domenica 4 dicembre 2016

Le cinque A del Villaggio


Stefano Sanchini, Il villaggio, Sigismundus 2016

recensione di AR



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«La natura è la casa  e l’uomo deve seguirne le regole e prendersi cura di esse, come la natura provvede all’uomo» ci ricorda l’autore in premessa (p. 5). C’è bisogno di recuperare un rapporto più sano con l’ambiente, con l’economia, con la propria anima.
Stefano Sanchini ci offre, in versi che “arrivano”, l’utopia praticabile dell’ecovilaggio in cui agricoltura, allevamento, artigianato, arte e anima (le cinque A) possano essere dimensioni intensamente vissute e condivise.
Il libro si apre con un esergo di Giovanni Pico della Mirandola in cui l’uomo è chiamato alle sue responsabilità in quanto essere “quasi libero e sovrano artefice” di sé stesso. Il primo frammento, brevissimo, è un distico splendido e rigenerante: «Tutta la luce del fuoco / sta dentro al buio del bosco» (p. 13). Nel frammento VI troviamo questi versi: «Il mondo non è solo nozioni / che fanno pratica la vita, / il mondo è un insieme infinito / d’immagini che vivificano» (p. 21) e, nel VII, questi: «Il villaggio è il vantaggio / di scoprire il proprio talento / e di farne agli altri conoscenza / la staffetta di non correre soli l’esistenza» (p. 22). Ascoltiamo ora questo passaggio del IX frammento: «gli alberi nell’aria le braccia distendono / in diverse forme e aperture / e chissà se per analogia o inconscio / all’antenna, / non voglio dire che gli alberi si parlino / voglio dire che un albero / è un rapporto tattile col cosmo» (p. 26). Tutto si tiene in questo epos sanchiniano dove si può sostare «(…) in quel tempio di faggi / rubando il tempo al tempo fino a sera, / quando la luce si confonde / col profumo del bosco / e venne la cerva a mostrare l’eleganza / e dalle ginestre vennero le lucciole / con la loro magia a illuminare la via» (X, p. 29; il corsivo credo riveli una sorta di voce narrativa fuori campo che viene dal profondo, dai ricordi più intimi dell’autore).
Il villaggio canta un’etica della relazione fra il sé (sempre in evoluzione e trasformazione) e il molteplice tu in una interrelazione rispettosa e profonda che è di reciproca conoscenza e mutuo arricchimento, essendo tutti gli IO inseriti in un ambiente da amare,  coltivare e curare come diretta “espressione” di una dimensione ultraindividuale per eccellenza, cioè anche quella trascendente e mistica di un sogno condiviso (alla M.L. King, potremmo dire): «Giunsi in una piazzetta dove vi era / un bassorilievo con la scritta: / RESPONSABILITÀ NON È RASSEGNARSI / MA PRENDERSI CURA DEL SOGNO» (XII, p. 30); «e nel frattempo girava la clessidra, / così di grano in grano si centellinava / il tempo e le parole di ciascuno» (XIII, p. 32); «fino a quando scorgemmo un caco nella nebbia / come un lampione con i suoi frutti accesi» (XV, p. 34).
Per l’afflato epico, la pietas (che possiamo oggi tradurre come empatia) nei confronti dei compagni di strada, l’immersione nella natura sempre capace di sorprenderci con i suoi colori, i suoi paesaggi, le sue infinite forme di vita, i suoi spazi siderei aperti a infinite interpretazioni… questo poemetto ci ricorda la poetica di Virgilio, sapientemente e umilmente aggiornata con l’uso di un linguaggio diretto e suggestivo, che ha il ritmo del mare, con la sua risacca fatta di onde più lunghe e più brevi e di altre che danno fiato all’aurea misura dell’endecasillabo: versi liberi, dunque, ma attenti alle assonanze e al ruggito soave delle allitterazioni e delle onomatopee, alla declamazione (questo è un testo da leggere/ascoltare ad alta voce) con i suoi accenti, i suoi silenzi ed echi, i suoi enjembements in grado di cullarci e sorprenderci.
Come scrive Davide Nota nella coinvolgente postfazione: «La poesia per Stefano Sanchini è un respiro esistenziale, un diario di bordo dell’esperienza che si svolge cantando. (…) lo stesso io poetico, l’autore, si sdoppia divenendo al contempo “guida” e “guidato” di un viaggio alla scoperta di un paesaggio armonico non solo esterno quanto, piuttosto, mistico e interiore» (pp. 51-52).
Un libro da assaporare come un canto che ci spinge a dare una svolta al nostro cammino. Versi da riascoltare a viva voce, possibilmente nei pressi di un bosco, vicino a una fonte di montagna, o sulla cima di un’altura da cui la visuale sia ampia e tersa e immersa nei colori e noi suoni (da quello del vento ai versi e ai ronzii degli animali) di una natura di cui siamo parte e di cui dovremmo essere custodi. Anche la bellissima copertina di Giacomo Magi offre una emozionante chiave di lettura visiva di questo poemetto così vibrante di immagini e sentimenti.


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