commento: