mercoledì 12 ottobre 2016

Una cella è una cella non è una cella. Da Ornitorinco in cinque passi

intervento di Lorenzo Mari per la kermesse faentina Umiltà e letizia




Non è di certo un esempio di umiltà portarvi queste parole, senza poter essere presente di persona e potervi ascoltare.
Al tempo stesso, non poter essere presente e le parole che seguono in qualche modo coincidono, quindi mi sento di poter andare avanti… Facendo di peggio, se possibile, e mescolando alcune citazioni e un intervento personale – personalista, forse; narcisista, senza dubbio; assertivo, sempre; ma per quanto mi è possibile: partecipato, onesto.
Ricordo come, nel Nuovo Testamento, la Lettera di Giacomo si apra con queste parole: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla.»
Ora, Giacomo non gode delle mie simpatie – per usare le stesse parole che adotta nei suoi confronti Emmanuel Carrère nel libro Il regno – perché Giacomo non sembra soffermarsi tanto sulla perfetta letizia, quanto sulla pazienza, che dona perfezione e integrità alla fede, limando al tempo stesso la necessità, anche materiale.

Nei Fioretti, invece, Francesco de Assisi insiste in modo diverso sulla perfetta letizia, nel passaggio che lo vede in cammino da Perugia verso Santa Maria degli Angeli in compagnia di Frate Leone. Alla domanda di quest’ultimo su cosa sia la “perfetta letizia”, Francesco risponde mettendogli davanti la materialità di una porta chiusa:
«Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto ed afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e l portinaio verrà adirato e dirà: “Chi siete voi?” E noi diremo: “Noi siamo due de’ vostri frati, e colui dirà: “Voi non dite il vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via” e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbarcene e sanza mormorare di lui, e penseremo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfetta letizia.»
La descrizione che Francesco dà della “perfetta letizia” è, a quel punto, ancor più fastidiosa – scientemente, religiosamente fastidiosa! – perché propone questo: «Sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere sé medesimo e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi.»
La perfetta letizia si celerebbe dunque nella vittoria sulla tirannia del sé e anche nella capacità di resistere, come novelli Anteo, a ogni afflizione «però che dice l’Apostolo: “Io non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo”.»
Ora, tornando un attimo davanti alla porta chiusa che Francesco prospetta a Frate Leone, quella porta può essere letta come il simbolo di molte negazioni, diverse tra loro.
Io vi leggo, ad esempio, la porta chiusa del lavoro negato, della precarietà continua, del lavoro intellettuale o fisico che non viene riconosciuto. Non lo è soltanto per me, naturalmente; continua ad essere così, da decenni, per molte generazioni, e non sarà l’aggiunta di qualche parola retorica a modificare l’apertura, anche solo per lo spazio di un piccolo spiraglio, di quella porta. È una porta così ermeticamente chiusa che forse ora è venuto il momento di passare dal grimaldello alla spallata. Gesto assai poco umile, forse, ma lieto, in qualche modo: lieto in un modo leggermente diverso, e che al tempo stesso può coesistere con i modi proposti da Giacomo e Francesco.
Non dico con questo di fare di Francesco il modello di attivista politico che è stato recentemente proposto da una tradizione post-operaista che travisa probabilmente sé stessa, oltre che l’eredità di Francesco. Anzi, l’ascesi che in qualche modo suggerisce la porta chiusa può essere essa stessa congeniale allo sviluppo delle forme del “capitalismo del debito” che è nostro contemporaneo, come argomentato con dovizia da Elettra Stimilli nel recente saggio Il debito del vivente.
Si prospetta, piuttosto, una letizia leggermente diversa – lontana anni luce dalle frustrazioni, dalle ansie, dalle umiliazioni sofferte da chi vive quotidianamente la precarietà; lontana anni luce proprio perché consapevole di avere attraversato tutti questi stadi – ed è forse la letizia di un santo bevitore come Emanuel Carnevali, poeta italiano degli inizi del secolo scorso, emigrato in America, “morto di fame nelle cucine d’America”, come cantavano i Massimo Volume, e tornato in Italia con un pacchetto di poesie e prosa in inglese, poi edite da Adelphi a cinquant’anni dalla sua morte.
Nel solco di Carnevali, si prospetta quindi un cambio di lingua, ma anche di posizione. Si prospetta la capacità di non entrare per la porta del lavoro negato, ma uscire nello spazio aperto del Possibile che è proprio la porta chiusa a indicare – nonostante tutto – in quel Possibile che si può, ormai si deve, identificare con il campo del politico, così com’è oggi disegnato. Lì si potrà forse dire, come scriveva Carnevali stesso: «Volevo maledire i miei occhi encefalitici, ma non maledissi nulla, perché la mattina era bella e cera pace nel mio cuore.»
Lì non c’è alcun lavoro da fare su di sé, perché chi ha pace nel proprio cuore non lavora su di sé. Perché, in fondo, il lavoro su di sé è parte della tirannia del sé. Lì, però, si potrà iniziare a ricostruire un corpo politico da gettare poi lietamente, anche se forse non umilmente, contro la porta chiusa. 
https://vimeo.com/158685946
Lì si potrà iniziare la spallata: con la rincorsa.
Ho provato a scriverne nel libro Ornitorinco in cinque passi – un libro peraltro pieno di spazi chiusi, asfittici, senza via d’uscita – non riuscendo però mai a fare un millimetrico passo fuori dalle frustrazioni, dalle ansie, dalle umiliazioni che quotidianamente fanno peggiore il mondo di chi non ha lavoro o stenta ad averlo, devastandone tanto l’interno quanto l’esterno.
Non ci sono riuscito: ci vogliono molte forme di letizia, e non solo questa.
Quello che segue è il testo finale dell’Ornitorinco, un ultimo suo passo con il quale termino anch’io:

Visto quel che si poteva vedere,
il cotone infilato nelle orecchie,
chiuse in video le lotte delle classi,
uscii, lei con me, ma non dissi nulla,
lui con me – 
perché la mattina era bella: per noi,
per voi, per loro 
(non più loro)
nessuna maledizione possibile
e allora – fummo, foste, furono –
presi a cantare, per non analizzare,
per non distinguere, senza sintesi:
presi a cantare in un’altra lingua,
lasciando ogni spazio irrinnovabile
                                                    ogni fulcro.

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