martedì 29 dicembre 2015

Solo se hai un peso puoi volare: sulla nuova grande raccolta poetica di Giuseppe Carracchia

Prova del nove, Ladolfi 2015

recensione di AR

Come Renato Serra e come suggerisce lo stesso Carracchia nel saggio-postfazione “Educare al silenzio. O Del cloroformio”, anch’io «… fantastico una critica che non sia soprattutto uno studio di opere, ma uno studio con opere» (p. 219).  Credo che una nota critica debba risultare da una immersione nel testo che si ha di fronte, che un critico debba “reagire” alle parole di un autore a partire dal proprio vissuto, dalla propria formazione culturale, in una parola, dalla propria antropologia, mettendola a confronto con quella suggerita, evocata, palese o implicita nell’opera. Il dialogo ha bisogno di creare una tensione “equilibrata” (l’autore parla di argillosità, cfr. p. 225) fra due poli/interlocutori, altrimenti si appiattisce o sul testo o su chi lo interpreta e risulta inficiato.
Io non sono un critico, ma quando scrivo qualche riga su altri cerco di attenermi a questo approccio, di ascoltare e di ascoltarmi, di pro-vocare un’opera mettendo appunto in gioco quanto evoca in me. Questo sa fare, con grande empatia e sensibilità, Vincenzo D’Alessio, ad esempio, poeta e critico dallo sguardo terso e acuto: con umiltà, lavorando ai margini e un po’ defilato (come l’Autore stesso di questa raccolta ammette di desiderare), offre sempre chiavi di lettura rivelatrici.
La prova del nove è un libro importante. Per Carracchia segna il raggiungimento di una maturità espressiva articolata e corposa che non teme di esporsi (agostinianamente, di “confessarsi”) anche se conosce le insidie di pubblicarsi: «Più l’apparato mediatico obbliga alla presenza, fornendo trucco e parrucco, più si fa forte l’attrattiva, o necessità della latitanza» (ivi).
Questa esposizione mantiene dunque sobrietà e nitore, onestà e pregnanza, responsabilità e rispetto: tratti che da sempre caratterizzano la poetica di Giuseppe. Già, come possiamo connotare, se non definire, il suo “messaggio”, la sua missione (visto che comunque un forte intento etico è presente)?
Qui è il lettore che viene messo alla prova. Propongo di seguito alcuni (invero sporadici fra i tantissimi) passaggi che mi hanno immediatamente emozionato, ogni tanto commentandoli di corsa, lasciando a ciascuno la libertà/responsabilità di emendare, tralasciare, condividere, eludere queste mie annotazioni senz’altro parziali e modeste, ma sincere. Il libro è composto di otto sezioni indicate in carattere grassetto maiuscolo. Le più ampie sono a volte suddivise in sottosezioni indicate fra parentesi in grassetto minuscolo.

C14 (ovvero carbonio 14) si apre significativamente con la poesia Imperfetta (Appunto dell’alpinista; The North Face) e porta la dedica A te, che temi il vuoto (del resto la poesia si libra sull’informe e lo informa): «Quanto è tremendo tutto questo, chiedi. // Dai labirinti si esce sempre, è storia: / sfondare muri, imparare / a volare, scavalcare, cercare / pazientemente porte / disseminate qua e là, nascoste. // (…) Senza la paura saremmo stupidi, /cercaci il coraggio dentro / di traverso se ne necessario aggrappati. / Se dici che le mani si aprono, menti: / le mani non dicono di aprirsi.» (p. 11)

MOTI E RIVOLUZIONI – dalla poesia eponima contenuta nella breve sottosezione (disappunto del giardiniere): «(…) il giorno solare / non equivale ad una rotazione siderale / che conclude ogni suo viaggio / e lo ripete ventitré ore / cinquantasei minuti e quattro secondi; // ovunque tu guardi, sempre / ti avanzeranno due tre minuti / quasi quattro, per allacciarti le scarpe / e vedere che al tuo fianco / o incastrato nel laccio / c’è un altro.» (p. 24)
Da L’adeguato, in (dittico dell’incendio): «(…) donaci, / un’illogica caduta a precipizio / che depisti in principio la tristezza / e nel frattempo inaspettatamente / ruotaci le carte geografiche, rovescia / il mappamondo ché la caduta / verso l’alto sia, imprevedibile svista.»  (p. 29). Chi è l’interlocutore sottinteso?
Da Il verbo infinito II (p. 32): «(…) tutto // ciò che può condurre / conduce noi ad un un’unica parola / e non è l’amore, sappilo, non / l’idea conchiusa, ma l’amare / la transitività del verbo  idea / pronunciata – parola schiusa. // E poi l’uscita dalla idea / e l’entrata nella vita.»
In fondo l’unico verbo infinitamente aperto, attivo, abbracciante come un angolo giro è appunto amare.

APPUNTI DALL’ORTO – dai versi in esergo (p. 39): «Entrando nel bosco, la luce / diventa più vera e non perché rara; / (…) / perché non sia solo istinto d’idea / o abbozzo di perdizione o salvezza / ma la vera lucente.»
La luce ci prova (in tutti i sensi). Nel III movimento de L’attitudine del bambù (p. 52) troviamo scritto: «(…) questa / miracolosa luce rinsalda / il reale all’ideale, circoscrive / l’orlo degli accadimenti: una / proporzione topografica / l’inquadratura  del tuo respiro.»
Per me è evidente che questa luce è bellezza e bontà, ma anche verità… non fa sconti, né si può sfuggirle.
Da Alberi (pp. 40 e 41): «(…) / siamo talmente presi d’assalto / che vediamo solo il piatto / delle cose, l’inodore, l’inesatto / il banale (…) / (…) sono le cose a dirci la loro semplicità / rinnovandoci) // (…) // (laddove capire equivale / a interpretare tracce, una pietra / fuori posto ad esempio / o una ghianda schiacciata) // – distinguendo la solitudine / dall’isolamento, il raccoglimento / dall’abbandono – (…)»
Anche in questi versi è in corso un dialogo con un progressivo avvicinamento a una verità da condividere.

PRESOCRATICA – da Chironomia (p. 64): «(…) / volevo vederti / nuda, ch’è diverso / da denudarti, persino / diverso da vederti).»
Amare è impegnativo, a volte neppure gratificante, anzi. Ma se non coniughiamo in qualche modo questo verbo, siamo già morti e provochiamo morte.

DALL’UNO ALL’ALTRO – da La furbizia del ginnasta (p.  75): «Questo ci preme dirvi: sappiamo / le paure (in questo siamo bravi); / che i nomi ci rendono vulnerabili, / ci espongono, / e ci sta bene.»
Da Quadratura del dubbio II (p. 81): «(…) Per il resto / vorrei solo che l’intelligenza / si facesse più acuta, tagliente: / imparare a dire con meno parole / ciò ch’è d’obbligo / e il resto averlo già dimenticato. / Con più esatte parole seminare / l’attenzione tra i giusti / e il panico tra gli altri.»
Una dichiarazione di poetica da sottoscrivere: ritengo che chi scrive poesie abbia una grande responsabilità, per certi versi anche politica.

GEOGRAFIE DELLA RICERCA – dai versi in esergo (p. 119): «(…) / lo sbaglio che in tutto / e per tutto  credevi // t’avesse distrutto. Ci insegna / per sbaglio la storia: amare /del tutto // ancor più che serbare / memoria.»
Da Una poesia vuota. O ‘Della regola’ (p. 135): «(…) / ma il silenzio non si addice / alle norme false, e se falsifica / decade fuori di sé, divenendo / un motivetto orecchiabile.»
Anche la poesia nasce dal silenzio vero, altrimenti è tutt’al più un’arietta assai cantabile.
Da Sul semplice. O ‘Dell’inverso’ (p. 148): «Così ogni corpo cela sé stesso, / ogni corpo rivela / l’inverso di ciò che non è.»
Il corpo ci espone, ci dice e dice agli altri quel che siamo. Tiene traccia di noi.

GENEALOGIA DELLE DISTRAZIONI – da Non poesia. O ‘Della concentrazione’ (p. 175): «(…) // Il medioevo è in me quest’idea: l’osservazione, / l’esattezza; non importa se in difetto. / Attenzione implica attesa; l’attesa pazienza. / Pazienza, capacità di osservazione. Questa, precisione.»
Da L’educazione dei principianti II (p. 183): «(…) / penso appena prima / d’accedere allo spazio / di totale pace: “istruirsi a fare / quelle due tre cose bene (che poi /equivale a fare il bene)”.»
Da Prova del nove II (p. 187): «E infine, questa poesia andrà in giro / sorridendo agli sconosciuti, / ed è come se noi, io e te / e tutti gli altri, camminassimo / presi per mano, (…)»
Da Geografia della ricerca III (p. 190): «Come l’ala che fende e resta / sospesa nell’aria, / molto possiamo imparare / dall’aeronautica, / un semplice pensiero salvifico: / leggerezza è conquista / di chi porta ancora / un suo peso specifico.»

SPEGNENDO IL LUME – da Due punti (p. 202): «“(…)// siamo qua, tu mi stringi / la mano e non so bene / neanche il tuo nome. Eccoci / qui, a interrogarci sotto / il grande ulivo. Voltiamoci / in silenzio, chiediamo a lui”»

Come si può bene vedere dalle titolazioni e dai minimi lacerti qui sopra riportati, La prova del nove è davvero un opus magnum ricco di riferimenti impliciti ed espliciti alla Bibbia, all’Estremo Oriente, a filosofi, critici, poeti, scienziati, mistici, scrittori, artisti … ma sempre a partire dalla vita di chi l’ha scritto, dalle sue emozioni a tutto campo, dai suoi “scontri” con la realtà affettiva e lavorativa, dalle sue ferite e dalle sue conquiste. Un libro da leggere e rileggere per assaporarne le infinite sfumature, i dettagli preziosi e nascosti. Un’opera quindi che richiede una certa fatica, da assimilare a poco a poco ma dona subito, anche a una prima cursoria lettura come questa, fuochi di gioia, ombre da accarezzare e far nostre, suggestioni esistenziali e questioni etiche che ci mantengono attenti, attivi, propositivi: «A un giro di boa dalle tue contraddizioni / il ritorno dell’irrisolto richiede / che s’osservi al fondo delle cose / guardando attentamente / (…) // Vedrai / allora, l’inimmaginabile amore. / E toccherà avere attraversato / la cecità, conoscere il freddo / spinato di certe stazioni, addormentarsi / in alto nel punto più alto dove la luce / devia, svirgola / originando un nuovo percorso / nello spazio, un nuovo astro» (p. 193).


Sulla silloge Padre mio come mai te nei sei andato nella luce del Signore? di Enrica Musio

recensione di Vincenzo D'Alessio


in AA.VV. Il tempo del padre, a cura di A. Ramberti, FaraEditore, 2015

L’Italia, la nostra amata terra di memorie, sta riscoprendo la bellezza delle domus disseminate nel perimetro urbano dell’antica Pompei: città mercantile sorta ai piedi di un vulcano che l’ha distrutta, sigillandola nei lapilli, tramandando il fervore dei suoi abitanti alle genti future.
I mosaici compresi in quasi tutte le domus sono tra i reperti più preziosi che gli artisti del passato ci hanno tramandato: le minuscole tessere policrome sono la bellezza dell’Arte tramessa nelle cose, frammenti di un unico disegno che, se tolte dalla loro collocazione originaria, sarebbero degli inutili sassolini anonimi senza più valore.
L’Antologia 
Il tempo del padre può essere considerata la domus poetica dove compare un grande mosaico policromo composto dai contributi offerti dai partecipanti alla kermesse che hanno sviluppato, in versi o in prosa, il tema prefisso dall’editore Ramberti. Molti sono gli spunti e tutti concorrono alla bellezza dell’insieme.

Enrica Musio, romagnola per nascita, ha contribuito con una raccolta poetica che reca il titolo: Padre mio, come mai te ne sei andato nella luce del Signore? (pp. 215-223) e reca come sottotitolo: “In ricordo del caro amico Guido Passini scomparso il 25-3-2015 per fibrosi cistica.”
I versi che compongo la raccolta hanno assunto la vocazione epistolare diretta al padre, scomparso rapidamente a seguito di un arresto cardiaco, che è divenuto la fonte dei ricordi e del dolore che la poeta cerca di illuminare alla luce della Poesia.
L’interrogativo, posto nel titolo, è la base da cui partire per raccontare la vita del suo papà, le radici meridionali, la realizzazione dell’emigrato in Romagna, il servizio prestato nell’Arma dei Carabinieri e, tema fondamentale, i viaggi tra le due regioni e il profumo del mare Adriatico.

“ (…) il cervello nasconde / la tua voce / la conosco bene / mi sembra nostalgia / la lettera che non scriverò.” (La lettera che mai ti scriverò) I versi sono quasi una litote poiché nell’espressione “mai ti scriverò” rivela il contrario, cioè il desiderio della Musio di scrivere realmente, come fa nella presente raccolta, al padre scomparso.


La stimmung generata dai versi è intrisa di intimità: una finestra socchiusa su una famiglia italiana degli anni Sessanta del secolo appena trascorso. La sollecitazione dei ricordi è frutto della perdita improvvisa. Il percorso delle esistenze si snoda in quella che la Nostra definisce “dentro una eterna fugacità” (Padre e figlio).

La modernità della poetica della Musio consiste nel modo semplice di affrontare il dialogo tra memoria, oggetti e tempo. Tornano alla mente i versi di un’altra poeta contemporanea, Giusi Verbaro (scomparsa ad agosto di quest’anno), anche lei salentina come Giuseppe il papà della Nostra, che ha partecipato e vinto nella IX Edizione del Premio Nazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra” (1992), che ricorda l’amore verso il padre scomparso troppo in fretta dal dialogo degli affetti: “(…) Fu così poco il tempo per parlare e capirci; / già infilzato al pennone di disposte sequenze / ti disponevi a improvvida partenza / senza neppure il grigio dell’addio.” (Dieci anni).

È stato lo stesso anche per Enrica Musio che avverte questo duro colpo e lo trasmette nei versi della breve raccolta : “(…) Figura di mio padre: / un uomo buono / semplice e onesto / bravo lavoratore / venuto dal Salento / (…) C’è una unica foto / in cui mi tieni in braccio da bambina / poi più nulla” (Pomeriggio di gennaio).


Montoro, dicembre 2015



Giuliano Papini su Bruno Bartoletti

recensioni di Giuliano Papini

Bruno Bartoletti
Soc.Ed. Il Ponte Vecchio 2005

Il Brigliadori nell’introduzione ha evidenziato numerosi debiti del Bartoletti nei confronti dei poeti a lui cari, dal Pascoli ai contemporanei. Questo non stupisce. Il Bartoletti è poeta cólto e ha letto molto e molto meditato e assimilato. La sua ricerca stilistica ha guardato di preferenza agli Ermetici, che egli ha assunto a suo modello, non sempre con risultati convincenti.  Ermetismo non significa oscurità ad ogni costo, ma creazione di nuovi impasti di parole che, per quanto difficili, lasciano comprendere il significato dell’espressione e trasparire le immagini. Bisogna però stare attenti che l’ermetico non si muti in enigmatico, altrimenti il poeta non viene inteso e fallisce dinanzi ai lettori. Per esempio, quando il Bartoletti dice

Sull’uscio una foglia di tenebra
cade e dai campi un suono di pioggia
ritorna a grappoli nuovi

tutto è  bene interpretabile e gustabile nell’originalità dell’impasto verbale
(da Paese di antiche memorie),

ma quando scrive

La gora rimescola i giorni
sospesi a una pendola bianca
tra occhi di melograno,
fessure tagliate di luce.
si screpola il gesto nel lento
naufragio dell’ora
(da Attesa lunare)

il testo è assolutamente oscuro e incomprensibile e ci offre piuttosto un assemblaggio di frammenti rigo per rigo che un organico squarcio lirico di risolta compiutezza, facendoci perfino dubitare della nostra capacità d’intendere. Qui il desiderio di emulare e superare gli Ermetici ha tradito il poeta. Ma per fortuna questi “buchi  neri” sono piuttosto rari tra lo stellato delle sue pagine. Proviamo a leggere un’intera lirica, Incredula presenza, interpretandone il significato e analizzandone l’espressione. La situazione è questa: è sera, una sera grigia, piovosa, che riflette nell’anima stanca del poeta la sua tristezza.

Spiove la luce al dormiveglia del mio cuore
di una sera che sfinisce di tristezza
e lascia profumi di pioggia

dove il “dormiveglia del mio cuore” è immagine suggestiva della malinconia abulica e sonnolenta. L’attimo presente è rapito dal vento che soffia fuori, anch’esso pigro e stanco, simbolo forse del fluire del tempo, e le memorie emergono dalle nebbie del passato. Il poeta rivede la figura di una donna, probabilmente la madre scomparsa, quando veniva nella sua stanza, pallida e affranta, e si sedeva con lui e gli diceva parole presaghe di morte.

                          … posavi le tue mani
                          di cera sul bracciolo e mi guardavi
                          con un mesto sorriso.

Qui l’impasto ermetico è di facile decifrazione, e gli occhi velati e infossati della visitatrice spirano già sentore di tomba.
La seconda parte è di lettura più difficile, ma intelligibile. Il poeta ode nelle strade rumori di carri transitanti. Le strade sono “aggrovigliate” in numerosi crocicchi, i selciati sono “macinati” dalle pesanti ruote: il verbo, di forte accezione, rende con efficace iperbole lo sgretolarsi delle pietre. Il pensiero dell’incerto futuro “ferisce”, ossia tormenta, il poeta e imprime nel suo animo, pronto ad accoglierli, segni, cioè parole, balenanti un senso tenebroso, i “riverberi cupi” disegnati sulla “parete bianca” del cuore (il bianco è il colore della intemerata verginità). Lui, nel silenzio disceso tutt’intorno,  si sente voltato ad esse. Quelle parole imperiose lo spingono 

come mani giganti
a ricercare perdite di spazi e giorni
macerati di silenzi

cioè, come direbbe Proust, alla ricerca del tempo perduto, disfatto nel silenzio delle cose annientate.
Chiediamo venia al lettore se questa interpretazione gli appare troppo sofisticata, ma altro non abbiamo saputo fornire: a lui formulare la sua. Del resto, proprio questo è tipico della poesia ermetica prestarsi, come un prisma, a mille diffrazioni. Dopo la lunga professione di nostalgia, il poeta torna al leitmotiv della donna dolente, tesa ad ascoltare “il battito dei giorni”, quasi rintocchi di una gigantesca pendola palpitante a scandire il ritmo del tempo fuggitivo. Il suo povero volto è coperto dalle “lacrime come pioggia” sparse dal vento. Il poeta, rimasto muto e incredulo della reale presenza di quel fantasma, ha navigato avanti nella vita verso le “scogliere grigie degli anni” ossia verso il grigiore della vecchiaia irta di duri ostacoli e pericoli. Una lirica densa, eppure aperta alla comprensione, bene architettata nelle sue parti, musicalmente arricchita dall’uso del motivo dominante, dipinta dei colori tipici dell’autore, idonea quindi ad essere assunta a campione della sua arte.                   
Il Bartoletti è ricco di delicato sentimento, non di passioni forti, un crepuscolare che ama l’ombra, la penombra, la sera e la notte. Il tono prevalente è la malinconia, nostalgia di persone e di cose perdute, rimpianti, ritorni al passato fuggito per sempre. L’influsso dell’amato Pascoli è indubbio. Un caro poeta, dunque, sincero e vibrante. Nel campo della musica gli potremmo accostare lo Chopin dei Notturni o il Debussy più sommesso e prezioso. Il ritmo è ineguale: a versi perfetti di cadenze si alternano improvvisi sbalzi con un effetto di rottura non si sa se voluto o meno. Si potrebbe pensare che il Bartoletti, dotato di ottimo “orecchio”, abbia deciso di sottolineare con tali sprezzature la sua assoluta indipendenza da schemi e leggi metriche e rivendicare al poeta  una piena libertà di andamenti.

*        *        *

Bruno Bartoletti
Youcanprint Self-Publishing     2012

Questo secondo libro è stato edito sette anni più tardi e presenta un notevole stacco stilistico. Non più ultraenigmatici groppi di oscure parole e molto temperato e alleggerito ciò che rimane dell’Ermetismo. C’è un ritorno alla chiarezza classica dell’espressione, la frase perde in densità e peso e scivola via fluente e sciolta, talora in ritmi metrici vari di versi, talora come prosa cadenzata, sempre perspicua e trasparente. Nuova è la disposizione delle poesie, di cui molte senza titolo, che l’autore non colloca singolarmente isolate, ma raggruppate in sezioni, così da formare come lunghi capitoli di un’ideale storia della sua  anima, un’interiore autobiografia, quasi diario del proprio divenire avanzando nel tempo. I temi dominanti sono sempre gli stessi, nostalgia del passato, rimpianto per le persone e le cose perdute, sgomento per il futuro ormai breve, sentimento di decadenza e presentimento di morte. I colori non sono  mutati: penombre, atmosfere grigie e cupe, notturni  silenzi lunari. S’incontrano belle e originali immagini, delle quali piace citare qualcuna indicando la pagina dove trovarla.
“Alabastri di luce” sono le figure delle donne biancovestite che sfilano nella visione di una processione funebre (13)
L’ultimo avventore che lascia il bar alla chiusura “ha il passo malinconico del silenzio” (18)
Lo specchio del poeta ultrasessantenne, quando egli vi osserva il suo volto, “dipana segnali di autunno” (22)
“Il silenzio è una parola vuota”  (29)
“Un vento sibillino soffia sulla terra” (29)
Nella camera buia “un raggio di luna che filtra dà un segno/di luce sottile, un esile filo che rompe/il silenzio dell’aria”  (39)
Nel cimitero del paese “il campo suonava canzoni di vecchi ritorni”  (47)
Al poeta sembra vedere ombre di morti che passano e “ciascuno di terra ha la fronte”  (48)
Sulle croci del cimitero il convolvolo “si attacca come un ultimo grido”  (49)
A sera “è un cupo addormentarsi/in una luce bianca di rimpianti  (53).

Potremmo continuare, ma il lettore troverà da sé altre perle e le ammirerà con giusta lode. La morte occupa un posto di primo piano in questa raccolta. Il poeta ne ha un sentimento costante, quasi incalzante. Nomi di amici scomparsi, tombe, ultimi addii quasi ad ogni voltar di pagina. L’idea della morte si accompagna all’idea della vecchiaia, sua anticamera, che il Bartoletti soffre, tormentato da immagini di decadimento e d’insufficienza. Anche la Musa tace per lunghi giorni, come compartecipe della sua sfiducia nelle proprie forze. Ma poi il sopito demone si ridesta e il poeta riprende il suo canto. Quale è il giudizio del critico su questa ultima maniera del Bartoletti? Sinceramente, mentre piace la limpidità del nuovo dettato, si rimpiangono un po’ certe tinte più moderne de “Il tempo dell’attesa”, quei coloriti impasti di parole dal sapore ermetico qui quasi del tutto accantonati. Inoltre, non manca il rischio della banalità espressiva sempre in agguato, dal quale pure il poeta si difende molto bene. Tutto sommato, questo nuovo libro conferma le doti dell’autore, delicatezza di stati d’animo, umbratile e nostalgica fantasia, sincerità di sentimenti, assidua, sorvegliata ricerca di rinnovamenti stilistici. A lui auguriamo una lunga stagione creativa e molti meritati successi.

sabato 26 dicembre 2015

NATALE 2015

NATALE 2015


Caro Gesù, mio re divino,
questa volta troverai il mondo peggiorato.

L’ISIS avanza, lasciando dietro di sé una vorticosa scia tinta di rosso.
Il terrore si veste di paura.
L’Occidente é smarrito e combatte contro i mulini a vento.
Il Mediterraneo è un immenso cimitero a cielo aperto.
La natura si ribella e provoca catastrofi.
La corruzione dilaga e il popolo paga
per le inadempienze di politici e bancari.
La famiglia è disgregata e non sa più educare.
La follia  all’improvviso esplode.
In nome di una presunta laicità,
si diventa  intolleranti ai tuoi simboli.
Si è in preda al relativismo pratico,
che genera confusione e disorientamento.
La democrazia si sta trasformando in “democratura”.
Siamo dominati da forze occulte.
Una grigia solitudine ci fa compagnia.
Vaghiamo in una fitta nebbia.

Ma due Papi … il soffio dello Spirito e…
una Porta si apre.
È la Porta della Misericordia.
La Porta del Perdono
della Pace
dell’Amore.

Caro Gesù,
solo Tu puoi aiutarci
a convertire i nostri cuori,
per passare dall’indifferenza
alla compassione.

Aiutaci ad alimentare
la nostra tiepida fede con la preghiera,
per essere dono per gli altri,
per diventare testimoni di misericordia.



venerdì 25 dicembre 2015

Giancarlo Baroni: “Un libro temerario”

Caro Alessandro Ramberti,

ho molto apprezzato il tuo libro, Orme intangibili, allo stesso tempo aspro e tenero. Libro stratificato e complesso che necessita di letture e approfondimenti successivi. Libro soprattutto temerario, che accetta pericoli e rischi, e che con slancio generoso si avventura verso i confini, i limiti, le frontiere, i bordi, esplorandoli per quanto sia concesso e sia possibile. La verità che questa esplorazione ci dona è fatta prevalentemente e inevitabilmente di domande più che di risposte.La certezza riguarda l'idea che la strada per la salvezza passi necessariamente attraverso l'amore, la condivisione, l'accoglienza.
Orme intangibili è un testo dall'incredibile densità concettuale e spirituale che cammina e viaggia e pulsa al “ritmo affascinante del mistero”.

Io scrivo una poesia più legata all'esperienza e alle esperienze, alla storia e alla geografia, ma anche i miei versi credo siano animati da una passione meditativa.

Quando ho iniziato il tuo libro, avevo da poco terminata la lettura della raccolta "Tibet" di Roberto Carifi; trovo che fra i vostri testi ci siano, pur nelle evidenti differenze, certe affinità.

Auguri per un sereno e gioioso ed empatico 2016

Giancarlo Baroni

sabato 19 dicembre 2015

Il sublime sconfigge l'orrore

Nota di lettura di Liliana Ugolini su La via dell'arcobaleno di Gladys Basagoitia (Fara 2015)

Fin dalle prime pagine si avverte una dolcezza infinita che prende linfa da una comprensione vasta del vivere, da un’esperienza che va oltre il quotidiano pur rimanendone avvolta. È come se nella lontananza del vissuto l’intelligenza si facesse selettiva e allargasse ogni sensazione poetica alle memorie incancellabili. Le dediche poi rivisitano emozioni, dicono affezioni, costruiscono speranze, rivivono presenze. È il sublime che in lotta sconfigge continuamente l’orrore e l’amore che hai per le persone e le cose, fa la tua poesia luminosa. La percezione della precarietà è interpretata nell’attimo e non viene scalfita la meraviglia del vivere, la delizia d’una gioia, la preziosità d’un cenno. Le tue riflessioni poetiche approfondiscono la ricerca dei perché e rispondono donandosi. Controcorrente come i salmoni sali la cascata in cerca della luce che è già in te proprio perché controcorrente e le tue parole esprimono speranza con l’armonia del tutto.
Hanno ben compreso il tuo testo che ti rispecchia i bravi relatori Antonio Melis e Alessandro Ramberti.
Da parte mia ti ringrazio infinitamente per questa lettura che nella sua interiorità rivelata consola e dona una visione positiva in questo momento particolarmente significativa.
Ti sono infinitamente grata del dono libro e di lettura e complimenti per l’edizione davvero raffinata. Colgo l’occasione per inviarti i miei più sentiti auguri per le prossime Feste e per l’Anno Nuovo e ti abbraccio con tanta simpatia e stima. Un bacio per questo buon lavoro.

lunedì 14 dicembre 2015

Lo slancio vitale delle Orme

recensione di Germana Duca Ruggeri 


In giorni come questi, che sono una vera sfida per l’umanità, abbiamo il dovere morale di far progredire i valori positivi che la vita ci può offrire, sia mediante la ragione sia attraverso il dono della fede. Potrebbe essere questo, in estrema sintesi, il messaggio che Alessandro Ramberti desidera mettere in circolo con l’opera più recente, Orme intangibili.
I testi, oltre trenta, incastonati fra Premessa e Congedo, sorprendono per la coesione stilistica e tematica. Essa si concretizza in una complessa, originale drammaturgia sull’amore cristiano, trascritta mediante quartine di endecasillabi in rima abca, intercalate da un verso libero fra parentesi. Ciascuna sequenza, di lunghezza variabile, è sempre chiusa da una parola in caratteri cinesi, puntualmente tradotti nel suono e nel significato.Nomi – gioia, meta, fede, bellezza, spirito, anima… – e verbi – scegliere, farsi carico, aiutare… – seguiti con una certa frequenza da citazioni tratte dalle Scritture e dagli autori prediletti: Camus, Hadjadj, padre Matteo Ricci, George Hebert, C.S. Lewis, Kant, papa Francesco, L.A. Gokim Tagle, Teresa di Lisieux, Recalcati. Autori ripresi nelle Note finali con utili ragguagli bibliografici e posti in dialogo con altri ‘specialisti’ come Bianchi, Bergoglio, Bonhoeffer, Stein.
Poesia di meditazione sulla prima virtù teologale, in gran parte; con un recitativo che, se da un lato evoca l’innografia sacra, dalle origini fino al Manzoni e oltre, dall’altro diviene sinossi di echi di stringente modernità, da Luzi a Merini, a Nove nel poema mariano. Nel caso di Ramberti, la fede viene donata in sogno, è «una lancia gettata / da qualcuno indistinto e remoto…»; è boomerang salvifico lanciato dall’Amore e all’Amore ridestinato; è generatrice di un flusso di energie ascendenti e discendenti.
Queste ultime hanno il loro fulcro nell’azione dello Spirito Paraclito, che il poeta accoglie già in Apertura: «Da dove nasce la consolazione / capace di arrestare ogni lamento / l’idea che siamo all’orlo di un bacino / sul quale aleggia e vibra la ragione // (da unire con la fede) // plasmando i nostri sogni ed i progetti? / c’è un fuoco che discende dal battesimo / sui nostri corpo-ed-anima a dirigere / i passi perché siano più diretti» (p. 19).
Il Consolatore riappare nel cuore del libro: «Se superi la prova del naufragio / c’è un’aria che risplende prodigiosa / voce-colomba squarcio del battesimo / manto-scudo al diabolico contagio» (p.46). Ed è sia «voce infuocata dell’Io-sono», sia proiezione interiore, élan vital che, sul modello socratico, diviene progetto di vita: «Crescere fino a renderlo brillante / il nostro spirito; allora la gente / che incontriamo proseguirà con noi / estraendo felice in un istante // (un’illuminazione) // dall’anima dal cuore dalla mente / ricchezze misteriose insospettabili / persino nel dolore della fitta / nell’abbandono o al fischio del serpente» (p. 51). 
In parallelo, le energie ascendenti sembrano scaturire dall’anima. Un’anima dotata di ali, capace di portare in alto tutto ciò che in ogni essere umano vi è di pesante e, in tal modo, farlo partecipare del divino. Ad esprimere in figura tale moto ascensionale contribuiscono i quattro volti femminili che impreziosiscono la pubblicazione, incisi con sensibilità e maestria da Francesco Ramberti, fratello dell’autore. La somiglianza di tali immagini con l’anima umana, che ci fa di poco inferiori agli angeli, arricchisce di senso ulteriore il poemetto sulle orme intangibili: «Chi vola non imprime tracce a terra». Con tale consapevolezza, passo dopo passo Alessandro si apre al mondo, alla trascendenza, all’infinito, pronto a credere in sé stesso, negli altri e in Dio, in una prospettiva di umanesimo universale: «Il Regno è proprio lì con la sua perla / quando siamo abbracciati dal perdono / ci accorgiamo della sua vicinanza / nel più celato anfratto della gerla».
Attento al magistero di papa Francesco, ma anche ad Agostino, per cui non basta conoscere il bene per essere buoni ma occorre amarlo, egli canta il legame che intercorre tra bene comune e fede. Grazie ad essa, il poeta non solo ritrova Dio, ma anche il fondamento dei rapporti umani, la cui unità è garantita dalla fraternità: «Chi troveremo là se non chi abbiamo / gratuitamente aiutato? Quel prossimo / magari senza nome ci verrà / incontro e ci rivelerà chi siamo // (la grazia è proprio questo)». Un invito, in altri termini, a rifuggire l’utilità fine a sé stessa, l’interesse personale, la paura.

venerdì 11 dicembre 2015

Nuvole sparse: Lucia Lombardi


Blu notte

Diafano pallore
incoronato d’argentea pasta lunare
Spiazzo d’antiche vestigia
su cui il crepuscolo si annida

Rami di pino
braccia d’antichi sapori

Palpito agognato
sul sofà della villa francese
tra abat-jour e busti d’antenati.


Lucia Lombardi

(inedito)



martedì 8 dicembre 2015

“un lembo… bagna ancora”: su Viaggi al fondo della notte di Mariastella Eisenberg



recensione di AR (v. anche la recensione di Cinzia Demi)


Il sottotitolo di questa raccolta (ed. Oèdipus, Salerno/Milano, 2015) è costituito da tre parole di sapore esodico: La migranza, L’erranza, La viandanza. Tutte e tre determinate: l’Autrice fa infatti particolare riferimento alle tragedie in cui sono coinvolti i profughi, i migranti, le folle di perseguitati che cercano rifugio in Europa. Il tono è particolarmente empatico e dialogante, non a caso il Prologo è costituito da due colonne di versi che potrebbero ben essere letti da due voci distinte. Ad esso fa seguito il Canto delle speranze in cui tre “Speranze” (allegra, curiosa e spavalda) devono fare i conti con il rischio vitale della traversata, con una terra agognata ma “lontana / lontana / lontana…” (p. 13). Queste Speranze sono evidentemente persone che testimoniano la: “Lunga /tormentata storia d’amore / fra Africa e Europa / (…) / un lembo / di Mare nostrum / bagna /  – ancora – / deserti e spezie / (…) / ormai / perpetuo / luogo di morte” (pp. 14-15). A volte i migranti parlano con terribile intensità in prima persona: “Mi piace il vento/ che non si vende / all’orizzonte prendo figura / (…) / andando incontro / al buio che si fa. / Un tonfo sordo / un sasso / giù” (p. 16). Sassi umani.
La disumanità dei trafficanti di anime ricorda quella dei pianificatori dell’olocausto:  “A chi / tocca / vagone staccato da un binario morto /  senza un preciso giorno da calendario / con un salto mortale senza rete / va giù” (p. 19).
Eppure questo flusso coartato, svilito, vessato,violentato… riesce ancora ad esprimere voci che cercano “disperatamente” di resistere: “Ho colto tutti i fiori grigi del mare. / Sarei un passante come un altro / se / solo avessi una strada. / Ho solo mare / ovunque. / Ho solo male / ovunque” (p. 21).
La scrittura poetica di Eisenberg ci sembra molto adatta ad una coinvolgente rappresentazione teatrale, ricca com’è di suggestioni letterarie e mitiche; impregnata di storia, di vita, di realtà; di tensione drammatica fra il destino personale e quello dell’intera umanità (intesa anche in senso etico): “Com’è l’ombra / su un barcone? / È augurio / per anime / (…) / un’orgia di pronomi / si confronta / senza mai un noi; / cosa se ne farà mai il tempo / di così tanti occhi?” (p. 22); “Il tempo fa parte degli organi interni: / conoscono il tempo / che li fa marcire / (…) / Il tempo si è compiuto  / allorquando / parole immediatamente vecchie / non ce l’hanno fatta / a trafiggere il mondo” (p. 23). Quest’ultima poesia che ha come titolo in calce Racimolato Racconto (tutte le poesie della raccolta, tranne il Prologo, il Canto delle speranze e l’Epilogo hanno un titolo in coda di due parole con l’iniziale maiuscola) è forse lo snodo del libro e non a caso viene tradotto in francese nel saluto finale da Maram al-Masri in cui ella definisce giustamente Mariastella “Femme qui a vécu ses poèmes” (Donna che ha vissuto le sue poesie, p. 65), paragonandola a Maria dei sette dolori, Donna e Madre (ivi).

A questa prima sezione, fa seguito un Intermezzo, quasi dei flash giornalistici che fotografano situazioni, esperienze, traversie: “Talvolta / dura più il sogno che la vita / nomi / sparsi tutt’intorno sul mare…” (p. 32);  “… e non sai / se ti toccherà morire almeno un po’. / Sfilacciata di alghe / l’alba / passaporto / senza foto” (p. 35); “… bisogna farlo / bisogna / – vela strappata – / cercare la brezza” (p. 36); “… linea d’universo / siete / traiettoria semovente…” (p. 41); “Ogni luce appare casa / a chi / ha casa il marciapiede” (p. 50);  “Disarcionati cavalieri d’avventura / ansimanti allo scoglio / infine / pupille dilatate nel buio di tutto il mare” (p. 52); “Il mare vi schiaffeggia / faccia immersa tra le mani / ad evitare i colpi” (p. 54).

Il protagonista “oggettivo” (di sfondo ma essenziale) di questo Viaggio è senz’altro il mare, nella sua ambiguità di potenziale tomba e di liquida superficie da solcare verso la salvezza.  Lo stile è scarno, fatto di parole all'osso, necessarie; i versi hanno il “fiato corto” di chi sta correndo un pericolo, le immagini sono vivide eppure rispettose del dramma che descrivono: il lettore/ascoltatore è con discrezione invitato a farle scendere in sé, ad alimentare la sua empatia, a rendere più attento e coinvolto il suo sguardo, a far un po’ anche lui questo Viaggio al fondo della notte che ci riguarda tutti, se non vogliamo rinnegare la nostra umanità.


Su Ostaggio del cuore di Elena Varriale

recensione di Vincenzo D'Alessio
AA.VV. Il tempo del padre, a cura di A. Ramberti, FaraEditore, 2015

La Casa Editrice Fara di Rimini alimenta la Letteratura Italiana contemporanea con una nutrita produzione di Antologie realizzate con delle kermesse tenute in vari ambiti: quello scelto, in questa occasione, con maggiore frequenza è l’Eremo della Santa Croce di Fonte Avellana situato nel comune di Serra Sant’Abbondio (PU): un alito di pura spiritualità che arricchisce gli animi e l’estro dei partecipanti.

La kermesse aveva come tema di partenza “Il tempo del padre”, prevedendo ogni forma di intervento: versi, prosa, riflessioni comunicative, filosofia, giurisprudenza, forma epistolare, fumettistica ed esperienza monastica. Il tema è fortemente sentito nella società contemporanea dove la figura del padre è del tutto scomparsa e gli Autori non hanno lesinato nei loro interventi a percorrere la strada conviviale coscienti delle infinite difficoltà che avrebbero affrontato sull’argomento prima di presentarli ai lettori.

La testimonianza che abbiamo scelto di estrapolare dal contesto generale è la raccolta in versi della poeta Elena Varriale, reca il titolo Ostaggio del cuore ( pp. 204 –214), che si presenta in grado di trasmettere agli occhi il paradigma delle emozioni che si avvicendano nel momento del distacco dal padre. Scrive a tal proposito l’Autrice alla fine della presente raccolta: “La poesia non consola, né risolve, aiuta solo a capirsi e conoscersi” (p. 213).

Non basta l’intera esistenza per questi due primati “capirsi” e “conoscersi” poiché troppe domande restano senza risposte. “La poesia non consola” eppure nei versi che formano la raccolta della Nostra c’è un perdurare dell’invocazione al padre ( alla Poesia che è “fare” ) affinché sveli: “Scrivila tu la parola che manca / all’alfabeto delle emozioni” (p. 209) il percorso per raggiungere la Serenità.

La ricerca dell’immagine paterna alimenta, dal primo all’ultimo verso, la raccolta qui inclusa; assolve alla necessità di un dialogo puro, nel momento della consapevole debolezza dei mezzi a disposizione: “Non pretendo che tu mi parli / dal buio che è già infinito / e non ha più bisogno di voce” (p. 212).

Il padre assente nell’esistenza e il padre che è in lei. Non un ricordo arginato dalla memoria nell’oceano dei neuroni: “ (…) ma armonia di coro, nota intonata / nel solfeggio pulsante del noi” (p. 207). Superare il dolore di quel “(…) brivido che attraversa la carne / prima di farsi flusso senza età” (p. 212). Il fare poesia è ricerca dell’Essere da comprendere, da amare in milioni di sfaccettature, di visi, di parole, di suoni, di emozioni, di Infinito.

La poesia non muore con il poeta. L’amore non muore con chi è amato. Ma è il seme buono che lentamente, nella “terra negra” dal silenzio del sottosuolo, germoglia sulle labbra che pronunciano, amandola, la mano che l’ha seminato, restituendo l’energia all’umanità: “(…) Non ci sei più, ma tutto / resta di te, ostaggio del cuore” (p. 208).

Amaro è il distacco da chi si ama e la poeta come figlia/
bambina, generatrice di altra esistenza, compensa: “il mi manchi gridato al vento” (p. 207) con questi versi/dialogo richiamando dal tempo senza fine all’attualità la figura paterna. La Natura forma il corollario dell’incontro trattenendo nelle sue molteplici manifestazioni l’intensità della sua immagine. Il padre/madre al tempo stesso. La forza creativa e quella distruttiva della naturalità: “(…) obbedienza verticale al padre, nella regola benedettina e la regula, cioè l’obbedienza orizzontale tra gli uomini che genera solidarietà” (p. 213).

La poetica della Varriale si avvale, nel comporre i versi sciolti, dell’enjambement per avvicinare il lettore al fuoco del suo scrivere, dell’ossimoro, della similitudine, del continuo moto dell’esortazione per dichiarare gli intenti del racconto. Chiama in causa il mare come metafora del logorio temporale del vissuto (specchio) e la luna (piena) come testimone degli accadimenti.

Il profumo dei versi di questa raccolta, così cari alla Nostra, mi riportano alla mente i versi di un altro grande poeta solare, amante del mare, che al padre dedica versi stupendi: “Se mi tornassi questa sera accanto / lunga la via dove scende l’ombra / azzurra già che sembra primavera, / (…) io troverei un pianto da bambino / e gli occhi aperti di sorriso, neri / neri come le rondini del mare” (Alfonso Gatto).

Scrive Elena Varriale a suo padre: “(…) Non conosco i cieli che abiti / (…) ma dovunque tu sia e qualunque / forma abbiano i tuoi sospiri / adesso so che pensandoti, papà / la lacrima si fa sorriso.”

Montoro, 8 dicembre 2015