domenica 17 gennaio 2016

“Non l'ha creata il Dio la morte”: su Abele di Lucianna Argentino

Lucianna Argentino, Abele, Edizioni Progetto Cultura, 2015

nota di lettura di AR



C'è amorosa sapienza in questo poemetto biblico di Lucianna Argentino. Biblico non solo per l'esplicito riferimento al racconto del primo omicidio (per di più “fraterno”) ma anche perché con il Testo sacro l'Autrice ha una profonda frequentazione come dimostrano, oltre alle citazioni dirette e indirette, l'interesse per la lingua ebraica in cui è stata scritta la Torah. Abele è poesia che mette in gioco le questioni esiziali: il tentativo di definire chi siamo, il nostro rapporto con gli altri e con Dio, quello con l'universo, il senso del nostro andare, il non poter eludere il male né i nostri limiti e condizionamenti ed aver al contempo un costitutivo desiderio di infinito (o quantomeno, foscolianamente, di durata nel ricordo dei nostri cari), il dover fare i conti con un margine di libertà che, quanto è più “ristretto”, tanto è più prezioso. 
La prospettiva è quella di Abele in dialogo con la madre Eva. Abele, quel soffio-vapore (cfr. p. 25) che è quasi niente. Nella sua nota-prefazione Argentino ci ricorda che questa parola è la stessa che apre il Qohèlet e che viene tradotta spesso con “vanità”): «Abele non ha un volto (…) è soltanto un soffio, un'ombra. (…) Lo scrittore sacro vuole dirci che la significanza di Abele sta proprio nella sua insignificanza (…) ciò che porta frutto è ciò che marcisce. Questa è la storia dell'amore» (p. 11).
Abele la vittima che, come ci ricorda Alessandro Zaccuri nella Introduzione, è così spesso messo in ombra dalla personalità violenta ma forse per questo più intrigante del fratello maggiore.
Qui invece si dà voce al soffio, a questo alito effimero, per sua stessa natura predisposto a una veloce scomparsa, che pure mette in crisi Caino, chiamandolo a una responsabilità da cui vorrebbe rifuggire.  
Già l'incipit è di tono epico (Abele si rivolge a Eva): «Parlami madre, raccontami ancora / del tempo nel giardino che quando lo fai / (…) / nella tua bocca è frusciare di arbusti, / frullo d'ali, è il passo di Dio quando viveva qui» (p. 17).  
Eva risponde: «Senza doglie nascemmo / il Dio ci fece – polvere dal suolo – (…) / (…)  e con noi s'è fatto padre inesperto e imprudente / a dire “non si tocca” a due bambini, in fondo» (p. 19).
Abele ripercorre, dialogando con la madre, il racconto di Genesi 3 e a un certo punto afferma: «Ma era necessario, madre, / che i vostri occhi mutassero sostanza, / che la nudità si trasformasse in mistero / (…) / che cadeste nell'abisso del possesso / e vedeste le vostre impronte sulla terra / (…) / che arrivaste al luogo dell'io e del tu» (p. 22); «Non vi cacciò madre, il Dio andando via / portò con sé il giardino, / ci lasciò liberi di piantare il nostro» (p. 22).
L'uomo viene così reso libero e al tempo stesso responsabile, le sue scelte hanno conseguenze, il bene e il male sono sempre al suo fianco. Abele infatti riconosce di aver amato «le creature del quinto giorno / anime senza la parola» (p. 24) mentre lui finisce per essere invidiato da Caino: «davanti a sé c'ero io fatto cosa, intralcio. / E muto fu il suo gesto madre. Terribile» (p. 26); «Caino avrà terra e discendenza nella carne / ma io avrò la discendenza in spirito dei giusti e degli innocenti» (p. 27); «Sarò nei verbi all'infinito e nel gerundio» (p. 28); «Sono il custode e il segno sulla fronte di Caino / – così tu mi torni fratello, nella mia ferita ti battezzi, / nella mia morte ti reincarni a nuova vita» (p. 29).
Come si vede il tessuto poetico di questo densissimo eppure scorrevole poemetto ha una grande presa perché tratta di teodicea e quotidianità, di questioni teologiche e di sentimenti, di carne e di spirito, di scienza e coscienza, del «tempo come un bambino che gioca / sulle ginocchia di Dio» (p. 30), di peccato originale che è indifferenza verso l'amore (questi sì veramente originario) «è perdere l'immagine e la somiglianza» (ivi) col divino e appiattarsi in un un orizzonte basso dove constatiamo che «Il male è lo schianto tra il nome e la cosa» (ivi). Un'opera che ben si presta a una suggestiva e coinvolgente rappresentazione teatrale. Del resto Lucianna si congeda con queste bellissime parole: «scrivo non quando le cose accadono, ma quando si avverano» (p. 31).

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