mercoledì 28 dicembre 2016

L'humus del poeta: le visioni del reale ci dicono (molto) altro

Giancarlo Sissa, Autoritratto (poesie 1990-2012), Italic, Ancona, 2015

recensione di AR


 «(…) / il prato afferrato alla zolla / e il cane bagnato, senza padrone, / (…) / e addormentata nel sacco la scorta di grano; / (…) / in realtà, qui è la nebbia che ondeggia / lungo il serpente dei fossi» (dalla raccolta Laureola, p. 11); «(…) tanto vale / volarsene, alito / e soffio del tempo» (ivi, p. 14); «mi dico, i sogni dei trent'anni / non sono persi, resto alzato / in cucina, leggo e rileggo / La vita in versi» (ivi, p. 24). Già questi pochi brani ci calano nella poetica del nostro Mantovano: è prepotente la sensazione di essere parti di un tutto, di una natura di sapore modernamente virgiliano («potendo, berrei piuttosto / l'enrosadira dei monti pallidi, / più splendida del mare», p. 27), ma anche intensamente sensuale («la mano fra le cosce, / per l'albume dei suoi occhi / dolcemente nevicanti», p. 25); la consapevolezza di esprimere una umanità fragile (qoheletianamente “vana”, se vuole pensarsi in sé, autonoma e autosufficiente) eppure sempre desiderosa di superarsi e in bilico fra entusiasmo e depressione.
La poesia di Sissa ci accompagna, ci avvolge con immagini catafratte («(…) la tua mano cioè / quel posto dove riposo e amo», Pont Neuf, p. 33), ci provoca («… perché la mente è una scala senza /edificio e con beneficio d'inventario / io sto come la formica attenta / in bilico sulla foglia e senza fretta / senza l'oltraggio di un orario», dalla sezione Così si dice, p. 122; «– che fatica facevano a dire una parola / della tua vita, a fare spazio a qualche / verso? l'ostia sporca stretta fra le dieta / e dandoti forse per perso a un angusto / e cupo paradiso senza misericordia, senza / sorriso – quello che mi dispiace / del tuo funerale è che non te lo / possiamo raccontare, io e Alberto, / ma uno così, che morto nella fossa / non ci vuole entrare lo avresti / preso ben bene per il culo…», dalla silloge Maestro, IV, p. 138), ci spinge verso territori che sentiamo nostri pur non essendoci mai prima entrati: Giancarlo Sissa è un poeta che si espone con parole nude e vere («(…) – trentotto / anni: scrivo, pastrocchio / faccio l'educatore», dalla raccolta Il mestiere dell'educatore, p. 42; «– età stupida – la chiamano / quell'immenso dolore / – o adolescenza – che si trascina / poi la vita in assurda convalescenza», ivi, p. 45) offrendoci storie “minime” o di rilevanza universale con l'onestà e l'incisività di chi ne ha fatto esperienza: «Nella carne cruda della tua ferita spossavo le penombre dello sguardo.» (dalla prosa poetica Porto Corsini, p. 54); «E non si entra due volte / nello stesso cuore» (dalla raccolta Prima della Tac, V, p. 61).
Non ci troviamo dunque davanti a un esercizio di stile, né a mera poesia impegnata o civile, ma al pulsare di una vita in versi, con le sue mille storie, le sue contraddizioni, i suoi amori, i capovolgimenti, le inquietudini, le tensioni-domande all'oltre, al mistero, a un Dio personale sempre ricercato (ma ovviamente sempre nascosto-sfuggente, dato che nemmeno la poesia può dirLo, né tantomeno de-finirLo, al massimo, umilmente, evocarLo): «(…) io sto / nel vortice dell'ombra invece che ruzzola a un buio vento / (…) / questa notte vorrei sognare / immobile l'aratro della morte» (Abisso, p. 7); «proteggimi dallo stupido dolore / che ogni volta chiamo amore e dimmi / in quale vuoto cade il tempo che accudisco» (dalla silloge Autodafé, p. 94); «O Dio delle facili preghiere / non credere alle mie, / nemmeno a quelle vere», ivi, p. 96). Ecco, l'uomo dimostra la sua grandezza quando considera con autoironia la sua pochezza ma non si abbatte, anzi ricerca ostinatamente il dialogo e il confronto, si mette in gioco e lotta, come Giacobbe, persino con l'angelo di Dio.

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