venerdì 20 ottobre 2017

"Datemi un pianto senza specchi". Gesualdo Bufalino poeta


di Mario Fresa


Bufalino in un ritratto (2017) di Mario Fresa


Aristocratica e pudìca, la voce poetica di Gesualdo Bufalino (Comiso, Lunedì 15 novembre 1920 – Vittoria, venerdì 14 giugno 1996) risuona oggi come l’eco di un respiro malinconioso e segreto, consegnato alla perfezione di un’ombra costante, di un dolore incancellabile: una lingua assoluta, estrema, che tira a salve contro l’Autore stesso, entrando quasi di soppiatto, nel corpo e nella mente di chi la legga, come dolcetormentoso ϕάρμακον (balsamo e veleno, terapia e distruggimento), inevitabile e impietoso. Poesia del ricordo e dell’afflizione, dunque, ma pure focosamente provvista di una inquietudine enimmatica, perché sempre vicina al pericolo della schizofrenia, e sprofondata in una ressa acuta di sentimenti che tra di loro guerreggiano con ansia incontenibile: ora, infatti, senti un’acuta, sensuosa eccitazione, l’aprirsi di un erotismo tenue, lunare; e ora vedi l’emergere di un marasma vertiginoso, trafitto dalla pena e dalla disperanza, dall’attesa di «un nome» o di «un altro viso» che possano infine diventare linimento e conforto, arma-toccasana che permetta di affrontare la buia, insopportabile esistenza nella quale ogni uomo, a conti fatti, risulta jeringado («fottuto», come dice Francisco Goya nel commentare il suo cinquattottesimo Capriccio); una esistenza piena di stretti e incomprensibili corridoi, e ingombra ovunque di tagliole e «di corde e di rasoi». Nel gioco bivalente della scrittura, l’io del poeta si nasconde e gioca contro sé stesso: dice segretamente e si ripara dietro la lucida armatura di uno stile prezioso e raro, che mima lo stupore dell’impossibile e il tedio dell’esserci (ma può, in fondo, una poesia, essere qualcosa di diverso da un labirinto, da un gioco privo di soluzioni, da un arabesco incompiuto, da un medicinale scaduto?). Lingua d’amore e di sconforto, quella di Bufalino, che s’aggrappa alle insidie e alle soavi crudeltà della memoria e dell’attesa (chi è il destinatario dell’ultima poesia? E chi attende il poeta? L’invisibile angelo che ci farà cadere, noi jeringados, in un eterno mare muto? Il sempre ritardatario, e assente ingiustificato, Godot? La Risposta a tutte le domande che non cessiamo di rivolgere a noi stessi?).

Poeta di lucentezza cupa, di misteriosa tenerezza, Gesualdo Bufalino si getta nella rena di una strana e infinibile cerimonia: combattendo contro la speranza e in nome suo (ma, infine, arrendendosi alla stessa); e poi scrivendo, di continuo, in memoria dell’amore,  reale o immaginato, o presente o dissolto; e agendo, finalmente, come un sonnambulo che sogni di vivere, o come un vivente che desideri addormirsi nel ricordo e nella leggerezza, nell’assenza e nell’eterno ritorno di «carte» e «firmamenti», e di «paradisi dipinti» e di incantevoli «rose sdrucite»: splendide e arcane bellezze vanitose.




Gesualdo Bufalino, undici poesie da L’amaro miele (1982)




Bestiario

Un gallo facinoroso
è il sole dentro il tuo pugno:
fa subbuglio di piume d’oro.

Ma nella ingannevole acqua
delle tue palpebre piomba
un bruno falco, s’acquatta
un’atterrita colomba.


Improvviso d’amore

Losanghe di cieli, cieli di gesso,
vecchio terrore che indosso ogni giorno;
muraglie da cui sempre mi ritorna
questa mia strenua voce d’ossesso;

e libri, voi, paradisi dipinti,
reticolati d’assurdo quaderno,
trionfo e sbarre di carcere eterno,
fughe immobili e nero labirinto:

oh mescetevi, carte, firmamenti,
memorie, fate rissa entro di me,
e inventatevi un nome, un altro viso.

Ora che lei m’ha parlato alla mente,
lei nel suo scialle di sposa di re,
con gli stupori e i corrucci e le risa…



Eine kleine Nachtmusik


La musica ci giunge dalle terrazze
lontane, stesi così sulla sabbia,
coi capelli confusi e felici,
fra muraglie di bianco diluvio,
così sorpresi d’esistere in due
sotto la coltre benigna dell’aria,
disincarnati e carnali, perfetti
come due palme nude, unite.



Paese

Nel guscio dei tuoi occhi
sverna una stella dura, una gemma eterna.

Ma la tua voce è un mare che si calma
a una foce di antiche conchiglie,
dove s’infiorano mani e la palma
nel cielo si meraviglia.

Sei anche un’erba, un’arancia, una nuvola…
T’amo come un paese.



Nascita del peccato

Fu nel fumo, nel rossore d’un orto,
e i cotogni odoravano tutt’intorno
così forte (non bisogna ricordarsene).

in tanti, ognuno sdraiato e smorto,
un’aspide prava, un’aspide storta
ci morsicò l’occipite,
le mani adulte e furenti.

Poi ne parlammo sottovoce a due a due,
tutto quel giorno e l’altro.



Preghiera di mezzogiorno

Almeno mi scoppi di grida
la mente nei corridoi
di questa casa da suicida,
piena di corde e di rasoi.

Ma è sempre un altro, è sempre un altro
che si lamenta in vece mia,
e l’angoscia si fa più scaltra,
più volontaria la pazzia.

Datemi un male senza libri,
datemi un pianto senza specchi,
una croce che sopra mi vibri,
fatta solo di vento e di stecchi.



Svolta

Venga l’autunno a dirci che siamo vivi,
seduti sull’argine rosso
a guardare l’acqua che se ne va.
E tornino le pezze di turchino ai cancelli,
i casti numi di gesso, le rose sdrucite,
le vesti liete dei fidanzati,
tutto rinnovi il tempo il suo mite apparecchio.
Poiché, mentre l’aria rapisce
nel suo sonno le foglie del sangue,
e così piano mi tenta
quest’esule sole la fronte
è bello qui fermarsi per dirti addio,
mia giovinezza, mia giovinezza.



Iniziazione

Nella bella pazzia
così superbo e timido
tento i miei gesti primi
come il bambino a mezzo maggio sporge
il piede bianco nel mare gentile.



Esercizio con sentimento

Per l’alto cielo odoroso d’arance
e di camicie nude al davanzale,
come caro lo scroscio che m’assale
di sole tardo la povera guancia.

Oh riaprirsi all’affettuosa lancia,
tornare uccello di giovini ali…
vita, puoi dunque ancora non fa male,
se mi dài questa incredibile mancia.

Ma tu, cuore, detrito di tempeste
inaccadute, che pensi, che dici,
nel girotondo d’arancia celeste?

Sapessi riparlarne con gli amici,
ritrovare una sera le tue feste,
ingenui moti, vanità felici.



Inerzie

Con occhi all’aria, orecchie di cere,
impietrito lungo il viale,
c’è un popolo di marionette;
la mosca che volava non vola più.
Peli, unghie, licheni, hanno smesso di germogliare,
dal labbro della statua pende fiacca una goccia,
la meridiana sull’intonaco
scambia mezzogiorno per mezzanotte.
S’è fermato un cuore.



Versi scritti sul muro

Più lontano mi sei, più Ti risento
farmiti dentro il cuore
sangue, grido, tumore,
e crescermi sul petto.

Più sei lontano e più Ti sento addosso,
fra l’abito e la carne,
contrabbando cattivo,
volpe rubata che mi mangia il petto.