mercoledì 27 luglio 2016

Premio di poesia e drammaturgia “Luigi Cardano” (sc. 15-9-16)

 
Sezione di Genova
Sede: Via XII Ottobre 14 - 16121 Genova
corrispondenza: C.P. 1026 Uff.Via Dante- 16121 Genova
e-mail: ucai.genova@yahoo.it - rec.tel. 333.5909628
web: www.facebook.com/ucai.sededigenova

La sede genovese U.C.A.I. (Unione Cattolica Artisti Italiani), in collaborazione con Officine Teatrali Bianchini, con il patrocinio della sede nazionale U.C.A.I., promuove la 4a edizione del Premio Nazionale di Poesia e Drammaturgia 


“LUIGI CARDIANO 2016” sul tema: IL GIARDINO 

Il giardino può apparire come un bosco sacro, microcosmo in cui tutto è possibile e realizzabile, luogo magico, collegato alla “grande madre” degli animali, della fertilità, della vita in cui esistono esseri animati protetti da un ambiente incantato, recintato ed appartato, in cui crescono piante miracolose con la capacità di risanare gli uomini ed in qualche caso di concedere l’immortalità (Nell’orto delle Esperidi erano conservati pomi d’oro i frutti che concedevano l’eterna giovinezza).
Il giardino è nostalgia… è il mito del bosco sacro, ma anche dell’Eden in cui siamo nati, ma da cui siamo stati allontanati.
La nostalgia di questo “luogo immaginario” incita a ricreare quel simulacro di ambiente che ricorda quello che avevamo e che viene continuamente ricreato nella fantasia. Nel giardino si intravede il luogo in cui proprio anche attraverso il mito, si rispecchiano, manifestano desideri e bisogni legati all’uomo, diventando una carta d’identità del proprietario stesso in cui emergono le sue esigenze, nostalgie, ricordi, memorie…



IL CONCORSO PREVEDE 2 SEZIONI :
sezione A - poesia edita e inedita
sezione B - drammaturgia



SEZIONE A - Poesia in lingua italiana:
Possono essere inviate fino ad un massimo di 3 poesie , in duplice copia, di lunghezza massima 36 versi.
Le poesie possono essere edite o inedite ma non devono aver partecipato alle precedenti edizioni del premio.


SEZIONE B - Drammaturgia
È richiesto un soggetto teatrale, in duplice copia, in lingua italiana, di 2 cartelle, massimo 4000 battute spazi compresi.


PREMI:
Sezione A:
- 1a poesia classificata: diploma di merito e assegno di € 300,00 (trecento/00)
- 2a poesia classificata: diploma di merito e assegno di € 150,00 (centocinquanta/00)
- 3a poesia classificata: diploma di merito e catalogo d'Arte.



Sezione B:
Il Premio al migliore soggetto teatrale prevede lo sviluppo del testo e la sua messa in scena a cura degli allievi del
Laboratorio Teatrale della stagione 2016/2017 , condotto da Officine Teatrali Bianchini.
 

Gli elaborati devono essere inviati tramite posta al seguente indirizzo:

U.C.A.I. Concorso Luigi Cardiano 2016
C.P. 1026 - Uff. Via Dante
16121 GENOVA


entro il termine del 15 settembre 2016.


Gli elaborati dovranno essere inviati in forma anonima, pena l'esclusione dal concorso. I dati personali ( indirizzo postale, e-mail, rec. telefonico ) dovranno essere inseriti nel plico in una busta indicante la sezione/le sezioni a cui si partecipa.
È richiesto un contributo di partecipazione di € 10,00 = (dieci/00) per sezione, da far pervenire in contanti unitamente ai dati personali.
Il giudizio dei comitati di lettura è insindacabile.
Gli elaborati non verranno restituiti.
Il programma relativo alla cerimonia di premiazione verrà inviato a seguire.
La partecipazione al concorso implica la conoscenza e l'accettazione delle norme contenute nel presente regolamento, nonché l'autorizzazione al trattamento dei propri dati personali, ai sensi del Decreto Legislativo 30 giugno 2003 e successive modifiche.



Per informazioni potete contattare la segreteria del premio: e-mail: ucai.genova@yahoo.it - rec.tel. 333.5909628
Si ringraziano per la preziosa collaborazione: Le Suore Immacolatine della Chiesa di S.Maria del Prato,
l'Associazione di promozione culturale Blufenice.

martedì 26 luglio 2016

“e gioco anch'io a rientrare nella pancia di questo mondo” (p. 25)

Su Le stanze inquiete di Lucianna Argentino, La Vita Felice 2016

recensione di AR


http://www.lavitafelice.it/scheda-libro/lucianna-argentino/le-stanze-inquiete-9788877997777-320806.html
Dico subito che questo è uno dei più veri e toccanti libri di poesia che mi sia “capitato” di leggere in questo nuovo millennio, anzi di gustare e assaporare, lasciando che i versi scendessero e nutrissero anche i luoghi di risonanza più umili e nascosti, che sono poi quelli che testimoniano la nostra umanità, suscitano le nostre più autentiche emozioni, rivelano le nostre ferite ed emanano la nostra luce.
I volti, le voci, i gesti, i comportamenti degli avventori ci scorrono davanti agli occhi come fossimo noi stessi dentro il “posto” di lavoro della cassiera/poetessa Lucianna. Ciascuna “storia” si imprime anche in noi, incide in qualche pulsante angolo del nostro cuore una traccia, magari minima ma persistente, un segno che ci terrà per sempre compagnia.

Quando l’attenzione è “realmente attesa a ciò che non esiste” (parole di Simone Weil citate in esergo) il cuore sa far spazio a ciò che manca, rinvigorisce la memoria: «Soli siamo ad imbastire nomi, verbi, aggettivi / per poter dire di quel luogo di maree dietro le parole, / come me, ancorata a un foglio tra i flutti di un silenzio visibile // dove è un andare e tornare – senza distanza. / Dove mi sgravo di versi scritti in piedi, / in fretta prima che sfuggano alla memoria stanca / che ormai sa solo i volti e dimentica i nomi. / Eppure ha fede, ha carità e continua a nominare, / ad annusare il vuoto, a dire meglio la speranza / e questa vita in paragrafi.» (p. 54).

Questa è una splendida dichiarazione di poetica e al contempo viva creazione di immagini, cascata di fotogrammi che ci propongono dei film paralleli, sovrapposti, ricchi di molteplici suggestioni ma con parole semplici, empatiche, direi affettuose. C’è una immedesimazione sincera e profonda di Lucianna Argentino nei confronti di chi si presenta alla sua cassa con il proprio carico di acquisti e (soprattutto) di vita in ogni pagina di questa raccolta. Solo alcune sporadiche citazioni: «Irene cammina sul suo dolore e sente il tempo / scricchiolarle tra i denti come sabbia.» (p. 55); «Se si potesse amplificare il battito / del cuore di ognuno si potrebbe ascoltare / la fragile esitante nudità dell’incerto.» (p. 58); «se ci sporgessimo oltre le nostre verità stanziali, / (…) / per accoglierci dentro quel provvido mistero / che fa della vita un cammino.» (p. 59); «Ma forse è il nascere a guastarci, / quel giungere – da dove? – quell’essere in fieri, / che fa di noi dei diventati.» (p. 60); «Eppure sapere chi si è / è il primo passo per adattarsi a ciò che non si è.» (p. 62); Mimì era un uomo con lo sguardo di fiume / (…) / e stava come mai uscito dalla nascita, / rannicchiato in una bolla di eterno. / (…) / … randagio senza randa / (…) / L’amore lo sapevi dall’assenza, / non di cosa stata e andata via, / ma come di avvento sempre rimandato» (p. 63)…

Quanta forza e quanta delicatezza sa esprimere la Nostra, impregnata di letture e di saggezza, ferita ma fiduciosa, occhio vigile e discreto, mano disponibile all’aiuto, volto che non dimentica il sorriso, anima provata ma capace di dilatarsi e accogliere e convertire «la ferita in cammino» (p. 81), di riconsegnare i volti «all’infanzia o a Dio, / così mi stanno dentro per amore e non per dovere.» (p. 16).

Se non si fosse ancora capito, credo che queste Stanze inquiete siano un’opera epocale, indicano con autorevole dolcezza un senso buono che tutti abbiamo e che tutti possiamo contribuire fraternamente a costruire, e di cui c’è assoluto bisogno in questa temperie confusa fra terrore e indifferenza, connessione continua e individualismo, latitanza delle classi priviligiate e sconvolgenti disuguaglianze: «… un senso buono potrebbe farci strada, / essere varco verso quel piegarsi pietoso, quel corpo genuflesso in noi / che non ha un nome e non si può invocare, / ma lo senti a perdifiato, lo tocchi dal rovescio.» (p. 22).

 

lunedì 25 luglio 2016

“Gli Specchi Critici” La Consuetudine dei Frantumi di Fulvio Segato – Luca Cenacchi

La consuetudine dei frantumi di Fulvio Segato è la raccolta poetica emersa vincitrice dal concorso Faraexcelsior 2013, indetto dalla casa editrice Fara Editore.
Segato, con questo libro, ha riscontrato una moltitudine di consensi in campo nazionale (premio speciale Casentino 2016, premio Massa, nonché attenzione critica).
Sulla scorta di Giuseppe Carracchia, dunque, vorrei anche io partire da una suggestione da tener presente e riprendere più tardi,  questa volta da Montale: “qui dove affonda un morto / viluppo di memorie, / orto non era, ma reliquiario.”
Del Libro di Segato ciò che spicca è il confronto doloroso, a tratti tragico, di due realtà: una quotidianità  aurorale, intima, annidata fra i profumi, odori (ma non solo) che la “riportano a galla”, la quale si incastra e
stipa nella negatività presente con cui, inevitabilmente, stride “e le ruote nere avevano fili di paglia / incastrati,  portati da chissà dove, / – da una terra tenera, da un tempo che / questa lunga strada esaurisce e cancella.”
Questo confronto, o meglio, questa sovrapposizione, è la scena poetica in cui si diramano le ombre, cifra della maturità di questa raccolta, che increspano e perturbano l’apparente quiete della rievocazione.
Segato non può esorcizzare il presente abbandonandosi a una malinconia confortante e testimonia più di altri (Amadei) lo straniamento dell’individuo. Il poeta è costretto, dunque, a confrontarsi (e confrontare) con quel suo passato particolare annidato negli odori, nel vento (ma non solo) inscritto in un presente in cui talvolta fatica a riconoscersi ed attecchire.
Si addensa così un dialogo narrativo da cui emerge un circolo tematico, sentimentale, esistenziale[1] che si frantuma e rinnova costantemente nel variare di flash di quotidiana visività, i quali rappresentano un paesaggio interiore ed esteriore, presentando così, in questo libro, la sarchiatura del territorio poetico fatta dal tempo.
Questo immaginario diventa, tra le altre cose, sottile scena di una certa miseria umana, la cui denuncia rimane sempre dolorosamente soffusa, ma non per questo meno penetrante “e saluti la gente che non c’è, e ti fermi un momento / a parlarci, a chiedere – come va? / Basta questo pasto di sempre, / quello che cambia è l’ordine / delle sedie attorno al tavolo e accorgersi / che si ha sempre meno fame.”
La suggestione di Montale soccorre, ora, piuttosto bene il nostro discorso. Quando Segato effonde le sue tonalità più sinistre, rivela quel particolare reliquiario ai bordi dei quali egli intona la requie delle relazioni umane. Un canto anche testimone del tempo, del suo trascorrere e dei suoi effetti, delle varie declinazioni che esso può imprimere alle cose: “Ogni spostamento è tragico / ogni trasloco cancella, depone / in altre parti, in scatole grosse / o piccole, le etichette poi si mischiano, / i libri in cucina, i vasi negli armadi / vicino alle giacche sulle grucce, / con le palline di naftalina / nelle tasche assieme a piccoli / pezzi di carta con scritture pallide / di come eravamo.” Una di queste declinazioni è raccontata bene nella poesia Le campane: “non puoi parlare mentre mastichi / ma lo senti il suono delle campane, / le campane che suonano anche per il fiume / anche per i pesci che c’erano in quel fiume, / anche per i vestiti malamente piegati / lasciati sulla riva, incastrata fra i rovi, / come fossero bandiere le canottiere bianche/ le sottane rosse, le scarpe, i sandali, / suona la campana mentre mangi, la tua bocca / non può dire, lo fa la campana, ci spiega la storia / la storia che andavamo al fiume a bagnarci e / vedevamo i pesci nell’acqua come specchio, ora / è la campana lo specchio, ci vediamo dentro / il suo bronzo, se facciamo attenzione, ci vediamo, / vediamo tutta la città e il fiume / e dentro il cucchiaio li vediamo/ e l’inverno senza gelo vediamo/ e vediamo il gelo dell’inverno/ senza la neve.”
Segato ci sa mostrare come il tempo pervenga anche a un graduale erosione della memoria “il tempo fa le sue cose, toglie la vanga, / arrotonda i sassi, smussa il senso d’abbandono, / scolora le foto e inganna la memoria e le rondini / volano sempre più in alto della domenica” finché non giunge la fine “la tovaglia ben piegata / senza crespe né onde / distendila / dritta come dovrebbe essere / una vita che passa e poi, / arrivata al bordo, finisce.”
La dimensione temporale viene accettata e rappresentata nella sua inevitabilità anche dolorosa come quella degli spettri dei defunti, anche essi familiari, che traspaiono nelle crepe a testimonianza di un passato morto, ma da salvaguardare, su cui incombe la vera minaccia annichilente: “quel profumo di terra buona che, ricordi, / ha la terra quando piove un poco, / quando si alza quel vapore che arriva / alle caviglie e ti sembra di camminare / nel nulla, nel niente dove passano e vivono / gli spettri, le persone che non ci sono / le donne che sono andate e anche i ragazzi, / andati in una parte sconosciuta del cosmo, / e questi uomini la stanno chiudendo, questa crepa, / e ridono quando lo fanno, e la chiuderanno.” 
Questo Annichilimento è rappresentato anche in una innaturale e meccanica routine cui l’individuo è sottoposto, vittima della sua imperatività che lo strumentalizza, contribuendo, assieme alle altre forze, non solo a straniare l’individuo da sé stesso, ma anche dagli altri: “non sapresti riconoscerti se ti vedessi, / adesso, in piedi, un poco curvo, in quell’angolo / sotto quella finestra.”
Segato tuttavia non ci fornisce una pellicola che rispecchi la mobilità di una geografia transpermanente, ma da essa ne prende le distanze (Accomodati vicino a me) per poterla fermare, frammentarla in flash i quali vogliono essere e sono familiari, consueti e che caratterizzano la sua poesia, la cui cifra visiva, “immobilizzata” dal racconto, non è disgregata dal ritmo costantemente inarcato.
La consuetudine dei frantumi è, dunque, quella sarchiatura a tratti comune del tempo in cui il poeta, in ultima analisi, si riconosce e identifica ritrovando e riscoprendo costantemente la sua radice, anche se a volte dolorosamente.

La consuetudine dei frantumi Fara Editore 2016
Anche disponibile in E-book
[1] L’odore, Il corpo, i luoghi, il tempo – Intervista di Giovanni Fierro


Fulvio Segato è nato nel 1959 a Trieste, città dove lavora in una scuola pubblica. Negli anni ottanta ha pubblicato due raccolte Io, Narciso e I Canti della Fenice. Nel 2013 pubblica Vocativi in eco (Edizioni  Helicon) primo premio Casentino con nota di Silvio Ramat e La consuetudine dei frantumi (Fara Editore)  primo premio Faraexecelsior. In narrativa nel 2014 Cadono i cormorani e altri racconti viene premiato e pubblicato con l'Editrice Progetto Cultura. E' stato finalista e vincitore in vari concorsi letterari nazionali: Gozzano a Terzo d'Alessandria, Città di Massa, Giuseppe Malattia della vallata a Barcis, Laurentum a Roma, Casentino a Poppi, Borgognoni a Pistoia e più volte il Leone di Muggia. Pubblica Sta mia difesa (Samuele Editore 2016). Suoi testi in dialetto triestino sono stati pubblicati nel numero 18 della rivista di cultura poetica Smerilliana di Enrico d'Angelo. E' presente e recensito nell'Almanacco di poesia della Puntoacapo editrice. Alcuni suoi testi sono pubblicati sulla rivista Poeti Contemporanei diretta da Elio Pecora. E' presente in riviste letterarie su alcuni siti web.

Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se stesso è stata  selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti - Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario i Gladiatori della penna. I suoi testi sono stati  presentati nella serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola organizzata dalla Associazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso la trasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie(La Perla , Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La mia sfida al male pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità , in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberosbookstore, Fara Poesia e ora anche L'Arcolaio. Nel 2016 è stato giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016. Ha partecipato alla rassegna poetica di Pianetto Poeti alla finestra presentando una serie di poesie inedite. Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com, facebook, twitter



venerdì 22 luglio 2016

De Togni, Guarino e Lamberti vincono il Faraexcelsior 2016

I giurati (Giuseppe Carracchia, Griselda Doka, Luca Cenacchi,


della VI edizone del concorso 


sez. Poesia (v. anche sez. Narrativa)

hanno decretato vincitore

Opere vincitrici ex aequo



Si può suonare un notturno su un flauto di grondaie?
di Mariangela De Togni (Piacenza)
Mariangela De Togni, è nata Savona. È suora delle Orsoline di Maria Immacolata di Piacenza. Insegnante, musicista, studiosa di musica antica. Membro dell’Accademia Universale “G. Marconi” di Roma, ha pubblicato diverse raccolte di versi: Non seppellite le mie lacrime (1989), Nostalgia (1991), Una Voce è il mio silenzio (1995), Chiostro dei nostri sospiri (1998), Profumo di cedri (1998), Un saio lungo di sospir (2000), Flauto di canna (2004), Nel sussurro del vento inserito in Quaderni di Letteratura e arte (2005), Le visioni del Verso (2008), Cristalli di mareFiori di magnolia, Frammenti di sale (2013). È presente in Agende, Antologie e riviste di poesia contemporanea. Numerosi i premi e le segnalazioni di merito.

LA MAGIA DI UN SOFFIO DI MARE


Ombre di smeraldo
sembrano le onde alte
del mare
in una bellezza che travolge
anche i pensieri.

Sul colore del tramonto
la sua danza nel battito
profondo del respiro.

Si sta vestendo di luce
il mare e brilla
come una gemma nell’azzurro
scivolando sulle ali
del vento.

La riva affonda in un riverbero
tra il rosso e il verde
cupo,
dal quale scaturiscono
scintille di sole
le ultime
prima che la luna
versi il suo argento liquido
come un mosaico
frantumato.

Basterà il filo bianco dell’aurora
sul mare
a separarci dalla notte?


POSSO VEGLIARE

Cammino scalza
su quelle pietre rosse
roventi di sole
con negli occhi azzurro
l ’impasto di luce
e vento.

Oggi mi confondo
in altri orizzonti d’alba
in una sosta che è respiro
nel fluire del tempo.

Potessi vagare
nel liquido silenzio
di tanti crepuscoli e notti
silenziose.

Scelgo la parte migliore
che mi assomiglia, all’anfora
quietata dall’acqua
della roccia,
al giorno confinato in fondo
al buio fitto di stelle.

Ho ancora olio
nella lampada e posso
vegliare sulla pagina
di friabile grana
del mio giorno.
(…) 


«Poesie di forte ed intensa suggestione evocativa che pongono la figura umana in posizione centrale nell’ambito della natura, percepita in dimensione creazionale e con proiezione trascendente. Tessuto poetico costruito con abili intrecci di figure riprese dal mondo naturale e modulazione musicale del ritmo.» (Rosa Elisa Giangoia)

«Suggestiva e sorprendente silloge che si presenta come una sinfonia incantata, capace di cogliere e restituirci il bello della vita in brevi e piccoli bagliori, scelgo la parte migliore / che mi assomiglia. Il tutto sembra nato da un vegliare lungo un cammino di fede e speranza, dove il bianco del pennello o la friabile grana della carta riescono a fare centro in quel confuso spazio della memoria. La voce del poeta è una risonanza diretta della voce divina, dove lo spirito trova il suo habitat naturale e c’è sempre: una strada, una luce e un silenzio di neve. C’è, dunque, il movimento necessario, l’illuminazione giusta e la chiarezza disarmante che collocano questa silloge in quella scia della poesia spirituale al suo miglior debutto: si può suonare un notturno su un flauto di grondaie?» (Griselda Doka)


 La costellazione dell’assenza
di Antonio Guarino (Avellino)  

 

Antonio Vittorio Guarino (Napoli, 1985). Vive ad Avellino. Ha pubblicato: La Vita Beota (Ed. Il Foglio Letterario, 2009) e La caduta dalla giovinezza (Onirica edizioni, 2011). Alcuni suoi testi sono presenti su riviste e antologie.

Sezione Il tempo dell’orfano


*

Già e non ancora,
dal finestrino le nuvole
si ammassano oscure,
per dare la pioggia alla luce –
e cadrà, per lunghi giorni
e lunghe ore, sulle auto in fila,
come in lenta processione.
Già e non ancora,
dal mattino alla sera
e dalla sera alla notte
(in attesa che il ladro venga
a derubarci), con gli occhi
aperti sui segni,
perché solo gli insonni
si salveranno.
Così, non sappiamo
chi abbia vinto o chi
abbia perso. In aria,
mezz’ore di silenzio
si susseguono. Là
forse tutto è finito
da un pezzo, mentre
qui si sente solo l’eco
di trombe che hanno già
squillato, e che domani
squilleranno ancora,
fino alla fine.


*

La vita torna sui suoi passi,
occhi bassi e niente da dire
a nessuno, soltanto pensieri in testa
al corteo di pretesti precari:
comprare un regalo, del fumo,
andare in giro, incontrare
qualcuno che non incontreremo.
Fogli come colombe si alzano da terra,
piroettano in aria, lambiscono i rami,
restano impigliati nelle reti arancioni
per i lavori stradali.
Il moto di cose inanimate
predice il vuoto che appare
nascosto dalle lamiere.
C'è una forza che ci spinge
e porta – Caritas Christi urget
nos? No –: è solo il vento.
Un dio remoto dorme
in cima ai campanili,
sulle guglie, dove si annidano
nembi; non risponde, si contempla
nello specchio del cielo – l’assenza
ha il colore di un ferro ossidato. 
(…)


«La raccolta, in versi liberi, scaturisce dalla padronanza del linguaggio poetico. Utilizza la multiforme realtà per avvicinarsi all’assenza del divino che per duemila anni ha conciliato gli uomini con il cielo.
Viviamo, attraverso questi versi, il nuovo diluvio universale; il diluvio del Nulla sceso nella bestia umana dal cielo; cielo dove svettano le guglie ossidate delle chiese: “Un dio remoto dorme / in cima ai campanili” e l’anima si corrode nelle ansie del tempo.
Una divinità che contempla se stessa nello specchio del cielo, assente agli uomini caduti in un triste e grigio anonimato. La realtà è un’offesa al Dio dei credenti: “Questa povertà manifesta / non compresa, è il limite di ogni discorso /  sul mondo, la negazione di una ragione /  intrinseca alle cose.”
L’uso forte delle similitudini nei versi  prende vita negli oggetti quotidiani, nelle azioni comuni, nei luoghi frequentati dal poeta e dalla sconosciuta marea umana.
L’intero ordito della raccolta fonda sulla ricerca del mistero, della Sua essenza, che agita l’umanità da millenni: la fine dell’esistenza è possibile scoprirla raggiungendo un’altra dimensione ? Si legge nei versi dell’emblematica poesia “Quando tutte le nostre parole saranno deportate in”. C’è in questo componimento la destrutturazione dell’incipit delle religioni monoteiste presenti oggi sul pianeta. C’è però anche la rivelazione che aspettiamo: la fine del nostro spirito nella luce eterna. Incontreremo noi stessi senza età, senza tempo da subire o rincorrere. Saremo eterni nel mistero. Il paradosso è che l’unica energia alternativa al bene resta il male: confrontandoci con il male, la sofferenza del nostro corpo, riusciamo a scorgere l’alternativa nel bene.
L’intera raccolta vibra di profondo amore verso la divinità da raggiungere . Il dio vero, nudo sulla croce, che si mostra al poeta proprio nella lotta contro il male presente nel mondo: “ (…) E lì mi annunci / un segreto: il male è il paravento dietro al quale /  tu  ti spogli e sei nudo.” , vale a dire: divieni umano come noi.  Dicotomia millenaria! Alla fine resta il mistero e la ricerca del bene supremo che acquieti lo spirito interiore, il quale avverte la costellazione dell’assenza divina come un presagio malvagio nella cupola celeste che sovrasta l’intera umanità . Ma nessuna forma divina ci raggiunge. Restiamo, scrive il poeta, per sempre nel mistero e quel “ faccia a faccia” cercato da secoli richiama esemplare  le parole di Giobbe, prese dalla Bibbia : “ Io so che il mio redentore è vivo e che ultimo si ergerà sulla polvere. Senza questa carne vedrò Dio, io stesso lo vedrò, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero.”
Quindi le due sezioni, caro lettore, nelle quali è divisa questa raccolta poetica annunciano all’umanità orfana di un Dio che Egli è presente in tutto il Creato, in tutte le sue creature, nelle stesse inermi cose, ma va cercato.
L’attesa della scoperta divina è parte di quella infelicità che lascia dire a chi soffre: “Che c’è fra te e me?”  Lentamente il poeta, insieme a noi, affida nei versi della chiusa  di questa raccolta il senso dell’intera umanità: “ (…)  dall’altra parte, da occhi diversi, mentre noi con gli /  stessi  / vedremo non più come in specchi ma finalmente faccia /  a faccia.”
L’uso dell’enjambement accelera l’energia che si irradia nella sete millenaria che accompagna l’Umanità in ogni angolo del pianeta, anche dove l’Età della Pietra non è ancora finita.» (Vincenzo D’Alessio)



 


Le cose piccole non si vedono in autostrada
di Claudio Lamberti (Salerno)

 

Nato a Salerno, Claudio Lamberti ha conseguito il diploma classico nel 2009 e frequenta la facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università degli studi di Salerno. Ha scritto su forum di letteratura e arte (“Aspiranti scrittori”, “Gladiatori della penna” e “Inchiostro diVerso”) partecipando a diversi contest ivi organizzati, tra cui la league di poesia del forum Inchiostro DiVerso nell’anno 2014. Ha pubblicato sul blog di racconti Storie dal XXI secolo i racconti brevi “Puro” e “Fumo”. Da febbraio 2016 scrive per I racconti di Tèlema, pagina facebook a tema disegno e narrativa fantasy, in qualità di autore e amministratore. Ha partecipato al contest di poesia slam Sputa il rospo valevole per il campionato della LIPS (Lega Italiana Poetry Slam), riuscendo a raggiungere la finale regionale campana a Benevento nel maggio 2016.
 
Prologo: “La creazione”


Lupi nelle nebbie fredde
non siete soli
non siete soli!

Fratelli
in cerca di anime
si scontrano
puro disordine
di chi ha voglia di vivere

È mio ogni atomo
ogni attimo di respiro

Vicino
a me l’universo
ti è amico
ti ama
ti è padre
la madre dell’ombra infinita

Siamo nulla
perciò esistiamo 



“L’assordante beat della speranza”
L’alta marea dell’oceano di luci
arriverà
senza particolari lune
senza altisonanti preavvisi

Così

Guarderemo
mettendo punti a casaccio
sulle nostre vite
così sottovalutate

Sotto un firmamento di perché
di miriadi
di rumori inascoltati

L’assordante beat della speranza
arriverà
anche per noi 
(…)


«Ungaretti dice nella nota alla sua raccolta Sentimento del tempo: “Michelangelo mi ha rivelato, dunque, il segreto del barocco. Non è una nozione astratta che possa definirsi con proposizioni logiche. E’ un segreto di vita interiore e la lunga intimità con quel barocco, che mi era poco prima estraneo, mi ha abilitato all’accettazione di tutte le differenze, di tutte le tensioni interne, di tutti quegli apporti che l’uomo può pervenire a fondere nel suo proprio genio, se ne avessi.”
Con questo non voglio certo sostenere che la raccolta qui presa in considerazione sia barocca, ma che essa attraverso una stilizzazione apertamente tesa all’indefinito, in un modo personale, esprime anch’essa le differenze delle tensioni interne, anche se contraddittorie, del suo percorso pervenendo a una fusione onirica, attraverso il flusso esercitato dall’io che domina ogni momento delle poesie, di interno ed esterno, la quale genera una disgregazione del referente reale, concretizzandosi in immagini o momenti il cui gusto è marcatamente vago e indefinito, fino a un astrattismo estremo( come testimonia ad esempio la poesia A voce oppure forti associazioni come: Sogno di gravità). Certo, la raccolta non vuole di certo restaurare il linguaggio poetico, come è successo invece per l’ermetismo generatosi dopo il Sentimento del Tempo. Se la stilistica ermetica, come affermano Casadei e Santagata, è un adeguarsi a un impianto simbolista, ma anche un adeguarsi “ alle scelte classicheggianti della poesia pura: tono sostenuto, lessico alto, vaghezza semantica” o meglio “ una vocazione evasiva”, nelle poesie di questa raccolta si delinea un linguaggio di variegata estrazione, talvolta anche extraletterario e non sembrano esserci nemmeno particolari tensioni mistiche. Nonostante questo rimane il primato dell’immaginazione che uno stile teso all’indeterminatezza e alla evasività richiede, immaginazione che esplora non tanto il mondo ma l’esistenza dilatando, all’interno di ogni poesia, le piccole cose che non si vedono dall’autostrada finendo per esplorare e rendere conto, nella sua rete simbolica alquanto personale,dunque non direttamente dipendente o vincolata a Mallarmè, le intime strutture dell’esistenza, come solo una poesia che tende alla purezza può fare, pervenendo così a un rapporto più intimo con quest’ultima.

Questo percorso si sostanzia in varie declinazioni metriche, tra le quali spicca un l’andamento ternario che si acciacca jazzisticamente nelle discrepanze logiche di cui il periodo soffre, causate dagli “a-capo”. Questa tendenza ha la sua sintesi più evidente in Kiu.

Ma indeterminatezza e vaghezza non significa involontario o inconscio. Infatti la raccolta si delinea come un percorso esistenziale di cui si possono delineare temi ricorrenti. Uno di questi è quello della caduta. L’autore sembra ricercare nella forza di esperienze forti e traumatiche un intimo stimolo alla vita, affinché esso possa alimentare una vitalità sempre ricercata (sogno di gravità, Tsunami che, per inciso, è composto da due tanka). Vero è anche che si può notare una tendenza di “mutaforma”, nel senso in cui la necessità dell’autore di scomporsi in altro da se, soventemente in elementi appartenenti alla natura, per cercare di pervenire a una quiete armonica in cui egli riposa (Immortale, Armonie di Silicio, Gocce, Silvatico, Clorofilla, Liquefarsi ecc.). Così si delinea il progredire di questa raccolta per contrasti violenti necessari per descrivere l’esistenza che l’autore vede attorno a se, ma di cui esso soffre e da cui, talvolta, sente la necessità di accomiatarsi, per trovare conforto in un tutto armonico, o in qualcosa che riesca ad emergere dal flusso multiforme e disgregante in cui egli è costantemente rappreso (la Luna, la natura, oppure anche solo il silenzio ). Il dissapore che l’autore non riesce a digerire si paleserà in un contrasto con la società nelle ultime liriche della raccolta, caratterizzate da ritmi secchi e decisi nonché da toni accidiosi e immagini talvolta rugginose.» (Luca Cenacchi)



«Buona tenuta dei versi, ricca proprietà di linguaggio. Bella esposizione dei sentimenti.»  (Vincenzo D’Alessio)





Opere votate



Nei resti del fuoco di Davide Valecchi (Dicomano, FI)

 

DavideValecchi è nato a Firenze nel 1974. Laureato in lettere (con una tesi sulla poesia di Maria Luisa Spaziani), dopo un lunghissimo apprendistato poetico ha esordito nel 2011 con la raccolta "Magari in un'ora del pomeriggio" (Fara Editore) e le sue poesie sono in seguito apparse in vari volumi antologici e blog letterari. Collabora spesso con artisti e poeti alla realizzazione di eventi multimediali legati all’interconnessione fra parole, musica e immagine. Polistrumentista, ha frequentato generi diversi (rock, elettronica, sperimentazione) pubblicando vari lavori sia con gruppi che con progetti solisti. Le sue attività sono documentate nel blog davidevalecchi.blogspot.it

l'orizzonte confuso e compatto è un affastellarsi di ombre,
tagliato da improvvise vite che per un attimo intravvedemmo 
Remo Pagnanelli


SOSTITUZIONI

È stato ieri, quando ero un altro,
che lo spazio bianco in mezzo ai rami
valeva come un trionfo del vuoto:

il cambiamento odierno invece
riempie le mani di un velo minerale,
una nebulosa di nomi da soffiare via
e dimenticare, in quest'ordine.



La sostituzione è annunciata senza clamore:
il periodo ha il marchio del vuoto
e segni inconfondibili.

Diminuisce il tempo per rimanere insieme,
le macchine con il megafono
hanno smesso di circolare,
la notte comincia ad arrivare prima.



Forse non regge l’argine di corpi celesti
predisposti a riempire gli spazi
tra le nostre immagini,
se aprendo gli occhi
vedo file di alberi, strade, pareti
e neanche l’idea di una presenza
extrasolare attraversa il cielo.

Il luogo che ci accoglie si raggiunge
seguendo superfici conosciute
e basta qualche parola terrestre
per stabilire una direzione certa. 

(…)


«Nei resti del fuoco è una silloge corposa, densa di significati, di immagini, di figure e di riflessioni. Rappresenta, infatti, il lavoro minuzioso del poeta che non si rassegna al vuoto, da quando le parole caddero la polvere sul vetro è diventata impenetrabile.

Difficile resistere alla durezza dei nostri tempi, dove tutto cambia così velocemente a prescindere dalla nostra volontà; aspettando l'immobilità/nessuno sospettava/che stessimo fondando/ un culto del dimenticare/ perdurato nonostante noi. Il recupero dell’essenziale è un scavare di strati e macerie dove la poesia ancora una volta serve anche a questo scopo; ritirarsi per ritrovarsi, allontanarsi per rimanere, ritornare per ricominciare, da ciò che resta, nonostante tutto!» (Griselda Doka)



«Bellissima poesia del divenire, potenti note del vivere moderno, difficile da raggiungere senza l’intensità dell’esistere.» (Vincenzo D’Alessio)




Il prossimo tuo di Daniela Monreale (Figline e Incisa Valdarno, FI)

 

Nata a Palermo, Daniela Monreale vive in Toscana dal 1998. Ha pubblicato vari libri di poesia, tra cui Lo sguardo delle cose (Nuova Editrice Magenta, 2001), Corpo a corpo (con Fabrizio Bianchi, Lietocollelibri, 2003), L’attracco sulla luna (Il Crocicchio - Inedition, 2006), Gli occhiali di Spinoza (L’Arca Felice, 2011), Ascoltare vento (Raffaelli, 2014), La fragilità del silenzio (Joker 2016), e partecipato a numerose antologie, tra cui Così pregano i poeti (San Paolo, 2001), Nuove declinazioni - Aforismi (Joker, 2005) Poesia Toscana del ‘900 (ill. di Aldo Frangioni, Libro d’arte, Edizioni della Bezuga, 2007), Poesia del Novecento in Toscana (Biblioteca Marucelliana, 2009) e Nuovi Salmi (Quaderni di CNTN, 2012). Ha curato il volume Helle Busacca - Poesie scelte (Ripostes, 2002) e scritto il saggio teologico-letterario Nostalgia di Dio madre nel “pensiero poetante” di Veniero Scarselli (Genesi, 2012). Studiosa di arte e teologia, è diplomata in metodologie autobiografiche presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e da alcuni anni si dedica a progetti formativi di scrittura autobiografica e di poesiaterapia. Collabora ad alcune riviste culturali, con recensioni e saggi critici.

1

La vanità della parola
appiccicata per dovere,
talloncino di marca,
la distesa dei volti si appiattisce
e intanto muore la voce
del più piccolo abitante del pianeta.



2

Quando ti parlerò sarà solo per te
che mi mostri le tue ferite,
e il sale della sofferenza
non avrà recipiente,
nelle mie mani nude,
so prendere il tuo cuore nero
per dare acqua al male,
perché sia sponda di pace
al tuo pianto,
al tuo errare.



3

Occhi soli, occhi del diseredato,
mani dure e sporche che non guardi,
non consoli, la pietra d'inciampo
è la diffusione del guardare,
scorrono immagini dell'anima sfrattata,
e intanto luci del varietà,
problemi di campo, ciniche ossessioni
della prossima ingordigia. 
(…)

«Poesie di sofferta umana partecipazione nella consapevolezza della comune consonanza del sentire di fronte alle difficoltà del vivere, condotte con adeguato tono poetico discorsivo in un registro volutamente basso che privilegia le disarmonie tonali, in un fraseggio pur sempre adeguatamente sostenuto.» (Rosa Elisa Giangoia)



«“C’è un darsi/ che non obbedisce alle forme/ e stride con le credenziali/ della buona impressione./ È la patria del dono leggero,/ senza pensarci su,/ che va oltre la bella faccia,/ la tasca piena, il pedigree/ o il curriculum europeo, si tratta di semplice simpatia/ tra umani, nella bellezza/ di farsi migliori con il poco/ che ci si trova tra le mani”. Ecco un breve squarcio di questa versificazione dolce, secca, realistica, che affronta con pietas e autentica sincerità l’attualità migratoria, emarginativa, e dispregiativa di ogni diversità e di ogni povertà, nel rapporto di convivenza sociale. Un coraggio nel proporre una presa di coscienza civile sulle inaccettabili forme di immiserimento delle esperienze umane altrui, e sul modo di estraniarsi dal rapporto con l’altro, per la paura di un improbabile contagio o per una semplice e totale indifferenza. Un modo di allontanarsi dal senso della socialità che caratterizza il mondo contemporaneo e che spiega il degrado etico e umano dei comportamenti. Un verso nitido, semplice, accurato, esemplificativo, dimostrativo, vocativo verso il lettore alla ricerca di partecipazione, di comprensione e di riconoscimento dell’essenzialità dell’altro. (Ottavio Rossani)



«Versi attenti alle cose nascoste nell'esistenza. Le essenze indefinite degli uomini, la bellezza che promana dagli oggetti.» (Vincenzo D’Alessio)





Abbiamo educato le rètine di Riccardo Deiana (Torino)



Mi chiamo Riccardo Deiana, sono nato a Ronciglione (VT) il 10/11/1988 e sono cresciuto nelle etrusche campagne di Vetralla, ma ormai da 8 anni vivo a Torino (in via Pisa, 41 – 10153, presso Pani) dove mi sono trasferito nell'Ottobre del 2008 per fare la triennale in Lettere Moderne e Contemporanee. Nel 2013 mi sono laureato con una tesi su Vincenzo Cardarelli. Attualmente sto per laurearmi alla magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica Italiana presso la stessa Università, con uno studio sulle origini della Collana di Poesia della Einaudi. Contemporaneamente agli studi, ho fatto numerosi lavori (dal collaboratore giornalistico per un settimanale sportivo piemontese, all'insegnante di italiano L-2; dal cameriere alle ripetizioni, fino a lavorare con i disabili) e vinto qualche piccolo premio letterario, uno dei quali mi ha dato la possibilità di pubblicare un libricino intitolato Oltre le vili nubi. Inoltre, ho scritto un articolo su Cardarelli e un altro su Amelia Rosselli per la rivista culturale viterbese «Biblioteca e Società». Il mio indirizzo e-mail è: riccardeiana@yahoo.it

- Metà Aprile -

A Gabriele educatore



10 del mattino del 15 d'Aprile;

brezza fresca di montagna piena

dell'odore dei fiumi di pianura;



la bambagina dei pioppi fa pensare all'al di là

(tu ne starnutisci come allergico nel fazzoletto,

e senza troppo speculare,

nel caricamento del quarto scoppio,

con voce assottigliata

quasi tirata in falsetto,

                                                     sibili: “detti i problemi,

rovinato il caffè, ora è tempo

                                                                       di soluzioni”);



terso il cielo (terso:

che nella nostra fonetica etrusca sembra

succeduto a un secondo, succeduto a:

“Dopo i suoi occhi”, scherzo,

ma tu, stavolta meno sicuro: “è dopo

l'al di là

                   o prima?”

“Dopo il cielo svolazza la Cristoforetti!

Forse è prima” tento

nel dubbio “prima del cielo, negli occhi bambini...”)



10 del mattino del 15 d'Aprile

sulle teste

                       terso il cielo,

noi con una domanda con un sorriso amaro in più e

come il mese crudele

                                              a metà. Ma di sibilare

non smetti “è tempo, ora è tempo...”.        



                                  




 - Giudicare -


dopo Lévinas



                  I.



Ci hanno miseramente educati a giudicare



a giudicare sempre e comunque puntando l'indice

duramente

mai mescolando il cuore alla falange,

all'unghia le prime umiliazioni

                                                                          i più atroci inganni:

“insegnare è allenarsi al tirassegno al luna park,

è procedere all'indietro dai i riverberi dell'altro e

colpire il centro, è fare pesca grossa col retino”;



educati... come se giudicare non fosse avvicinare ma

prendere distanza: un elicottero che non atterra vola

sugli occhi, vola su mappe (poi cade in avaria a fine benzina...):

solo stracciando le carte si ritrova la geografia.

“Se un uomo vedi bastonato sul ciglio del viale

non pensare al giro losco in cui s'è messo ma chiamalo

fratello, e al legno sopperisci col tuo braccio

tendilo: è donarsi il miglior dono da sperare”.



                  II.



Abbiamo educato le rètine a tramandare il contrario -



alza la mano e chiede se i lupi, tra loro davanti

a una coscia sbranata, si dicono che fuori dal branco

sarebbero “uomo ai danni di altri lupi... - 



così l'istinto viziato crede identico lo sguardo

carico d'odio

                            agli occhi della paura e

le palpebre abbassate, come saracinesche a metà

con un sopracciglio in quota,

coincidenti all'odio di nuovo (“lo spavento è

la punta, ma la TV non ci ha insegnati all'iceberg,

al duro ghiaccio e dolce nel salato mare umano,

ma al chiacchiericcio spudorato, alle urla animalesche.

Prendiamo un temperino e azzeriamo le matite,

ricominciamo facendo segni

                                                                da noi”).

  (…)


«Poesie multimediali intente a portare la modernità nei versi di oggi.» (Vincenzo D’Alessio)




I dettagli minori di Massimiliano Bardotti (Castelfiorentino, FI)



Massimiliano Bardotti vive nella Val d'Elsa a Castelfiorentino. Con Thauma edizioni ha pubblicato: nel 2011 Fra le Gambe della Sopravvivenza (finalista al Premio Mario Luzi, Arezzo Poesia Sergio Manetti, Premio Sulle Orme di Ada Negri, Premio Città di Sassari e Premio di poesia Annuario Giulio Perrone ed., terzo classificato al Premio Città della Spezia e vincitore del Premio città di Manfredonia Re Manfredi); nel 2013 Ne abbiamo fin sopra i capelli dell’umano, scritto con Luca Pizzolitto e Serse Cardellini (il libro è tradotto anche in polacco); sempre nel 2013 esce A Cieli Aperti. In collaborazione con Genny Carusi cura la rubrica IO SONO TE TU SEI ME, sulla rivista on-line L’Olandese Volante. È ideatore e docente del laboratorio di scrittura ri-creativa Cut-up, La Sartoria delle Parole. Con Giacomo Lazzeri e Sara Giomi (musicisti) porta avanti il progetto LaMinimaParte, musica e parola che si incontrano e diventano teatro. È presente in Letteratura… con i piedi (Fara 2014) e in numerose altre antologie, oltre che in blog letterari e social network. Sempre con Fara ha pubblicato il libro di poesie L'Abbraccio.
ai fantasmi


Ah, tutti questi pensieri, questi desideri strani,
questo cercare, questo tender la mano verso un significato!

Poter sognare, poter dormire.
E lasciare che quel che ha da venire venga.
Sì, che venga.

(Jakob von Gunten, Robert Walser)
Non ho memoria della nascita.
Ne parlò mia madre un giorno
pioggia fina.
L’ascoltavo cantare quell’impresa
addosso sudore primordiale
la colpa
privato peccato originale.
Sarò madre anch’io? le chiesi.
Mi disse figlia amore mio
ogni donna è madre
lo vuole Dio
lo vuole la natura
tu eri madre già nel grembo.
Non si scordan certe cose
ma della nascita io
io non ho memoria.
Del perché il mio nome è Giulia.
Non ho memoria della sete
gli occhi asciutti di mio padre
non ricordo le fatiche
ore e giorni spesi in fabbrica.
“È per la tua istruzione”
lo diceva sempre babbo.
Io lo volevo a casa
difendermi dai mostri.
Questi ricordi dell’infanzia
le solite sciocchezze
pensieri senza nome.
La strada è mezza vuota
ci cammino imbacuccata
oggi il freddo è nelle vene
tira un vento che fa male.
Sopporto
tiro avanti
affronto ogni tiranno.
“Ci vuol coraggio figlia mia”
diceva sempre nonna Adele.
Ci vuol coraggio nonna mia
l’ho smarrito non so dove.
Eppure niente di diverso
son cresciuta a negazioni:
non fare non dire non pensare
baciare lettera testamento.
E infatti faccio
dico
penso male.
(…)
«La silloge, dove si mescolano la prosa, la poesia e la prosa poetica, si presenta come un racconto sincero e disarmante, le strade portano nomi di uomini veri, alla continua ricerca di un significato lì dove le cose sembrano sfuse a caso. L’autore non brama gesti eroici, non si giustifica affatto, sembra scrivere d’istinto più che altro per dare un ordine al suo intenso mondo interiore, colmo di memorie e sofferenze, son cresciuta a negazioni / non fare non dire non pensare.

Il verso prende vita da un urgenza comunicativa, dove l’Io cerca di scuotere sé stesso dal torpore della sufficienza, il cielo sopra il cappello di lana/non vedo non voglio vedere. Così, con lo sguardo basso su ogni speranza ma paradossalmente attento a tutti quei “dettagli minori” che rendono giustizia al corso degli eventi, il poeta attraversa in ogni attimo il mondo un cantiere di rumori e ce lo restituisce spogliato, disossato dal superfluo, tanto che sembra bastar il tratto casa-supermercato-casa per riuscire a fare della poesia il mezzo di salvezza dai fantasmi che ci tormentano. È altrove il poeta, è volutamente altro (fortunatamente): Chiude gli occhi Giulia. Ascolta il fuoco. Ne coglie i / bagliori. E fuori la neve, cade.» (Griselda Doka) 



Dittico di Andrea Parato (Riccione, RN)

Andrea Parato è nato a Rimini nel 1979, ma vive a Riccione dal 2008. Ha pubblicato saggi sulla comunicazione, racconti e sillogi di poesia (trovi i titoli in www.andreaparato.com) e ha vinto diversi concorsi letterari con pubblicazione delle sue poesie. Oltre alla formazione (tiene incontri in tema di comunicazione), si occupa di editoria e di web editing. Ha partecipato ad “Anima d’Autore” su Icaro TV. 


LUCAQUINDICI

Davanti al Ritorno del figlio prodigo di Rembrandt


Io non potevo non essere contento e non far festa, perché questo tuo fratello era per me come morto e ora è tornato in vita, era perduto e ora l'ho ritrovato. (Luca 15,32)


Cala l'ombra esitante
sulla via del ritorno
nell'ultima veglia.
La notte è migliore
per celare il rimpianto
di un atteso viandante
per le stelle ormai andate
per il sole a spuntare
dal dolore del buio;
lenta si muove un'ombra
nell'ultima veglia.
Tre generazioni a confronto,
due figli divisi e un padre
raccolto in attesa
già pronto all'incontro
si stagliano riuniti
nell'ultima veglia.


Il figlio maggiore

È tornato, l'insensato, straccione ingrato
se il sangue ci accomunava
non lo fa più la vita.
Tutto quello che ho ottenuto,
con lavoro e fatica
ora è mio. Perché è venuto?
Mani capaci solo di rubare.
Sono pietra stanotte
statua dagli occhi spalancati
a giudicare
veglierò non un fratello, ma quello che è mio.
Sarò eterno spettatore, fermo, qui
giudice terribile
sciolto dal nostro legame.
Ma ricordo le tue parole, Padre,
ricordo cosa dicesti quando partì.


Il padre

Anch'io lo ricordo.
Guardandogli dentro dissi così:
figlio nel padre, padre nel figlio
tu mi somigli perché ti rassomiglio:
non farti beffare dall'illusione d'avere
un tempo infinito, se non puoi vedere
quello che puoi, quello che sei.
Cercati perditi trovati
sui sentieri di questo mondo;
eterno è solo questo perdersi
per ritrovarsi una sera di maggio
profumata di tiglio, ma tu torna
non temere di riportare
il segno del tuo passaggio qua
figlio nel padre, padre nel figlio.

(…)
«Quadro potente – del resto a ispirare i versi è una visione di Rembrandt – della rivisitazione della parabola del figliol prodigo, in chiave moderna con linguaggio attuale, e anche con profilo scenico La successione dei personaggi, il figlio maggiore, l’altro figlio, il padre, eccetera, sono come stazioni di orazioni e riflessioni, ma anche di episodi narrativi, di forte impatto emozionale prima che razionale. I singoli episodi e i singoli personaggi sono declinati come flussi narrativi impressionisti e pieni di volute romantiche e semantiche. Quasi un oratorio a più voci. Dal punto di vista letterario il ritmo iper/oracolare è abbastanza nuovo nella poesia contemporanea. Non bisogna lasciarsi influenzare negativamente dalla forte leggibilità dei testi, che invece è un pregio per la naturalezza fabulatoria della storia, ben nota, ma che così ritratta appare quasi nuova per le articolare del sentire e del parlato. Ed è apprezzabile la pulizia della lingua in un tempo come il nostro in cui il contagio estero/linguistico e l’influenza nefasta della semantica mediologica ha impoverito la lingua italiana, soprattutto in poesia.» (Ottavio Rossani)





Luna madre mia di Valeria Tolino (Montoro, AV)




«Poesia sincera carica dei sentimenti che l’umanità deve riprendere per salvarsi. Il dialogo che la poeta intesse con se stessa è più di un monologo:  un canto liberatorio del dolore potente che giace nel suo cuore.

 Il dolore irreparabile di essere da sola nel mondo degli uomini; lontana dall’infanzia finita troppo in fretta, alla quale poter tornare per ristabilire il contatto di pace con la propria coscienza.

Tutta la trama poetica è intrisa di metafore, anela con forza ad un linguaggio poetico più alto. L’esperienza in versi è giovane e si avvia alla ricerca di una poetica personale.

Il desiderio è nel sogno. Il sogno condiviso nel buio che la nasconde con la luna assunta come madre. Corpo celeste lontano dal contatto doloroso con gli uomini e vicino all’universo. Sospesa e visibile in una dimensione che poco ha di umano.

La poeta desidera essere la luna per essere illuminata dal sole, dall’amore e far tacere il dolore che la costringe a rinchiudersi nel suo mondo.

La luna è sua madre nel cielo, la madre persa sul freddo pianeta terreno.» (Vincenzo D’Alessio)




Corpo sonoro di Valentina Meloni (Castiglione del Lago, PG) 



Valentina Meloni è nata a Roma nel 1976. Ha pubblicato con FusibiliaLibri Nei giardini diSuzhou (2015) raccolta di haiku con interventi in pittura sumi-e di Santo Previtera. La prossima pubblicazione, una raccolta di poesie illustrate dalla stessa autrice Le regole del controdolore (Temperino Rosso Edizioni) uscirà a breve. Suoi testi di poesia e narrativa si trovano in diverse antologie. Blogger,  da alcuni anni cura una pagina di eco-poesia. È redattrice editoriale per la rubrica interviste della rivista Euterpe, scrive su L’area di Broca, semestrale di letteratura e conoscenza e su Diwali-Rivistacontaminata.

la casa è un guscio
vuoto
         di cicala
tra le pareti bianche

        sopravvive l’eco
delle tue risate
come una conchiglia
quando resta
            intrappolato
il canto del mare



(a E. P. Taormina)

t’immagino
tra scaffali di libri
parlanti
e vinili graffiati
         impolverati
immobili come le ore
del giorno di questa
morta stagione
        a occhi chiusi
chiami per nome
ogni oggetto
        dalle mensole
rispondono ridendo
le voci racchiuse
        nel cassetto
della memoria



la radio scriveva
nell’aria
le onde invisibili
di baci rubati
all’ombra dei gelsi
        dalla camera
le zagare richiamavano
in vita tutti i sensi

il loro profumo
mi punge ancora
    il cuore
ma forse è solo
il ricordo
del loro candore
(tra i tuoi capelli)
che mi nasce nel petto
(…)
«“Sono corpo sonoro/ che canta le sue acque/ mi abita il mare,  il sole/ dell’inquietudine/ vivo nell’ombra la muta/ del bruco     non arrrivo/ ad avere le ali…”. Poesia leggera, grazie a  una lingua pulita, a versi liberi e ritmici. Densa di significati e di racconti che tracciano una vita e le sue direttrici. Moderna litania di situazioni esistenziali, con visioni di amore, di rapporti, di contemplazione e di ammirazione per la natura e le cose e gli affetti. Versi in forma mosaicale ma ordinati dentro una grafica volutamente irregolare e nello stesso tempo razionale. Il ritmo delle sequenze provoca un effetto ipnotico, che travolge con pacata malinconia, senza allontanare la vigilanza sul contesto generale dell’umana avventura nella contemporaneità.» (Ottavio Rossani)



«Bellissimi versi veloci e corrosivi, ricchi di vita.» (Vincenzo D’Alessio)




L’Arco, la Lira, il Fiore di Mario Famularo (Trieste)



Mario Famularo è nato nel 1983 a Napoli. Ha realizzato il portale dedicato alla poesia e alla critica letteraria Kerberos Bookstore, attraverso il quale ha cercato di promuovere l’interesse per la tradizione e per le voci nuove della poesia giovanile contemporanea, in collaborazione con diverse realtà, e in particolare con il forum letterario Gladiatori della Penna. In tale ambito, ha pubblicato il Breviario di metrica di base per pigri (2014), organizzato le selezioni per le antologia di poesia Arenae Florilegium, Volumi I (2014) e II (2015), e segue l’iniziativa Kerberos Gymnasium, una serie di esercizi collettivi sugli strumenti del linguaggio poetico, che convergeranno in una autonoma pubblicazione. Le sue raccolte di versi sono disponibili al pubblico tramite diffusione diretta ed editoria al dettaglio, sia cartacea che digitale. Tra queste: Juvenihilia (2009), la tragedia Res Publica Iustitia Privata, scritta a quattro mani con Vittorio Cerruti, Le Nascoste Cose (2011), Il Canto del Domatore (2016).


L’Arco

Quando il cupitonante padre Giove
co
l divo seme vinse nel suo abbraccio
di Latona il vergineo bianco petto,
pur suscitando l’ire ingelosite
d’Era, vendicativa sua consorte,
poteva forse il padre dell’Olimpo
prevedere ch’avrebbe scatenato
la crepitante mole di Pitone,
serpe superna e mitica, feroce
braccando d’ogni dove quella donna
affinché le impedisse il divo parto
in su quest’orbe intero perseguita?
Ei non poté, così pregò il fratello,
signore d’ogni flutto Enosigeo,
di coprire quell’isola d’Ortigia
d’una calotta d’onde risospese.
Già il drago non la vince, concedendo
all’umile Latona giusta quiete;
da quel giorno quell’isola fu Delo,
che die’ i natali al divo Apollo Febo.
Nato rifulse splendido, il castigo
parando al serpe d’Era, che
l cercava:
fu così solo il primo a ricader
sotto l’argentee frecce di quell’arco,
lesto a punir qualsiasi offesa o insulto
che il Fanio pur macchiava, o il suo retaggio.
Fu poi Niobe, superba vaneggiando,
ad attirar quell’ira illuminata,
rapida disperando quella prole
che andava già vantando irriverente,
ch’ora cade trafitta in un istante

tra le sagitte delfiche e letali.

L’arti divine e il canto delle Muse,

che il Parnaso ospitava generoso,
difendesti dacché il volgar belato
ferì graffiante della lira il suono.
Molti così quell’ira ridestando

feroce e giusta morte pur vocaron,
come Marsia, sgraziato nel caprino
strazio che già vantò divo e superno,
più di quelle squisite note dolci
che il Citaredo, offeso trattenendo,
scorticato il superbo e fastidioso,
non lacrimò intonando al suo castigo.
Chiamo quel tuo marmoreo e imperturbato
sorriso, delle più grandi bellezze
pur capace, così come d’infami,
vendicativi assalti ed agghiaccianti.
(…)

«Nonostante l’ardua scelta linguistica aulica e spesso arcaicizzante, incorniciata spesso da forme chiuse, la raccolta riesce a delineare lucidamente temi e stilistica, staccandosi da un immaginario apparentemente di maniera, per pervenire a un discorso che ha una propria originalità. Difatti, nonostante tutte le poesie a sfondo mitico, non siamo davanti alla restaurazione di un classicismo, ma, più che altro, a un percorso esistenziale che talvolta si sostanzia in pura riflessione, che soffre e, soffrendo, è come se rompesse da dentro l’intima quiete dei marmi mitici, all’interno dei quali si nasconde. Le tendenze nichiliste si possono evincere subito nella parte finale della lirica che apre la raccolta “L’arco”  (trafiggimi di strali / collacrimando alfin divino il bello). Il nulla incombe costantemente sulle poesie e la raccolta come un percorso che culmina nella intima accettazione che ad esso non c’è scampo e che ogni pretesa di immortalità, alla fine, è una velleità poetica ingenua, che il poeta però non riesce mai ad abbandonare, poiché essa rappresenta il suo tentativo di evasione dal flusso disgregatore e soffocante del nulla. Nulla che sembra addirittura spostato in secondo piano fra le morbidezze oniriche de Lo sposalizio dei sogni. Parallelamente alla mitologia si sviluppano paesaggi gelidi e freddi che rivelano. Da Fantasia corrotta in poi si manifesta la sofferenza, prima latente, che ora agisce con tutta la sua tensione a un tempo drammatica. Maggiore stilizzazione di questo processo è di certo L’Ultimo canto di Orfeo in cui, sulla scorta di Pavese,si presenta un Orfeo che lascia la sua amata Euridice, figura ormai sinistra e spettrale, assieme alla sua vita per abbandonarsi, quasi, al suo stesso massacro. Parallelamente anche il poeta, nella Lira, si abbandona definitivamente ormai rassegnato e dilaniato dalla imminente coscienza dell’inevitabilità del nulla. (La lira abbandono / la voce trafitta da mille e più dardi divini: / osservo cadere il mio corpo il mio tempo […])» (Luca Cenacchi)






Indaco ferito di Gabriella Bianchi (Perugia)

 

Gabriella Bianchi è nata e vive a Perugia. Ha pubblicato sei volumi di poesie: L’etrusca prigioniera 1984, Canzoniere 1990, Giardino d’inverno 2005, Cartoline da Itaca 2005, Il paradiso degli esuli 2009, Il cielo di Itaca 2011. È presente in varie antologie nazionali. Ha vinto alcuni primi premi. La sua silloge Il sogno breve è inserita nell’antologia Faraexcelsior 2013. Hanno parlato della sua poesia: Mario Luzi, Valerio Magrelli, Davide Rondoni, Maurizio Cucchi, Vincenzo D’Alessio (“L’intensità dell’esperienza vissuta trapela in ogni verso, segue una musicalità antica come il canto di Orfeo per Euridice.”).

I grilli punzecchiano la notte
con un solo monotono accordo.
Lo strepito domenicale si disperde
nel buio fondo.
Il lunedì giunge a coppe vuote
d’oppio e di delizia,
e la settimana si sgrana lenta
come un treno merci.


///


In queste notti
dove la luna è un disegno
se tu tornassi
ti aprirei la porta
ti chiederei se hai fame
sarei in imbarazzo
aspetterei una tua mossa
un cenno, una parola.
Tu che mi guardavi sempre
in fondo agli occhi
adesso sfiori di sfuggita i miei confini
con la mente altrove
senza sguardo.
Penso alla stanchezza del viaggio
dall’Ade fino a qui,
che distanza infinita hai percorso
per tenermi compagnia in questi
inizi di notte
dove i ricordi straripano.
Pochi minuti e te ne andrai
per il viaggio a ritroso.


///


RITA


Rita domandò la grazia di una rosa
nell’inverno lungo di Cascia
sepolto da una bianca coltre.
Forse era il delirio della febbre,
ma nella neve alta
spiccava il rosso di una rosa.
Lei ne bevve il respiro
e il profumo sottile,
tenendola con sé
quando vennero gli angeli
a rapirla al mondo.
Ma l’aroma restò nella cella
che odorava di paradiso.
(…)
 
«La poesia della signora (l’ho capito da qui: Sobbalzo se penso/ di essere stata tua amante) probabilmente professoressa (noi delle Magistrali/ eravamo ragazze di campagna/ che sapevano il latino). È una lunga litania i per la perdita, probabilmente, del compagno. Una raccolta che vorrebbe essere aspra, ma la tensione tragica è ammorbidita da quella dolcissima sensibilità femminile e malinconica che pur si sente intrappolata nella quotidianità che non riesce più a significare, forse, come un tempo; come si evince dalla poesia che apre la accolta i grilli punzecchiano la notte oppure come la stessa autrice sottolinea:  il lunedì non trascende/ i gesti quotidiani/ (la banalità di un caffè/ tra quattro mura opache/ stretto tra alte mura di granito/ prigioniere di scrosci di pioggia. Alla routine si affianca, nelle poesie tese al compianto, da una parte, un immaginario mitico, ma sinistro in cui si spiega e si sente il dramma perpetuo della morte che incombe sul candor; tendenza incarnata dalla stilizzazione più alta della raccolta nella poesia Aprile in cui l’upupa, uccello tombale, ma anche nunzio della primavera, si affianca ad altri tratti che contraddistinguono la stagione come il biancospino  sospeso, nelle liriche seguenti, fra toni liberatori e accezioni sofferenti; dall’altra abbiamo l’affiancamento di una luminescenza cristiana rinnovatrice, che si affianca allo spirito di rinascita primaverile che pervade molte poesie, il quale si oppone alle ombre dell’Ade e al mondo cupo delle ombre. Ciò si esemplifica nel componimento Rita o nella poesia  Un filo di Nebbia in cui l’elemento candido(la lepre morta sul bordo della strada) riesce a superare ammorbidendo il dramma della morte e del distacco, pervenendo alla dimensione di quiete della vita ultraterrena, quello stesso giardino primordiale cui la poetessa non nasconde di anelare. La tensione alla liberazione infatti è protagonista di molte poesie, ma quasi sempre presente nell’ultima metà di queste ultime cui si affianca un senso di straniamento sofferente per paesaggi e luoghi, ora grigi, di cui si intuisce, per contrasto, la perduta familiarità vitale. L’impostazione della raccolta trova la sua sintesi di stile maggiore in quelle poesie dove si dispiegano associazioni vivaci di un lirismo descrittivo, che testimonia morbidamente il momento di crisi interiore della poetessa, costretta a vivere con l’ombra del lutto alle spalle.» (Luca Cenacchi)


«Bella poesia, ricca di seducenti immagini poetiche attinte a solidi sentimenti.» (Vincenzo D’Alessio)





Gli invisi opposti di Elena Varriale (Napoli)

 

Elena Varriale è nata a Napoli, terra di mare e fuoco e nell’aria che respira ci sono oracoli di Sibilla e canti di Sirene. Ha pubblicato articoli, saggi e due raccolte di poesie (Lo so che sbaglio, Tracce 2007, e Solubile Scompiglio, Tindari Edizioni 2012). Suoi scritti (poesie e racconti) sono stati selezionati e pubblicati in antologie e riviste (Aletti, Giulio Perrone Editore, Lietocolle, Fara, Limina Mentis) e nel blog di Poesia Rai News curato da Luigia Sorrentino. Ha ricevuto riconoscimenti in premi letterari nazionali e internazionali. Il suo romanzo breve Se sei nato caos non puoi diventare armonia è stato pubblicato nell’antologia Faraexcelsior 2013. Il suo scritto “La parola è un silenzio abitato” è inserito ne Il luogo della parola (Fara 2015). La usa ultima raccolta è Intralci ed intervalli (Fara 2015).

BENE E MALE
“Nessun bene si può avere al mondo, che non sia
accompagnato da mali della stessa misura.”
Giacomo Leopardi


Sul finire dell’estate
la parola si fece vate
di conflitti bilaterali
e distanze abissali.


Voci d’invisi opposti
non ancora ricomposti
diffusero congetture
per sanare le iatture.


Ossimoro del sentire
o condizione del patire
legame ancestrale
univa il Bene al Male.


///

Con mani sempre piene
le virtù spargeva il Bene
con vizi e fredda rabbia
il Male partoriva accidia.


Il tema si fece biunivoco
ma non risolse l’equivoco:
nel pregio c’era il difetto
nella dignità, l’abbietto!


Innocente e peccatore
l’uomo è dal suo albore:
mano stesa l’uno all’altro
l’animo paco e lo scaltro.


///

Male è figlio di Malizia
sua maestra fu l’Astuzia
privato subito d’affetto
far soffrire è suo diletto.


Bene allevia il fardello
e toglie fiato al rovello
Padre d’amore infinito
di tenerezza si fa anelito.

Sulla linea d’orizzonte
come Giano bifronte
il sereno e l’accigliato
si fanno speculare afflato.



«Poesie in cui la riflessione esistenziale dà vita ad una tensione di ricerca espressiva finalizzata alla compiutezza della corrispondenza tra pensiero e forma.» (Rosa Elisa Giangoia)





Opere commentate




Mille porte di casa di Valter Urbini (Rimini)

 

Valter Urbini nato a Rimini. Dopo una lunghissima pausa ha ricominciato a scrivere versi. Ha ricevuto qualche riconoscimento ed è incluso in diverse antologie tra cui Poeti contemporanei e non antologia di poesia civile edita da Edizioni Agemina 2012; plaquette artistica Il tempo nel silenzio del tempo, Gattili editore 2013; Donna è poesia e In vino litteras entrambe Edizioni Ensemble 2013; Rime in Romagna, Il Violino Edizioni 2014; Come farfalle diventeremo immensità, Fara  2014; Scrivendo Poesia, Historica edizioni 2015; il segreto delle fragole 2016, LietoColle 2015.

LO SPOSTAMENTO DELLE LABBRA
PERFETTO MOVIMENTO DEI PENSIERI
- VOI -

Ha rubato la povertà
lasciando tutto il resto
appeso alle ombre delle pareti.
Il paesaggio è entrato dalla finestra
ha acceso il sole nella stanza,
tutto quello che non potevo avere
è scomparso in un attimo,
così ogni volta il giorno
mi ruba i sogni.
Poi ricostruisco pezzo per pezzo
quello che è stato tolto
fino a che non torni la sera.
È illusione essere felice?

///

Sarò ciò che ero
non chiedermi chi sono
non mi ricordo più chi sei.
Cara vita come fare ad amarti sempre?
Com’è facile perdersi nella nebbia dell’autunno e poi è inverno.
Nei salici dei pensieri potessimo confonderla con la primavera
che spavento sarebbe l’estate.
Do ordine alla polvere tra le pieghe dei sogni,
vivi i pesi della vita come forme geometriche
senza che siano cerchi che ritornano nello stesso punto.

///
Nascoste tra le pieghe del vento
fessure delle ombre,
chiamo le orme per ogni nome dei tuoi passi.
Non si riesce a parlare alla vita,
con la tua voce sottile
tra le travi e pilastri fessure a incastro
non inquadrare il ferro arrugginito dal gelo
sempre cambiano gli incontri prima del tempo,
senza dare al vento
le orme lasciate su uno specchio d’acqua,
tutto quello che manca
sono la forma delle onde
mare in tempesta fiumi contro corrente
labirinti mai risolti
i sogni che ho asciugato. 
(…)

«Buona poesia, attenta all'interiorità dell' Universo umano e al miracolo del rinnovo della vita.» (Vincenzo D’Alessio) 

 

 

I mutilati di Elena Zuccaccia (Perugia)

 

Elena Zuccaccia, autrice esordiente (salvo alcune apparizioni in antologia e in alcune riviste online)

Nata a Perugia il 20/07/1988.


SIBILANTE SOLA





quanto è grande questa
solitudine che sento


quando la esse della
parola stessa
si fa sibilo
e sola
riempie tutto


striscia nella stanza
una biscia
e sono io
monito di me stessa
sibilante sola


IL CORPO LIQUIDO

mi sento tutta liquida
non ho mani
nessun organo prensile


si stende il corpo liquido
tra le scanalature delle
mattonelle
/ ora acqua che corre
nervosa
/ ora pigra lenta cera


o stagna informe fermo in una
pozza
 / gli occhi spalancati al soffitto
e una paralisi del corpo liquido
immobile fino ad inghiottirsi


ANDANDO E STANDO

vorrei di nuovo morire

(come la volta in cui sono già
morta
e – giuro – nata di nuovo)


ho voglia di morire
un desiderio spaventoso e
carnale e
vitale


del corpo e
della vita


e un magone mi prende

se solo potessi sempre
andare e tornare


quella sarebbe la vita

andando e
stando andando
e stando



«Versi spinti alla ricerca dell'identità dell'esistenza.» (Vincenzo D’Alessio)





Punto di arrivo di Marco Colonna




Marco Colonna, nato a Palermo il 4/4/1964, vive a Forlì. Attualmente dirige (dal 1999) la testata on line di cronaca e attualità politica SestoPotere.com, capoufficio stampa del sindacato Ugl segreterie dell' Emilia-Romagna e di Forlì-Cesena e Rimini, scrive testi di economia e politica per la testata LaMetaSociale.it , cura il canale You Tube Lotta alle mafie , modera dibattiti su economia e ambiente con personalità italiane ed estere, ha scritto articoli per: Il messaggero ed. di Forlì, Gazzetta di Romagna, Il Resto del Carlino, Il Giornale, Lo Stato, Il Borghese, L'Uomo Qualunque, ha scritto  testi per i Tg di VideoRegione ed Aria radio, svolge attività in comitati in difesa di ambiente ed animali. Ha scritto libri di cinematografia.


Punto d'arrivo



E fino all'ultimo hai lottato,
come animale che non molla.



Forse con gli occhi mi hai cercato,
prima che il tuo chiudere le palpebre
fosse riaprirle inondate di silenzi.



                           Il dover bere prima di morire,

                           ed io non c'ero a prenderti le mani.





Preme sul costato

Preme sul costato il ferro dell'addio
e spinge fino a che sia morte viva

e incandescente. Tocca le mie carni
 l'ultimo sguardo piangente 


io che non ti ho trattenuto
e non ti ho salvata. Avessi avuto
mani onnipotenti, quando era tempo,
e non le leve piccole d'amore



che il mondo smuovono  eppure nulla tengono
che non sia cosa da poco, solo terra,
e tanto piu' colei che ho amato
e vita mi ha donato partoriente. 




In memoria

Piove sempre nei gesti della fine
il precipitare dolce dei ricordi,
muore in un fiato il seminato

che ci portiamo in grembo
per partorire morte nella culla
della terra che tutto seppellisce

e nulla perde che non sia
 in sé stessa, vita, poco distante
dal suo centro sempre acceso.

(…)


«Buona poesia di ricerca.” (Vincenzo D’Alessio)




L’Alieno di Edoardo Gazzoni (Rimini)

 

Edoardo Gazzoni, nato a Biel/Bienne in Svizzera nel 1987. Laureato in Scienze antropologiche all'Università di Bologna è alla sua prima silloge. More e asfalto è il risultato di due anni di osservazioni e suggestioni che attingono dalla realtà per andare verso un confine immaginato e mai trovato fino in fondo; la sintesi di un percorso che vede nell'ambivalenza e nel procedere per coppie di opposti il senso di una ricerca soprattutto umana prima che artistica. È presidente del colletivo Slow lapin che organizza poetry slam e altre cose così in Romagna e non solo.


Microcosmo

o della possibilità di valicare universi di tempo e luogo nello spazio di una cucina
o altri simili vani di immobiliari qualità






Biel\Bienne


C’era un pony a Macolin
e una gallina pelata – io la chiamavo così –
legno che dondolava tra la molla rossa
e i manubri raschiati dal freddo.

Quando arrivava la neve stavo seduto sul bob
mentre mio padre mi trascinava.
Guadagnavo una discesa, talvolta.
Un giorno il pony mi inghiottì la mano
                   (gli avevo porto una zolletta).


*


Facevamo picnic al lago, fino a sera.
Steso sul letto mia madre inventava storie,
mi addormentava con Bello e Impossibile;


strana canzone per un bambino,
la voce roca della cassetta garantiva il sopore
mentre stringevo le barre del letto, mia prigione,
mia protezione per non cadere.


*


C’era un pony a Macolin,
ma io vivevo a Biel\Bienne,
vicino a monsieur Fredevoux

– qui tire en premier, il gagne –
ripeteva, portava una pistola,
memoria della guerra.

Al piano di sopra due musicisti,
uno suonava la batteria, il loro cd resta
posato in mansarda (anche loro vivevano nella mansarda)
lo regalarono prima del trasloco.

Una volta venne la nonna,
mi donò un aereo a batterie,
suonava come al decollo anche quando atterrava.
                    (non atterrò molto, lo ruppi presto)


Tornai in vacanza dopo il trasloco,
dei tedeschi risero del mio taglio a caschetto.


*

Facevo due sogni ricorrenti a Biel\Bienne:
                 fiumi di giornali sgorgavano
                 dalle rotative e il titolo era sempre
                 sulle tartarughe ninja. (come conoscessi                  le rotative resta un mistero)


                 Ero un funambolo, marchiato sulla fronte
                 da una foglia d’acero o un sigillo druidico,
                 la corda era tesa su un lago, dal lago                  sorgeva una giraffa.

Ed io non ero più sulla corda,
sospiravo sulla riva,
conscio di esser vivo per miracolo. 
(…)

«Poesia ironica carica di emozioni.» (Vincenzo D’Alessio)




36 scalini di Giuseppe Vaccarini (Rimini)




Beppe Vaccarini è nato Castel del Giudice nel 1957, un piccolo paesino in provincia di Isernia, ma vive da sempre a Rimini. Pittore, poeta, esperto di musica ha condotto per alcuni anni programmi musicali su Radio Rivera e Radio San Marino. Negli anni ’80 apre un negozio nel centro di Rimini il New Note che diventa in poco tempo il punto di riferimento di tutti gli appassionati di musica rock, punk, new wave e jazz. Attualmente si dedica alla poesia e al disegno.

Il riflesso del mattino

Certo il riflesso del mattino si compone con cautela esagerata.
Certo la cautela pare
ambiziosa e sfrontata,
ma il suo essere così prezioso fa di lui argomento assai raro.
Settembre 2012


Perdonami

Perdonami amore mio se sollevando il tuo velo ho ferito il tuo cuore,
lasciando scivolare le mie lacrime dentro le nostre incomprensioni.
Perdonami, amore mio, in questa fragile sera d’autunno.
Ottobre 2012


Gente di paese

Gente di paese uscì di casa ed incontrò un gesto semplice.
Avvolti da un magnifico nulla, dialogarono con lui,
privi di qualsiasi coscienza.
Rimando a loro gli attimi interminabili e questo sereno
non essere a questo conviverne senza alcun dolore
a farsi bastare l’immenso nulla ed alla loro leggera vita.
Ottobre 2012


Il mare sopito

Attendendo un mattino qualsiasi, mi assopii di fronte al mare gentile di questi giorni.
La brezza primaverile aveva stregato anch’esso, in attesa di uno smemorato signore.
Il pensiero mi aveva abbandonato, lasciandomi solo alcuni interminabili e spaventosi sogni.
Questo mare accarezza il mio attendere ed io svegliandomi trovai i suoi riflessi e le illusioni ormai vive solo nei
miei sogni.
Novembre 2012


Ospite ingrato

Ora il piacere di non mancare al proprio destino, si offre al dolore straniero.
Sopito da tempo, dimenticato esso, ospite ingrato e temuto compagno,
s’immerge nei solchi antichi dei pensieri più cari e il suo riflesso a poco a poco uccide.
Novembre 2012


Al centro di ogni destino

Forse l’umore del vento, nelle leggere sere passeggiate da pensieri profondi,
ripone il mestiere del vivere al centro di ogni destino ed il semplice fruscio
dei sentimenti si adagia sulle nostre speranze.
Dicembre 2012
(…)


«Frammenti poetici fondati sulla memoria e sul desiderio di trasmetterla.» (Vincenzo D’Alessio)





Il dio con cui rido di Angela Angiuli (Bolzano)

 


Angela Angiùli è nata in provincia di Bari nel '71, ma vive da molti anni a Bolzano con la famiglia. Coltiva da sempre in parallelo le sue due principali passioni: la formazione del gusto di vivere negli adolescenti marginali o “difficili” (a scuola o nel volontariato) e la scrittura creativa e poetica. Ama le parole, la Parola, i libri, le chiacchiere, le canzoni e tutto ciò che crea legame e solidarietà tra gli esseri umani. Scrivere è la sua maniera più intensa di stare al mondo. Di recente le sue poesie hanno ricevuto diversi consensi (premio S. Sabino di poesia religiosa e premio Mario Luzi per la silloge inedita Storie di un tempo minore). Alcuni suoi componimenti sono presenti nella raccolta di Autori Vari Le parole dell'anima (ed. Appunti di Viaggio) e in 2016. La luminosità dell'ombra (Fara).


Dedicato ad Aurora
e a tutti i piccoli e i poveri
che mi hanno preso per mano
nel cammino della Vita.

Dio che ride
Dio che dimora in noi
disteso e confuso
della sua stessa commozione.
Dio che ci adora
ci porta alla bocca e ci sfiora
che fa silenzio - in noi -
come un inizio nuovo di doglie buone
– accompagnate –
da una levatrice di carezze nate di bene,
Bene del Dio che sorride, del Dio senza denti
Dio senza nome possibile a tutti.

Che ride, che gioisce, Dio che ci gode.
Amante di tutti.

///

Io sogno L’Umanità
picco altissimo e consonante
materia di Ogni Bene.
Perfetta causa di giustizia – divina –
e pascolo e distesa per ogni animale.
Ti sogno o Dio
pascerti fra i nostri campi
disteso al sole di Te Stesso
perderti nel Corpo della tua Bellezza
in questo vertice di quieta disperazione
giustificare in noi lo strazio, l’attesa.
Così ogni Uomo sarà per te ricerca
affannosa, fiato sospeso, divina
malinconia, gettata al fondo del mistero.
Dove più buio è il mio cuore.
E gambe e teste e piedi e mani,
tutto, tutto sarai Tu e guardandoti
dirai: Mi piaci.
Ricomposto e nudo.

/// 

Tu ridi in me
sorridi nella mia bocca
e a quella testa che entrò nel sole
fu inutile stupire il cervello - massa informe e perfetta –
fate silenzio – dicevano –
perché dormiva.
Ma tu ridi forte – ti prego – stupisci gli organi
scavalca i viali
arriva festoso agli scantinati dell’anima
incendia nell'aria gli steccati del cuore.
Ridi Amore – ridi –
fa festa di noi. 
(…)

«Bellissima poesia intonata sulle corde della Fede.» (Vincenzo D’Alessio




La guardia di Alberto Trentin (Breda di Piave TV)


AlbertoTrentin nasce nel 1979 a Treviso, dove tuttora risiede e lavora. È sposato. Ha studiato filosofia (a Venezia e Firenze, laureandosi ed addottorandosi su Giordano Bruno) e pedagogia a Firenze; studia psicologia e oltre a dedicarsi alla poesia scrive saltuariamente di letteratura. Ha recentemente vinto il concorso Rapida.mente con inserimento nell'omonima antologia (Fara 2016) e il Pubblica con noi 2016.


Si aveva la sensazione di spiare il mondo
da lassù, dal buio verso il chiaro, dal silenzio verso il rumore;
era anch'esso un solaio, dunque parte del sopramondo, una specola.
Luigi Meneghello, Libera nos a Malo

Così, pensando, gli parve cosa migliore,
pregar di lontano, con parole di miele,
ché a toccarle i ginocchi non si sdegnasse in cuore la vergine,
Subito dolce e accorta parola parlò:
«Io mi t’inchino, signora: sei dea o sei mortale?
Omero, Odissea, VI, 145-149 (trad. It. di Rosa Calzecchi Onesti)




PANOTTICO


NON GUARDARE

Non posso verificare
col mio sguardo negletto
l’ultimo materno sofisma
che sta al cuore della mia età
come uno spaesato fantasma.
È settembre a mostrare
nel solco di gocce cadute
segni di passate memorie
agli occhi incoscienti
di averle perdute.




PAESE

In questa età che sconto
tra legacci e rimpianti
ti guardo ancora
con l’aria stupida che hanno
certe persone passate
quando tornano a casa.
Tutto è così poco familiare:
un lavoro mal sortito, una paga
che arriva a stordire
e il ricordo di una zuffa
lontana, nata per sfizio,
una gara a farsi morire.




LINCEO

Nessuno si accorge dello scarto
quando ti guardo. Eppure
fingo di essere cieco,
di andare a tentoni
in tutte le scure
nottate.
D’estate
eccoti in sorte
il ricordo sbieco
dei miei abbandoni.
Non sai che il mio sguardo
ti guarda per negare la morte? 
(…)

«Bella ricerca della strada poetica con molta attenzione all'uso della parola.» (Vincenzo D’Alessio)



 


Silouhettes e altri versi di Roberto Borghesi

 

Roberto Borghesi è scrittore e traduttore bilingue dal francese, essendo colà nato e vissuto per dieci anni. Adolescente accoglie l’insegnameno di P.P. Pasolini e di F. Nietzsche secondo l'angolo interpretativo di Giorgio Colli. Altre fonti cui ha attinto sono Jacques Derrida e Jean-Luc Nancy, con cui corrisponde e di cui ha tradotto alcuni libri, tra cui L’adorazione. È autore di un testo sulla nozione di grandezza mutuato da G. Colli, Nietzsche per una filosofia della grandezza (2009), e del testo di fiabe Fanny che voleva sognare (2013), oltre a vari saggi, articoli e poesie.


Valeria

Come prima, più di prima
Vale la promessa che ci siamo dati
Di essere fidanzati nel silenzio assoluto
Di essere innamorati e compiaciuti
Tu sei nel mio destino
E fin dal presto mattino
Ti regalo il mio futuro
Ed io sono sicuro
Che saremo a fianco ciascuno
Già da ora e non lo sa nessuno
Noi sappiamo e amiamo il mistero
Noi amiamo quello che è vero
Noi viviamo la vita ogni giorno
Amando chi ci sta intorno
La tua parola vale
Come il silenzio di una colomba
Ed è normale che non possano capire
Che io sarei pronto a morire
Perché sei così preziosa
Perché sei bella come una sposa
Per i tuoi bambini
Per quelli che sono nei nostri destini
Vale la pena di provare
Di ricominciare
Di rinnovare eternamente
Il mio il tuo presente,
oh tu che sei così preziosa
che sei bella come una sposa
che sei tu la mia “rosa”
che vale più di ogni tesoro
te lo voglio dire con decoro
senza forzare, ma osare
dammi la mano
e andremo lontano.
Lontano, lontano.




Silvia

Silvia dagli occhi sorridenti
Fin dal primo giorno dietro al bancone,
Dalla cena alla colazione
Tu fai i clienti contenti
Hai gli occhi espressivi e vivi
Sei pronta a capire ogni battuta
La tua simpatia non va perduta
Porti agli avventori toni giulivi
Chissà sei ha uno spasimante?
La domanda è intrigante
Il camionista o il ciclista
Ti chiede una birra o un panino
Una caramella chiede il bambino
La ragazza il gelato ben in vista
Silvia generosa, spio se hai l’anello
Se sei sposa di un fortunato che frequenta
Il bar guardando attorno a quello
Che sul bancone la gola tenta.
Silvia, occhi azzurri da amare,
tu impari a ben servire
Ascolti chi racconta del mare
Chi dice della luna che va a morire
Come sei bella barista esordiente
Intimidita dal primo contatto con la gente
Intimorita dalle lunghe ore di caffè serviti
Dalla paste dai sorbetti assortiti
E c’è chi chiede una sigaretta
Ti scegli la marca senza fretta
Io arrivo casualmente e sorridente
Saluto il tuo saluto educatamente
Mi godo un buon caffè accompagnato
Dal tu largo sorriso, e resto beato.
Silvia giovane barista buona fortuna
E il tuo destino sia aperto e sereno
E di questo bar non perda il treno
Verrò una sera di piena luna
Ad offrirti un mio liquore imbottigliato
Con l’elisir dell’unnamorato.
Buona fortuna giovane Silvia
Giovane Silvietta di questo bar la nuova sirenetta. 
(…)



«Versi traboccanti di ironia e passione per quanto l'uomo desidera realizzare in questo breve viaggio nel mondo.» (Vincenzo D’Alessio)